da "AURORA" n° 37 (Ottobre - Dicembre 1996)

TEMI E PROBLEMI DELLA SINISTRA

 

Ingrao: una splendida intervista

Enrico Landolfi

 

 

A più di ottant'anni suonati Pietro Ingrao, il mitico leader della sinistra del fu PCI, nulla ha perso del suo carisma, del suo fascino intellettuale, della sua creatività intellettuale. Ove qualcuno nutrisse dei dubbi in proposito è vivamente pregato di procurarsi il numero del 5 agosto del quotidiano "La Stampa" di Torino -occasionalmente capitata in ottobre nelle nostre mani- e leggere con molta attenzione, a pagina 3, una intervista rilasciata ad Alberto Papuzzi e da costui resa di pubblica ragione con il titolo "Il prezzo della pacificazione".

Da notare che l'ottimo Papuzzi quanto ad antifascismo post-semi-secolare -questo è il tema di fondo della conversazione- pensa di poter dare dei punti al Presidente della Camera dei Deputati, che incalza con domande di tipo «azionista» ricevendo risposte ovviamente in chiave antifascista e tuttavia confortevolmente permeate varie volte di senso della misura, di umanesimo, di pacatezza nel linguaggio.

Procediamo, per così esprimerci, «fior da fiore». Ad un certo punto dei conversari il Papuzzi, un po' provocatoriamente, domanda: «Ma i torturatori nazi-fascisti di Villa Trieste, della banda Carità, della banda Koch, di via Tasso, sono stati puniti o no?». Ecco la risposta con cui Ingrao svelenisce la materia: «Confesso che non lo so. Ma non sto chiedendo giustizia su tutti i responsabili». E soggiunge, giacché l'interrogatorio ha preso l'abbrivio dal processo Priebke e relativa sentenza: «Insisto: le Fosse Ardeatine riguardano il simbolico. È il modo con cui un Paese legge la sua storia».

Quindi il buon Papuzzi chiede: «Lei cita Nolte e De Felice: la sentenza Priebke fa parte della cultura e del clima revisionista? I ragazzi di Salò vanno compresi o vanno puniti?». Sorprende l'Ingrao-pensiero su questo punto: «Io credo che bisogna comprendere (e analizzare) tutti i protagonisti della tragedia che ha spaccato questo secolo. Ma comprendere non vuol dire assolvere Priebke». Benissimo. Nessuno che abbia solo un grammo di sale in zucca si sogna di fare il tifo per Priebke e di chiederne l'assoluzione, fermo restando però il diritto di un magistrato all'autonomia del proprio giudizio e il rifiuto di essere solo un ventriloquo convocato per leggere il testo di una sentenza scritta da altri prima della celebrazione del processo. Quanto al contenuto delle risposte, ciò che positivamente impressiona è la dilatazione generosa che l'autorevolissimo leader morale e ideologico di ciò che resta del comunismo italiano fa dell'area della «comprensione». Egli, infatti, non la restringe ai cosiddetti «ragazzi di Salò» -più correttamente, pensiamo, noi parleremmo di combattenti della Repubblica Sociale Italiana-, ma la allarga perfino ai «protagonisti« dell'immane e dolorosissima vicenda bellica che per quasi sette anni ha spaccato in due il pianeta. Non riusciamo ad immaginare come una posizione del genere possa essere accolta e vissuta nelle redazioni di giornali come "il Manifesto". "Liberazione", "l'Unità", "La Repubblica", di settimanali quali "Aggiornamenti", "l'Espresso", "Panorama", di riviste tipo "Critica Marxista", "le Ragioni del Socialismo", "Micromega", etc. Forse, o senza forse, solo nella dalemianamente ormai «buonista» "l'Unità" queste enunciazioni sopra le righe del vecchio Pietro sarebbero più o meno parzialmente accettate, sarebbero state parzialmente accettate lo scorso agosto. Ma ben misera cosa è la nostra speranza di un diffuso «buonismo» nelle altre aggregazioni redazionali testè elencate, imbottite come sono sicuramente di penne molto brillanti e talora addirittura eccezionali epperò pure di trinariciuti della più bell'acqua.

Per quel che ci riguarda, salutiamo in Pietro Ingrao -della cui prosa e oratoria oltre che, beninteso, delle sue idee sempre siamo stati voraci consumatori, pur non essendo mai stati comunisti- non soltanto un esponente della cultura e della politica della Sinistra fra i più gettonati, ma anche, osiamo dichiarare, il fondatore di un comunismo umanistico e libertario totalmente nuovo, sia pure, almeno per il momento, soltanto a livello di magistero teorico ed etico. Preannunciato, peraltro, allorché anni or sono ebbe ad esternare ad un cronista della RAI che lo torchiava con domande dal tapino ritenute «imbarazzanti» la sua estraneità ad uno specimen di comunismo che non fosse intuito come portatore e garante di ogni libertà politica e civile nonché di esaustive espressioni democratiche formali e sostanziali.

