da "AURORA" n° 38 (Gennaio 1997)

QUESTIONI DELLA SINISTRA


Contro il vezzo dei salotti neo-azionisti di disprezzare il nostro popolo
Ulteriore contributo di Massimo D'Alema
al rilancio dell'identità nazionale

Enrico Landolfi

Saremo eternamente grati a Massimo D'Alema per ciò che è stato capace di fare nel giro di due anni a partire dalla sua ascesa alla segreteria del Partito Democratico della Sinistra. All'atto dell'insediamento al secondo piano di Botteghe Oscure la coalizione delle destre capeggiata da Berlusconi straripava, dominava, comandava, occupava tutti gli spazi possibili e immaginabili. Sembrava irresistibile, inarrestabile. Con la pazienza di un certosino, attivando astute alleanze, fantasiose ed efficaci strategie, tattiche imprevedibili, preziose solidarietà, raffinate innovazioni teoriche, il nuovo leader della Sinistra di governo è riuscito a letteralmente capovolgere la situazione spedendo il blocco conservatore all'opposizione. Benissimo. Ciò, come detto, fa di noi degli estimatori irriducibili del cosiddetto (allora) «eterno numero due» finalmente diventato «numero uno» e proprio al momento giusto.
Tuttavia la nostra fiducia in D'Alema, per quanto grande, non arriva al punto di inibirci la leale, costruttiva, amicale formulazione, quando ne sia il caso e ne sentiamo il bisogno, di rilievi critici oppure la manifestazione di perplessità, di dubbi, di incertezze. Così cogliamo l'occasione di una intervista del leader della Quercia rilasciata qualche tempo fa al settimanale "Panorama" per chiedere e ottenere, seppure per via indiretta e «collettiva», qualche delucidazione su alcuni temi e problemi di grande momento anche perché assurti all'onore di un permanente, appassionato, talvolta affocato dibattito nel mondo giornalistico, culturale, politico.
Per esempio, un ottimo intervistatore, Pierluigi Battista, chiede al Nostro: «Ma la gratifica l'idea di non far più paura alla destra?». Ed ecco la risposta dalemiana in chiave «buonista», come oggi usa dire: «Lo considero un risultato importante che mi rafforza nella convinzione che solo un patto per riscrivere assieme le regole potrà consentirci in futuro di avere un Italia in cui nessuno potrà accusare chi vince di voler instaurare la dittatura e nessuno potrà temere una lotta politica in cui chi perde rischia di perdere tutto». Nulla da obiettare, se stiamo alla forma e alla superficie di codesta asseverazione. La quale, però, se letta in filigrana suscita qualche preoccupato interrogativo. Questo, innanzi tutto: Quale capacità di incidenza sociale, riformatrice, trasformatrice, rinnovatrice attribuire a una sinistra popolare, di massa, di governo ma non ministerialista, che abbia deciso di «non far più paura alla destra»? Una destra, si badi, aggressiva, cinica, rampante, d'urto, arroccata, trasformista, duramente e borghesemente classista. Di più: accortamente strumentalizzatrice e, pertanto, idonea a utilizzare l'interlocutore di buona fede e di buona volontà per sfruttarne le propensioni democratiche a fini di baratto in pro di interessi di classe o anche strettamente privati. Una destra, soggiungiamo, la cui connotazione eversiva viene in evidenza proprio mentre verghiamo queste note con il suo «aventismo» di princisbecco, con la diserzione delle aule parlamentari callidamente ma poveramente motivata.
Del resto, che di Berlusconi e, soprattutto, del suo pretoriano Fini, non ci sia gran che da fidarsi lo avverte lo stesso D'Alema, con la sua accortezza e con la sua inossidabile onestà intellettuale. Infatti alla seguente domanda del redattore di "Panorama" «si dice che lei abbia conquistato simpatie nell'opinione pubblica di destra. Sarà poi così vero?» risponde con le seguenti, cautissime, significative parole: «Non so nemmeno io se è così vero. Mi risulta che a destra molti pregiudizi nei miei confronti non siano granché scalfiti. Da parte mia cerco di mantenere un rapporto civile con tutti e anche di vincere una mia certa spigolosità di carattere. Però ho come l'impressione che negli attestati positivi verso di me la destra sia tentata da un elemento di manovra che cerca di lavorare sul punto più sensibile della coalizione di centrosinistra, mettendo in urto il capo del governo e il leader del principale partito dello schieramento. Una furbata insomma». Perfetto.

