da "AURORA" n° 38 (Gennaio 1997)

LE IDEE

 

Uomini e Bestie: Ecologia e Tradizione

Wandervögeln

(terza parte)

Francesco Moricca

Franchi cacciatori

In un luogo del suo "Göering", David Irving si chiede ironicamente (e l'ironia sottende una incapacità di questo storico «revisionista» di comprendere in profondità il suo personaggio) come potesse conciliarsi nel Reichsmarschall l'amore per gli animali con la volontà di ucciderli. Lo studioso inglese spiega in termini malthusiano-darwinistici la contraddizione: come se Göering, al pari della maggior parte dei nazional-socialisti, ritenesse caccia e guerra i mezzi più idonei a garantire «corretti» equilibri ecologici. Dopo aver ricordato che il Reichsmarschall, aveva creato nella brughiera di Schorf l'«antesignano dei parchi nazionali d'altri paesi», Irvine riporta il detto di Göering secondo cui «la foresta è la cattedrale di Dio». A questo punto Irving afferma: «Alcuni ritenevano che il fucile e il coltello da caccia fossero strumenti non proprio atti a servire il Creatore, ma c'era una logica scientifica (sic!) in quella che Göering chiamava la conservazione col fucile. Era necessario sfoltire le popolazioni di selvaggina per evitare carestie ed epidemie; e Göering e i suoi confratelli (più o meno nazisti) compivano tale pseudo-religioso dovere (sic!) con feroce soddisfazione e solenni rituali» (op. cit. pp. 216-217).
Sul modo di ragionare di questo storico «revisionista» che Franco Fracassi colloca fra gli esponenti di punta della «internazionale nazista» (cfr. "Il quarto Reich", Editori Riuniti, '96, pp. 75-78), vi è da osservare anzitutto che egli, facendo una simile dichiarazione, smentisce le sue stesse fonti documentarie da cui risulta che, nel «compiere il loro pseudo-religioso dovere», il Reichsmarschall e i suoi «confratelli» non si limitavano ad abbattere animali malati o deboli, ma anche i migliori esemplari di animali di grossa taglia non certo inermi (come nel caso dei cervi). Irving ignora del tutto il significato rituale-simbolico di simili uccisioni e tutto riduce a mera «logica scientifica».
A voler dire le cose come stanno, i nazisti come Irving e i credenti nella «religione della scienza» rigorosamente «antinazisti» e anzi, più in generale, visceralmente antifascisti, quasi sempre confondono la «logica scientifica» col senso comune e anzi col loro personale «buon senso». In tal modo, se sono abbastanza onesti da non negare il senso comune ai «criminali irrazionalisti nazisti», sono costretti a riconoscere il «fondamento scientifico» di alcune ambigue tesi dei loro «irriducibili avversari».
Circostanza, questa, su cui si invita il lettore a riflettere per le sue conseguenze più o meno palesi ma comunque sconcertanti.
Se riconsideriamo quanto detto nel precedente paragrafo sul fatto che Göering accettò a Norimberga, con serenità pari alla determinazione, la propria sorte, persuaso che è giusto che il cacciatore divenga a sua volta preda, allora la sua concezione «ecologica» della caccia (e della guerra) assume diversi connotati da quelli che vi possono ravvisare interessatamente sia certi imbonitori che la maggior parte dei detrattori del «nazismo».
Posto che per il momento non interessa appurare se le posizioni del Reichsmarschall siano più o meno minoritarie in ambito nazionalsocialista, possiamo enunciare alcune ipotesi di interpretazione.
Poiché la «preda» è, a Norimberga, il Reichsmarschall della Grande Germania che non può essere giudicato e impiccato come un volgare malfattore, si può sostenere che la «preda» è altresì una «vittima sacrificale». Sembra che Göering dovesse esser convinto di ciò, perché altrimenti non avrebbe classificato il proprio suicidio come un suicidio sui generis. D'altra parte l'idea gli veniva da lontano perché un'altra volta, in manicomio, egli era stato «preda» e aveva meditato sul suicidio.