Così, ancora, incalza il Papuzzi: «Quanto può pesare, in una vicenda come questa, la cultura del perdono?». Più che mai umano, umanistico, il rilancio ingraiano: «Il perdono non è il giudizio. Se questo Paese vuole graziare Priebke, lo faccia (non amo il carcere e l'ho anche scritto). Ma dopo aver dato nome al delitto». Ebbene, il nostro accordo con tale enunciazione è totale. Tanto più che, di recente, ci è capitato di dichiarare in uno scritto repulsione non solo per la pena di morte ma anche per quella carceraria, da noi giudicata perfino più perversa, in certi casi, della sedia elettrica, del patibolo, della gasificazione, della fucilazione, etc..

Ulteriore interrogazione: «Quando Indro Montanelli dice che ha senso condannare Priebke solo se si condannano tutte le rappresaglie, anche quelle dei vincitori, non ha un po' ragione?». Puntuale l'adesione alla tesi montanelliana: «Assolutamente si». Poi, però, aggiunge -se non manifestasse questa linea, che antinazista sarebbe?-: «A condizione però che questo non serva a confondere la scala dei valori e a mettere tutti sullo stesso piano. Non dobbiamo dimenticare il culmine pratico e simbolico che hanno raggiunto le Fosse Ardeatine e Marzabotto. Soprattutto non posso dimenticare che il nazismo aveva eletto il genocidio a metodo di governo del mondo. Sono quelli di Auschwitz. Qui è il punto decisivo». Perfetto. Però siamo certi che in cuor suo Ingrao avrà congruamente valutato di quale pasta terroristica e stragistica fosse fatto, sia fatto, il «missionarismo» mondialista degli Stati Uniti d'America, pur con la copertura ideologica offertagli dal ruolo di nazione leader del «mondo libero» più o meno auto-attribuitosi. Un intellettuale del suo spessore impegnato ai massimi livelli -finché questi ci sono stati, naturalmente- non ha certo bisogno di andare in biblioteca e rileggersi i testi di Lenin sull'imperialismo come fase suprema del capitalismo e sulle contraddizioni interne allo stesso imperialismo derivante dalle rivalità fra gli Stati capitalistici, per capire come sono da distribuire ragioni e torti, errori e orrori, delitti di massa e genocidi, fra gli schieramenti che si sono duramente confrontati nella prima metà del secolo ventesimo fra il '39 ed il '45. Gli basta slanciarsi sul filo dei ricordi verso quegli anni e soffermarsi sui bombardamenti terroristici che letteralmente distrussero non soltanto il fascismo e il nazismo ma, prima ancora e ben più intensamente e diffusamente di essi, l'Italia e la Germania. E il Giappone? Non fu, forse, «atomicizzato» -Hiroshima e Nagasaki, ricordate?- quando era ormai boccheggiante e ad un tiro di schioppo dalla resa? Tutto un modo di mostrare i muscoli, nucleari o meno che fossero, destinato a trovare puntuale riscontro in vari tempi, modi, circostanze a partire dal dopoguerra in Vietnam, in Libia, in Irak, per non parlare delle aggressioni «fredde», indirette, eterodirette, in Guatemala, Cile, Iran, Cuba, etc.. Dunque, sì alla piena e irreversibile condanna del nazismo e dei suoi metodi criminali, senza però dimenticare ciò che sulla coscienza hanno i «liberatori» dell'Impero d'Occidente.

A conclusione dell'intervista il Papuzzi domanda: «Allora è inevitabile che siano i vincitori a rifare le regole, a stabilire i valori, a nominare i tribunali, come ha affermato Umberto Eco?». Splendida la risposta del vecchio campione della sinistra comunista: «Ho scritto un testo in cui ci sono questi due versi: "L'indicibile dei vinti - il dubbio dei vincitori". Credo salutare che i vincitori dubitino della loro vittoria e si chinino ad ascoltare le ragioni -a volte celate, indicibili- dei vinti. Le sentenze giudiziarie mi lasciano sempre dubbi, ma quale valore ha messo in campo Priebke a sua difesa? Aspetto che qualcuno me lo indichi».

 

Enrico Landolfi

 

 

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