Nel gioco delle domande e delle risposte, il number one della Sinistra colloca una polemica con avversari, per così esprimerci, «domestici», ossia presenti nel suo partito e nel folto dello schieramento che fa da supporto a Prodi e al suo governo. Seguiamo D'Alema in una accorata e nervosa denuncia, che muove dalla riaffermata convinzione della necessità di trovare una intesa con il Polo «per riscrivere le regole»: «Questo è il passaggio cruciale che dobbiamo attraversare. Ed è anche il passaggio che un anima diffusa nel centrosinistra si rifiuta di affrontare. Questa anima dice che con Berlusconi non si possono fare regole assieme, altrimenti ti crocifiggono. È un'anima intollerante che recentemente mi ha accusato di un irriducibile delitto: quello di aver presentato un libro di Bruno Vespa». E prosegue, il lider maximo della Quercia, in chiave di ancor più netta ironia: «Non mi resta che seguire l'esempio di Bucharin e confessare: sì, è vero, ho presentato un libro di Vespa e perciò ho tradito la classe operaia».
Va bene il blitz contro le «anime intolleranti» della Sinistra (usiamo il plurale perché non ce n'è una sola). Va benissimo anche il taglio ironico giovenalesco, dell'invettiva dalemiana. Nessuno più di noi è attento allo spirito libertario -o semplicemente liberal, tollerante- che mai ha da essere accompagnato dalle pulsioni popolari, sociali, escatologiche della Sinistra; di quella Sinistra che piace a noi, che piace a tanti, che a tutti dovrebbe piacere. Però cerchiamo anche di renderci conto di qualche ragione che incontestabilmente, non arbitrariamente sorregge il tormentoso argomentare degli oppugnatori della strategia oggi prevalente alle Botteghe Oscure. In primo luogo. Berlusconi fa di tutto per rendersi antipatico, anzi odioso, con la sua violenza verbale, con la sua prosopopea, con la sua arroganza, con la ostentazione delle sue ricchezze, con il suo chiacchiericcio maccartysta, castale, anti-popolare. Il Creso di Arcore si professa liberale, ma riteniamo di non discostarci dal vero asserendo che i grandi maestri del liberalismo -da Croce a Einaudi, da Amendola ad Albertini, a tacer d'altri- si rivoltano nella tomba ancorché sono investiti dagli sproloqui reazionari del Cavaliere Azzurro, uso a cavalcare la valanga di miliardi accumulata prima durante e dopo il regime craxista-forlaniano. Basta sentirlo parlare il capataz del sedicente Polo della Libertà per rendersi subito conto di quali materiali sarebbe fatto un suo regime «liberale». Si tratterebbe di una feroce dittatura di classe, di un regime capitalistico allo stato «puro», per così esprimerci, pudicamente coperto con i trasparentissimi veli di una democrazia formale, sempre più formale, dove alla Costituzione riveduta e corretta in chiave seccamente liberista verrebbe affidato il prestigioso ruolo della foglia di fico.