Ove si accetti questa linea interpretativa, si è costretti a vedere un'analogia fra il cosiddetto «neo-paganesimo nazionalsocialista» e il cristianesimo, un'analogia nel senso tradizionale della guénoniana «unità trascendentale delle religioni». La metafora evangelica di Pietro «pescatore di anime» (talvolta anche «violento» come risulta dagli Atti degli Apostoli nonché dalla storia della Chiesa non solo medioevale), ha un nesso con la metafora della caccia che è difficile negare. Di più, per quanto possa suonare blasfemo, si potrebbe addirittura vedere nella morte di Göering una sorta di «imitazione di Cristo». Si considera infatti che Göering in «articulo mortis» si professò «cristiano ma non credente nella divinità di Cristo»: una tesi, questa, che sembra preludere a certe «moderne» concezioni del cristianesimo come «semplice filosofia etica», ed effettivamente vi prelude per i suoi forti addentellati col luteranesimo: beninteso, solo in quanto il luteranesimo fu un fattore della modernità contro le intenzioni dello stesso Lutero.
Lutero aveva annientato la libertà dell'uomo ponendo l'accento sulla divinità del Salvatore, e certo non gli si può imputare la responsabilità di aver contribuito a fare del cristianesimo una «filosofia etica». Tuttavia la sua dottrina del «servo arbitrio» aveva il significato etico di protesta contro la secolarizzazione del cattolicesimo romano, secolarizzazione che opprimeva e umiliava spiritualmente e materialmente la nazione tedesca. Così, attraverso la negazione del clericato e dell'ecumenismo «neo-pagano» della Chiesa rinascimentale (che sarà difeso con fervore da Nietzsche contro la Chiesa luterana), Lutero affermava paradossalmente l'individualità, il diritto e la missione universale della nazione tedesca.
Ciò che limitava le possibilità di conseguire questi fini «in nuce» nazional-socialisti era la fede nella divinità di Cristo, che da un lato comportava l'esasperazione dell'aspetto intimistico della religione, dall'altro un rapporto tra l'idea di Dio e la concreta realtà del popolo tedesco che somigliava anche troppo al morboso legame fra Israele, «popolo eletto», e il suo Dio, «dispotico e geloso garante della elezione»: non è un caso, d'altronde, che l'umanesimo tedesco si sia formato sull'esegesi della Bibbia, a differenza di quello latino che privilegiò invece lo studio della classicità greco-latina.
Così, per giungere al nazionalsocialismo, il luteranesimo doveva negare la divinità di Cristo, e cominciò già a negarla con Kant ed Hegel. Questa negazione ha il suo suggello sacrificale nella vita e nella morte del Reichsmarschall della Grande Germania; il cui suicidio sui generis avviene tuttavia in un ambito religioso vigorosamente cristiano e luterano, in quanto presuppone la fede nella trascendenza e in un giudizio ultra-terreno, in una prospettiva che va oltre i termini della pura e semplice «religione civile», e dalla quale la «religione civile» trae non solo la sua legittimità ma anche la sua forza, una forza che è insindacabile da qualsiasi legge umana e che è anzi all'origine dello Stato e della Legislazione.
Non sappiamo abbastanza per concludere se Hermann Göering sia stato una personalità del tutto isolata nel quadro dell'ideologia nazionalsocialista oppure no. Ma se ne sa abbastanza per asserire che egli certamente non lo fu nel più vasto quadro della cultura tedesca contemporanea, come si vedrà in dettaglio fra poco.
Ora preme sottolineare che la negazione della divinità di Cristo non è, in Hermann Göering e non è in una corrente della cultura tedesca ed europea che aderì al nazionalsocialismo, una negazione della divinità in quanto tale. È anzi, la negazione della divinità di Cristo, il mezzo per riaffermare l'esistenza della divinità nella sua unicità e assoluta primazia, e quasi come il «ritorno» delle ragioni teologiche dell'eresia del sacerdote egizio Ario condannato dal Concilio di Nicea nel 325 d. C., (né può tacersi che la conversione dei popoli germanici al cristianesimo avvenne nella confessione ariana di questo ultimo).
L'altra negazione della divinità di Cristo, quella che a partire dall'affermarsi della «scienza moderna» perverrà alle tesi dell'agnosticismo illuministico ovvero alle conclusioni «gnostiche» dell'immanentismo idealistico, si accompagna invece alla negazione della divinità come tale, in quanto non concepisce affatto la trascendenza, riducendola nei limiti «razionalistici» del concetto kafkiano di «trascendentale».
È sulla base di questa altra negazione che il «senso comune» degli uomini di scienza del XX secolo potè pianificare «esperimenti» di cui la vivisezione condotta su esseri umani è un caso limite, una «linea di confine» che non può varcarsi «per motivi etici», i quali non hanno però nella «logica scientifica» rilevanza alcuna, ovvero possono o non possono acquistarla a seconda delle «valutazioni di opportunità» dei singoli scienziati. Ciò spiega molte cose sui comportamenti e sulle responsabilità degli «scienziati nazionalsocialisti» come il famigerato dottor Mengele, e non solo di loro. Nessuno può infatti ragionevolmente negare le responsabilità degli scienziati nell'avere determinato le cause della cosiddetta «problematica ecologica», una problematica che essi hanno «individuato», ma che -non è un caso- non hanno il potere di risolvere. A prescindere dall'autentica sensibilità ecologica del Reichsmarschall, non gli si può dare torto se, a sentir parlare di «cultura», la sua mano, quasi automaticamente, «impugnasse la Browning»...
Vero è, comunque, che il nazionalsocialismo, che nel suo insieme, non aveva idee sostanzialmente discordanti da quelle del Reichsmarschall in materia di scienza ed ecologia, si servì della scienza e degli scienziati rendendosi responsabile di azioni che al contrario avrebbe dovuto evitare di commettere, essendo in stridente contraddizione coi Valori etici tradizionali che intendeva difendere e da cui asseriva di trarre la propria legittimità. L'unica risposta a questa contraddizione, che tuttavia non esaurisce affatto il problema, è da ricercarsi nelle necessità pressanti della guerra a dell'economia di guerra (ma va detto che gli «esperimenti» del dottor Mengele esulano da queste necessità). Il mio professore di Filosofia morale all'Università, che era un marxista ma anche un uomo di squisita sensibilità, sosteneva che «lo stato di guerra sospende l'eticità». Egli però riteneva legittimo il processo di Norimberga. Dopo quasi trent'anni, continuo a credere nell'illegittimità del tribunale dei vincitori, ma non credo più che in guerra sia lecito tutto pur di conseguire la vittoria.
Circa la negazione della divinità di Cristo, e segnatamente riguardo alle sue conseguenze sul modo di affrontare la problematica ecologica senza cadere nel velleitarismo ecologistico, vanno segnalate le consonanze delle vedute del Reichsmarschall con Martin Heidegger ed Ernst Jünger, esponenti di una cultura europea prima che tedesca che aderì al nazionalsocialismo, pur non condividendone in seguito i cedimenti nei confronti della mentalità propria alla modernità e non solo ai suoi esponenti di punta, gli «uomini di scienza».