Ma poi, siamo giusti, queste vere o presunte «anime intolleranti» si deciderebbero, ci lusinghiamo di credere, a diventare più tolleranti ove la Sinistra, tutta la Sinistra, entrasse finalmente, una volta per tutte, nell'ordine di idee di fare il suo mestiere fino in fondo. Si mettesse, cioè, a fare la Sinistra. Ma ciò sarà possibile solo se essa, in tutti i suoi comparti, si convincerà della non più obliabile necessità di dare soluzione di continuità ad una umiliante pratica di permanente resa incondizionata ai diktat della cultura borghese, di smobilitazione ideologica travestita da modernizzazione, di afflosciamento ideale spacciato per pragmatismo. Il tutto segnalato dall'ubriacatura privatizzatrice, la quale altro non è che il trionfo definitivo del capitalismo mediante il dilatarsi dei suoi tentacoli su tutta l'area della proprietà pubblica. Un capitalismo, precisiamo, non soltanto indigeno ma non di rado, anzi prevalentemente, straniero. Con tanti distanti saluti all'indipendenza nazionale. E come non ricordare che alle picconate inferte dal liberismo di stampo reaganiano-tatcheriano-berlusconiano alle industrie di proprietà del popolo italiano sono da aggiungere i discorsi che suonano quali campane a morte per lo «Stato sociale» e la lenta ma inesorabile erosione delle conquiste sociali e sindacali dei lavoratori italiani. Gli occupati non meno che i disoccupati, che le forze conservatrici -Confindustria in testa, unitamente alle varie altre organizzazioni padronali- si sforzano di mettere in rotta di collisione, dando in tal modo luogo ad una guerra dei poveri dietro cui attestare i propri interessi.

Si dirà: cosa ha a che vedere tutto ciò con la intemerata rifilata da Massimo D'Alema alla «anima intollerante» della Sinistra? Il Lettore lo ha compreso benissimo, ne siamo certi: la faziosità di Berlusconi e, più o meno, di tutti gli altri marescialli, generali, ufficiali, sottufficiali, graduati e soldati del Polo, inocula nelle vene dei dirigenti e dei militanti dei partiti e dei gruppi progressisti con i nervi più scoperti, meno controllabili, i veleni del settarismo, destinati a diventare anche più micidiali se alle spavalderie provocatorie e prevaricatorie dell'avversario si sommano le frustrazioni prodotte da una costante distruzione del patrimonio teorico del movimento operaio innescata da una perversa moda di rinnegamento che a tutti appare ormai -a torto o a ragione- insuperabile e irreversibile. Sic stantibus rebus bene farebbe il leader pidiessino a suggerire al suo interlocutore di adeguare il linguaggio e comportamento politici a stili e costumi schiettamente democratici, a mettere in soffitta la demagogia, a lasciare a casa la provocazione, a depurare il ruolo di opposizione da banalità e rozzezze degne solo di un contesto politico da Terzo Mondo. Dall'accoglimento o meno del suo invito D'Alema sarebbe in grado di arguire l'affidabilità o meno del leader di Forza Silvio quale partner valido per una riscrittura in comune di parti importanti della Costituzione e non solo di essa.
No, se il segretario del Partito Democratico della Sinistra presenta un libro di Bruno Vespa non lede la classe operaia. Mancherebbe altro! Quindi fa benissimo a protestare contro le turbolenze settarie, estremistiche, dei veri o supposti puritani della Sinistra. Anche se il dr. Vespa -sicuramente ottimo giornalista e ancor più godibile scrittore e memorialista- troppo si avvantaggia e con evidenza eccessiva in sede promozionale e pubblicitaria, di una sorta di rendita di posizione derivantegli dal fatto di stare «Porta a porta» con ambedue le aree di emittenza oltre che con tutti i grandi, medi e minimi organi di stampa. Pur se, soggiungiamo ancora, sarebbe auspicabile una disponibilità non solo dalemiana per la presentazione di opere di autori non baciati sulla fronte dalla Dea Bendata e, pertanto, privi del commercialissimo privilegio di far parte dell'establishment massmediatico.