In particolare le «compromissioni» di Heidegger col nazionalsocialismo non furono né accidentali né in alcun modo obbligate dal regime di dittatura, ma scaturirono dai motivi più intimi della riflessione sulla trascendenza dell'Essere, di una «anacronistica» riproposizione della filosofia presocratica: senza contare che, come uomo e come tedesco, Heidegger aveva sotto gli occhi la terribile crisi del primo dopoguerra e non poteva restare insensibile né ignorare, in nome di pretesi «valori della cultura liberale» romanticamente orientata a prendere le distanze dai bisogni della «plebaglia», il fatto che il nazionalsocialismo, restituendo dignità di popolo alla «plebaglia», era riuscito a risolvere quella crisi e a fronteggiare con successo quella di dimensioni mondiali che era iniziata col crollo di Wall Street nel '29. A sostegno della legittimità della presente tesi che vede una continuità storica ed ideale fra personaggi come Göering, Lutero ed Heidegger, si può addurre il seguente giudizio di Ernst Cassirer:
«L'ideologia del nazionalsocialismo non era stata elaborata dai filosofi. Era cresciuta in un terreno completamente differente. Ma tra quel generale corso di idee che possiamo studiare nel caso di Spengler o Heidegger e la vita politica e sociale della Germania nel periodo successivo alla prima guerra mondiale esiste un nesso indiretto» (cfr. "Mito, Simbolo, Cultura", Bari, '81, p. 233): un «nesso indiretto», ci permettiamo di aggiungere, principalmente in considerazione che, nonostante il regime di dittatura, era consentito, a quanti avevano aderito al nazionalsocialismo per patriottismo se non proprio per radicata convinzione, di divergere su argomenti non inessenziali dell'uniformità ideologica imposta dall'alto (cosa impensabile durante la dittatura staliniana). Ammesso che Göering fosse ideologicamente un isolato, non è senza significato che potesse assurgere e restare, nonostante il proprio passato immediatamente successivo al fallito putsch di Monaco, per tanto tempo ai vertici del potere. Heidegger, poi, potè restare all'Università nonostante le sue aperte critiche al regime che trovava «troppo condiscendente e aperto» nei confronti della modernità e della tecnica, mentre uno Jünger, che non ostacolava per principio questa tendenza, si permetteva uno «splendido isolamento» dalla vita pubblica e dall'attività di partito non condividendone certe connotazioni «retrive» e «liberticide» che sembravano avvicinarlo al comunismo staliniano (si veda ad esempio la tematica e le scoperte allusioni de "Sulle scogliere di marmo", che precedono significativamente il "Trattato del ribelle" uscito nel secondo dopoguerra).
In realtà le rispettive e apparentemente antiteti- che posizioni di Heidegger e Jünger sulla tecnica e sulla «questione ecologica» che ne è il più inquietante prodotto, rappresentano la polarità di una cultura antagonista che non è solo tedesca e caratterizza la prima metà del Novecento, polarità che il nazionalsocialismo, come movimento «non filosofico» se non addirittura «antifilosofico», cercò di rendere feconda imbrigliandone energicamente e non senza cognizione di causa il potenziale distruttivo, che poi riprenderà ad agire senza più alcun controllo alla fine della IIª Guerra mondiale. Heidegger e Jünger incarnano meglio di altri intellettuali tedeschi dell'epoca, e sicuramente con ben altra coerenza di un Thomas Mann, il tentativo di dominare la contraddizione principale della contemporanea «civiltà di massa», caratterizzata dal dominio incontrastato della tecnica e del capitale finanziario, e orientata a distruggere sistematicamente l'Essere a tutto vantaggio dell'«avere», Heidegger sostiene che «il pensiero occidentale non comincia pensando il più considerevole (l'«Essere», appunto) ma comincia lasciandolo all'oblio». Jünger non la pensa diversamente, ma aggiunge che bisogna prendere atto di ciò che è accaduto e ha generato il «monstrum tecnologico», poiché scorge la possibilità di trasformarlo in «veicolo della più schietta sostanza eroica che determina una nuova vita». Questa è la tesi de "L'operaio". Nel "Trattato del ribelle" questa «nuova vita» è il «passaggio al bosco», non però inteso come «una forma di anarchismo rivolto contro il mondo delle macchine, sebbene questa tentazione sia forte soprattutto quando si tende altresì a ritrovare il legame con il mito (...). (Infatti) non si ritorna indietro verso il mito, il mito lo si incontra di nuovo quando il tempo vacilla sin dalle fondamenta, sotto l'incubo d'un pericolo estremo». Il «bosco» è letteralmente la selva primordiale trasferita nella contemporaneità, è il deserto urbano e il deserto extra-urbano, il bosco vero e proprio, magari ferito dalle piogge acide. È, in senso più preciso, il luogo in cui il Ribelle esercita la sua resistenza ad oltranza: il «bosco» è dietro le linee nemiche e al loro interno, è il luogo dove la preda diventa cacciatore. Perciò, nella parte conclusiva del "Trattato", è detto che «il luogo del Verbo è il bosco» (pag. 33, corsivi di Jünger).