Così continua ad esternare l'on. D'Alema: «Il problema di quest'anima non è solo che conduce polemiche con uno stile francamente greve ma anche che non capisce che Berlusconi non l'ho scelto io ma 15 milioni e passa di connazionali. Questa banale considerazione non riesce ad essere accettata perché il presupposto di questa sinistra conservatrice è che gli Italiani facciano un po' schifo mentre noi, con i nostri salotti all'avanguardia, rappresenteremmo l'altra Italia». Orbene, non si può che essere consenzienti con questo affondo portato dal primo dirigente pidiessino alle maniere brusche adoperate nel dibattito all'interno delle forze democratiche di avanguardia. Così come non si può non convenire con l'accusa a certi ambienti «khomeynisti» dello schieramento progressista di praticare un anti-italianismo strisciante -e, talvolta, persino galoppante- culturalmente e psicologicamente collegato con le meno commendevoli tradizioni del movimento operaio e popolare. Tradizioni, pare a noi, illustrative di antichi errori settari; di riprovevoli, autosconfiggenti, suicide pulsioni anti-nazionali. Contro le quali, è giusto riconoscerlo anche con entusiasmo, Massimo D'Alema si è sempre battuto anche prima di assurgere al soglio di Botteghe Oscure.
Ciò detto, dobbiamo obiettivamente riconoscere che qualcosa non funziona nel fitto e per molti versi persuasivo argomentare dell'uomo delle cui posizioni nel dibattito politico veniamo qui discorrendo. D'Alema imputa ai suoi fieri rampognatori di non rendersi conto del fatto che Berlusconi non è frutto di una sua opzione, bensì della scelta di quindici milioni e passa di Italiani. Questo, però, caro Segretario, è un modo di banalizzare il tema in discussione, un espediente per cavarsi d'impaccio non degno di una personalità del suo spessore, del suo rango politico e intellettuale; e, men che meno, del ruolo assolutamente primario da Ella incarnato nel panorama partitico ed istituzionale del nostro Paese. Gli è che noi osiamo ritenere che dal leader della Sinistra italiana sia giusto, lecito, prescritto attendersi -in ordine allo straripamento delle destre coalizzate, in atto fin dal '94- non una semplice registrazione quantitativa della loro identità, bensì l'elaborazione e l'annuncio di una strategia volta, quanto meno, ad allentare la loro pressione sulle istituzioni oltre che sugli sviluppi riformatori del «nostro» discorso democratico. Se così non fosse, se così non sarà, la seria positiva esigenza di un rapporto non settario, non precostituitamente conflittuale con l'opposizione, finirebbe per risolversi in una deriva «buonista» e obiettivamente rinunciataria, vale a dire in un segnalato favore gratuitamente fatto al Cavaliere Azzurro e al suo pretoriano Gianfranco Fininvest.

Gratificante ci appare la sollecitudine posta da Massimo D'Alema nel rafforzamento del carattere «nazionale» della fisionomia e dell'operato del partito sorto sulle ceneri del vecchio PCI. Ivi compreso, in esso, uno spunto critico nei confronti dell'azionismo, considerato quale componente fondamentale di quel tipo di sinistra che tanto lo fa soffrire. Vediamo: «Questo sottofondo di disprezzo per l'Italia e gli Italiani non lo condivido affatto... Perché questo disprezzo, questa ostilità così animosa nei confronti dei nostri connazionali, un atteggiamento per la verità maturato più da una matrice azionista che da una comunista, mi pare assolutamente incompatibile con l'impegno che ci siamo presi di governare questo Paese fatto anche (ahimè - N.d.R.) da quella metà di italiani che nelle urne hanno scelto Berlusconi. Voglio dire che all'interno del campo democratico è diffuso uno snobismo insopportabile, una cultura votata alla sconfitta che certo, magari nei salotti si traduce in un sospiro di sollievo perché è stato impedito alla destra di vincere di nuovo, ma non accetta il D'Alema che vuole trovare un accordo alto con l'avversario e perciò l'accusa di essere un cinico. Ma il cinico, non sono io. Cinica è una cultura snobistica che giudica alla stregua di un attentato un rapporto civile con l'avversario».