Giova rilevare che la complementarietà di Heidegger e Jünger nella loro critica agli aspetti moderni e perciò antitradizionali del nazionalsocialismo è impolitica nel senso che al termine attribuì Thomas Mann nelle "Considerazioni". È merito indiscutibile del nazionalsocialismo, pertanto, non di avere semplicemente «tollerato» questa veramente feconda dissidenza (come il fascismo italiano «tollerò» Croce), ma di avervi visto una forza vitale, quasi l'espressione originaria del carattere e dell'anima della nazione tedesca, non già la mera critica di intellettuali-pedagoghi borghesi, per i quali la «critica» non è che un dovere d'ufficio possibilmente ben remunerato (da ricordare che Heidegger preferì rinunciare alla prestigiosa carica di Rettore dell'Università piuttosto che addolcire il tepore delle sue critiche, e che potè continuare indisturbato la sua attività di docente di filosofia teoretica).
In quest'ottica, non è incomprensibile né tanto meno «scandaloso» che un grande filosofo come Heidegger, universalmente conosciuto e riconosciuto a differenza del suo amico Jünger, abbia scritto che col nazionalsocialismo si affermava «la potenza che scaturisce dalla più profonda conservazione delle forze del popolo fatte di terra e sangue» (corsivi miei): parole in cui, fra l'altro riecheggia tutta la tradizione bismarckiana filtrata dallo spirito e dall'esperienza del Wandervögeln.
Ma il testo de "L'autoaffermazione dell'Università tedesca" da cui è estrapolata la citazione (testo che è del '33, data quanto mai significativa), contiene altresì puntuali riferimenti alle tesi nazional-bolsceviche che circolavano presso le SA. Vi è l'idea che la mentalità e la prassi usurocratica è dipendente da quella tecnico-scientifica, per cui quest'ultima non può vantare alcuna «neutralità» e quindi «rigorosa obiettività di sapere teoretico». Heidegger inoltre riconduce il pensiero scientifico al senso comune e a quel pragmatismo americano il cui massimo esponente era il Dewey, dal quale egli stesso era stato influenzato nel primo periodo della sua ricerca, caratterizzato dallo «psicologismo fenomenologico». Così, nel mondo generato dalla scienza sperimentale e dalla tecnica l'uomo «vive fra il tintinnio del denaro e il Valore dei valori», che vedrà il sorgere della «notte del mondo, mistificata in giorno tecnico (...), il giorno più corto di tutti (con cui) si leva la minaccia di un unico interminabile inverno». Nel nazionalsocialismo Heidegger vede la sola alternativa all'individualismo distruttivo della società borghese che è all'origine del binomio tecnica-dittatura finanziaria.
Il nazionalsocialismo, infatti, a differenza del comunismo che secondo Marx seguirà la fase transitoria del socialismo e della dittatura proletaria, non solo si sforza di recuperare ma già recupera, nel momento stesso della sua comparsa nella storia, il legame con le «origini» (nella misura in cui le tesi marxiane dei "Manoscritti economico filosofici" del 1844 sono suscettibili di essere ricondotte al mito tradizionale delle «origini»): il legame col «più considerevole» che è stato posto in oblio dalla «scienza», e che il marxismo-leninismo, «figlio della civiltà borghese», intende sprofondare in un oblio ancor più profondo e irreversibile, considerandolo la quintessenza della «alienazione», la più grande e infame mistificazione escogitata dalle «classi dominanti» per impedire all'uomo individuo l'assoluta libertà. Ora, questa «assoluta libertà» è impossibile nell'ambito di una individualità ridotta a mero centro di «bisogni», ovvero di pulsioni istintuali, incapace di confrontarsi con l'Essere sia pure attraverso l'«immaginazione dell'Essere», nella qualcosa si manifesta il primo conato della trascendenza. Non solo, l'assoluta libertà è impossibile senza appartenenza dell'individuo singolo a quell'individuo più alto che è la comunità dei singoli; il popolo, la nazione, il territorio su cui vive la nazione, che ha plasmato e che è stato a sua volta plasmato dalla nazione, territorio che ha ben determinate caratteristiche morfologiche, ambientali, climatiche, che ha una sua flora e una sua fauna. Inoltre, chiarirà Heidegger nell'ultima fase della ricerca, nei primi anni Sessanta, il veicolo più importante dello spirito di una nazione è il linguaggio in senso lato e la lingua nazionale in senso eminente, precisamente quella lingua in cui si esprimono i poeti della nazione.
Non bisogna pensare che Heidegger confonda nell'"Autoaffermazione" le «origini», il «più considerevole», con l'istinto primordiale del branco e con tutto ciò che suole riferirsi al concetto stereotipo di «razza ariana». Quel che è definito «spirito primordiale del branco» e che certamente costituisce il substrato inferiore e anzi infero del senso di appartenenza a una comunità nazionale, si pone per Heidegger nell'«essere dell'Essere», nella naturale materializzarsi dell'Essere, nel lato femmineo dell'«Androgine archetipico». Ma il suo lato virile è comunque il punto di riferimento principale. Se il bismarckiano «blut und boden» rientra nell'«essere dell'Essere» e s'identifica con la «casa dell'uomo» e in generale con un dato «ecosistema», la problematica ecologica può essere risolta solo dalla decisione politica.
Così per Heidegger il politico deve tornare a concepire e progettare sé stesso come «pastore dell'Essere»; il capo o i capi di una nazione non possono né devono essere dei capibranco se non subordinatamente al loro essere prima di tutto pastori dell'Essere. È ciò che dà a un capo il suo «carisma» e lo distingue dal demagogo e dal tiranno. Il popolo ha una percezione immediata delle qualità carismatiche del capo e perciò è indotto a non distinguere fra riconoscimento, consenso motivato e sottomissione. Ciò è invece il compito dell'intellettuale, che deve anche lui possedere le qualità del «pastore dell'Essere» ed essere una sorta di «alter ego» del capo, la sua impersonale coscienza critica. Questa è, per Heidegger e per Jünger, la ragione profonda dell'impoliticità dell'intellettuale: egli deve essere un ribelle per contrastare la naturale tendenza all'autocrazia che è insita nei capi, indipendentemente dalla forma costituzionale dello stato, sia in un regime di dittatura che in regime di democrazia perfetta. Date queste premesse, si deve lealmente e incondizionatamente aderire a qualsiasi partito politico che le accetti. Tutto qui lo «scandalo» della adesione di Heidegger al nazionalsocialismo. Va aggiunto, ad onore della verità, che il nazionalsocialismo, come non respinse Heidegger e Jünger, non respinse neanche altre personalità che conservavano una loro precisa individualità non solo «culturale» ma anche politica; e fra costoro anche Julius Evola noto per la sua fiera opposizione al razzismo biologico e agli aspetti «democratici» e «plebei» della dittatura hitleriana.
Sulla «scandalosa» adesione di Heidegger al nazionalsocialismo (adesione quanto meno «inautentica», come si volle far credere, perché causata da un «errore umano»), è assai utile sottolineare che, se "Autoaffermazione" è del '33, anno della legale assunzione del potere da parte dei nazionalsocialisti, la svolta del pensiero di Heidegger (l'abbandono del precedente orientamento «psicologistico-fenomeno-logico» influenzato non solo da Husserl ma anche da Freud) risale a tre anni prima, quando «l'indagine di Heidegger (...) (si orienta alla) determinazione del senso dell'essere in generale e si trasforma in una ricerca che riconosce all'essere stesso l'iniziativa dello svelamento dell'essere» (cfr. N. Abbagnano, "Storia della filosofia", Torino, 1966, vol. III, pp. 831-832; corsivo mio).
Riassumiamo nei punti seguenti ciò che nella speculazione heideggeriana riguarda direttamente la problematica ecologica secondo l'inquadramento metafisico tradizionale.
1) La concezione dell'«autenticità» come «essere per la morte» nella «angoscia» causata dal dubbio della possibilità dell'impossibilità dell'esistenza del proprio «essere nel mondo» e del mondo stesso (cfr. "Essere e tempo", '27), e la concezione connessa della «libertà» come disponibilità dell'individuo umano d'accettare la possibilità negativa e dunque l'assurdo della esistenza in generale, onde «la libertà si scopre come ciò che lascia essere l'Essere (al limite e oltre il suo aspetto negativo)» (cfr. "L'essenza della verità", '43; e altresì Jünger-Heidegger, "Oltre la linea", 1950), nonché la dottrina della storia come destino (cfr. "Holzwege", 1950) presentano una analogia abbastanza evidente con le osservazioni svolte nel presente saggio in ordine a ciò che si è definito metafisica della caccia.
2) Il rapporto in cui si pongono Heidegger e Göering nei confronti della teologia luterana dipende in essenza dal rifiuto di una religione che fidando nella certezza dell'aiuto divino (nella persona divina di Cristo) sottrae l'uomo dalla costante tensione verso la trascendenza dell'Essere: il che significa ben altro che intendere nietzchianamente la trascendenza come superamento dell'umano in direzione dell'«oltre umano» epperò sempre nell'ordine della immanenza. Così, proprio in quanto «tranquillizzato» dalla certezza dell'esistenza di una «trascendenza amica», l'uomo moderno ha potuto «obliare il più considerevole» per dedicarsi a una «scienza» e a una «tecnica» finalizzate alla soddisfazione delle sue più elementari e naturali pulsioni: in una parola, al dominio della «natura», persuadendosi di poter diventare il «padrone dell'Essere». La condizione dell'«esistenza autentica» è invece simboleggiata dalle figure del Pastore (per Heidegger) e del Cacciatore (per il Reichsmarschall), i quali, dice Heidegger, si danno a una «totale povertà (...), la cui dignità consiste nell'esser chiamati dall'Essere a far la guardia alla sua verità» (cfr. "La dottrina platonica della verità", '42).
3) La verità, pertanto, diventa non un dato anodinamente «oggettivo», «sperimentale» e «neutrale», ma una gratuita testimonianza: non una «creazione» dell'uomo, ma una creazione dell'Essere mediante il sacrificio dell'uomo. Cristo -si potrebbe dire- non può essere Dio, sia perché, se lo fosse stato, il sacrificio della Croce risulterebbe in qualche modo «inautentico»; sia perché il credere nella divinità di Cristo, rende altresì «inautentica» l'umanità del credente, «troppo facile» il suo conato verso la trascendenza. A fronte della vile «verità scientifica», per Heidegger, come per Lutero e prima ancora per Tertulliano, «la Verità è una specie di errore». Il rigore di Heidegger e la sua coerenza con la erronea scelta del 1933 sono tali che, nella "Introduzione alla metafisica" ('56), egli accusa Platone di aver degradato la metafisica in fisica, nel senso di aver introdotto criteri di valutazione umana «oggettivi» e pragmatistici «ante litteram» nella speculazione dell'Essere, i quali hanno finito col funzionare da limiti al suo «libero disvelamento». Si tratta certamente di una accusa eccessiva, ma è pur vero che l'Essere è in sé stesso «eccessivo». D'altra parte, «addomesticato» l'Essere, si toglie alla scelta, o per meglio dire si oscura l'atto preliminare e fondante della trascendenza, che è «la scelta della scelta». È questa, infatti, che conferisce Valore alla scelta, anche alla più banale. Nelle scelte che si fanno in laboratorio non si «sceglie di scegliere» e il «rischio» è sempre circoscritto e «calcolato».
A questo punto ritorna la questione già toccata del rapporto fra la scienza profana e il nazionalsocialismo, questione che in realtà andrebbe posta nei termini generali del rapporto fra scienza-arte e politica presso le «società evolute». Ciò va detto non per diminuire le responsabilità del nazionalsocialismo in tutto quanto riguarda lo sterminio delle «razze inferiori» e degli individui socialmente pericolosi e «tarati», ma per non passare sotto silenzio colpe analoghe e solo apparentemente «meno gravi» di una «scienza» che fin dagli inizi dell'Età moderna è stata quasi sempre prezzolata e asservita al «miglior offerente». Devesi pertanto distinguere fra le «aperture» di un Jünger nei confronti della «tecno-scienza» e la fanatica strumentalizzazione del regime hitleriano da parte di «uomini di scienza» da esso attratti non solo per motivazioni economiche, ma per l'opportunità che offriva di «compiere esperimenti» che altrove non erano ancora possibili. Si aggiunga che l'orientamento generale del nazionalsocialismo, nonostante le influenze del darwinismo e del Nietzsche de "La gaia scienza" spregiatore di Bismarck e persino paradossalmente filo-ebreo, era più quello di Heidegger che non quello di Jünger. Inoltre, bisogna considerare la necessità della Germania di essere al passo e, anzi, all'avanguardia nel campo della ricerca tecnico-scientifica, in vista del conflitto armato che si profilava ineluttabile e che aveva anche, per non dire soprattutto, il carattere di una guerra di religione. Questa linea interpretativa non mi sembra insostenibile, anche perché stabilisce la possibilità di creare una sintesi fra autori come il Nolte e il Poliakov, del quale ultimo ricordiamo due opere fondamentali: "Il mito ariano" (in cui si denunciano le responsabilità degli illuministi, Kant incluso, nella genesi del moderno antisemitismo), e "Il Nazismo e lo sterminio degli Ebrei".
Concludiamo con l'invito a rimeditare sulla serenità della morte cristiana del Reichsmarschall della Grande Germania (e tale invito rivolgiamo in particolare ai Lettori tedeschi, se per avventura il nostro giornale dovesse capitare nelle loro mani). E ricordiamo che anche Heidegger, pur avendo insistito fino alla fine nell'implacabile accusa delle colpe del «pensiero tecnico-scientifico», è morto lasciandoci in eredità, come scrive G. Sasso, «una filosofia della speranza e della redenzione» (cfr. "Tramonto di un mito", Bologna, '84, p. 208). Egli si fa banditore, con parole che fanno eco a quelle conclusive del "Trattato del ribelle" del suo amico Jünger, di una nuova «epoca» in cui l'Essere stesso parlerà nell'uomo e per mezzo dell'uomo nel linguaggio della «poesia», un età in cui l'uomo non vorrà più dominare-per-possedere le cose, ma «abiterà presso le cose» dove potrà «incontrare l'annunzio della divinità»: sono parole del '59; due anni prima aveva detto: «Nell'essenza e nel dominio del linguaggio si decide sempre il destino».
Le «cose» di cui egli parla sono tutte le cose naturali e artificiali che costituiscono la «casa dell'uomo», che è anche, sempre, la «casa dell'Essere», in cui è presente la Divinità, e più presente quanto più essa è sconvolta, martoriata, «crocifissa». In "Essere e tempo", che è del 1927, aveva scritto di una «esistenza autentica» possibile solo mediante la fedeltà al proprio popolo. Infatti «solo un ente che nel suo essere è essenzialmente avvenire (il popolo) (...) potrà trasmettere a sé stesso (agli individui in cui il popolo vive) la possibilità che eredita e, nell'attimo, essere per il suo tempo» (corsivo suo), Un esistenza autentica che si realizzi nell'isolamento è possibile, ma in qualche modo di ordine inferiore, poiché essa si sottrae al «tempo», alla maledizione-benedizione del tempo storico, per essa «il passato e il futuro sono, nell'attimo, indifferenti, (...). Il destino comune non è la somma dei singoli destini allo stesso modo che l'essere assieme non è la semplice addizione dei soggetti singoli. Nell'essere assieme in un medesimo mondo e nella decisione per determinate possibilità, i destini sono già delineati».

 

Francesco Moricca

 

 

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