Ma, Segretario, è davvero possibile un «rapporto civile» con un tanto incivile avversario? Questo è il punto. La ricattatoria ed eversiva attitudine della opposizione che pretestuosamente fa mancare il suo contributo ai lavori parlamentari in occasione del dibattito sulla Finanziaria non le crea problemi nella valutazione della idoneità interlocutoria del Polo? E come può, un uomo come Lei sicuramente non facilissimo di carattere eppure tanto attento alla esigenza di rapporti politici e personali di buona lega, non provare un insopportabile fastidio per il terrorismo psicologico, a mezzo stampa. de "il Giornale", sottratto dal Cavaliere a un Montanelli per metterlo nelle mani di un Feltri, e, più in generale, per tutta la stampa gialla che fa riferimento all'Asse Arcore-Marino?
Non ritiene. Segretario, che forse sarebbe meglio -prima di impegnare tutto il prestigio Suo personale e della carica che Ella tanto degnamente e coi risultati indubbiamente brillanti ricopre in una operazione tanto complessa, delicata, difficile- indurre il desiato interlocutore a comportamenti più corretti, moderati, costruttivi?
Nel porLe con rispettosa franchezza questo problema ci sentiamo confortati da quanto Ella stessa confida all'intervistatore Pierluigi Battista e, per suo tramite, a una platea attenta e intellettualmente qualificata come quella formata dai lettori di "Panorama". Ad essi, a conclusione dell'intervista, fa sapere quanto segue: «... a destra non vedo luminosi esempi di furore innovativo. E se anticonformismo vuol dire saper sfidare il proprio mondo, a destra questo anticonformismo mi pare che difetti assai. Non vedo nel campo della destra qualcuno che voglia seriamente formare un partito liberista di stampo tatcheriano, che voglia sfidare la sinistra sul terreno della modernizzazione».
Vogliamo spingere la nostra sincerità fino in fondo. Personalmente -ma reputiamo di non essere in ciò isolati- non nutriamo soverchio interesse per dei «furori innovativi» berlusconiani volti alla creazione di un partito reazionario di massa fondato sulle esperienze reaganiane e tatcheriane. Preferiamo puntare su di una crisi di logoramento del fronte delle destre che consenta alle forze che hanno nel movimento operaio il loro referente fondamentale e ai loro più sicuri e vicini alleati di sottrarre consensi, voti, militanti di natura popolare -inopinatamente attratti dalla demagogia filo-padronale e confindustriale del Cavaliere e dei suoi satelliti di ogni genere e specie- al controllo della destra al fine di tenerle per molti anni ancora, possibilmente per sempre, lontane dalla «stanza dei bottoni» di nenniana memoria.
È vero: non siamo granché affascinati dal sistema delle alternanze reciprocamente correttive. Siamo piuttosto vogliosi di battere sempre, sistematicamente la destra. Ovviamente con le armi della libertà e della democrazia. Naturalmente in vista di profonde trasformazioni della società e dello Stato in senso socialista.
Ella lamenta, sostanzialmente, di non essere compreso in misura adeguata nel suo partito e nello schieramento che su di esso fa perno. E ne addebita la responsabilità al super-miliardario di Arcore, più che mai riluttante a seguire le orme delle più efficaci destre britanniche e statunitensi. Ma, scusi Segretario, perché mai Berlusconi dovrebbe favorirla in una strategia che immagina, più o meno fondatamente, elaborata per metterlo ancora una volta con le natiche sul pavimento? Non dimentichi che il Fondatore dell'Impero TV la teme, anche se, forse, l'ha in simpatia. Et pour cause, nel biennio post-occhettiano di polvere gliene ha fatta mordere tanta, veramente tanta.
Comprendiamo, dunque, la sorda riluttanza di cavalieristi e di fascisti rinnegati ad accettare, pienamente e definitivamente, le avances collaborative del capo della Sinistra. Meno capiamo, francamente, Lei quando fa immediatamente seguire, alla frase testè riprodotta, le seguenti amare parole: «E ciò, naturalmente, non fa che aumentare le difficoltà nel mio campo dove mi si rimprovera di essermi spinto in una terra di nessuno in cui l'interlocutore dice di essere ben intenzionato ma, in realtà, vorrebbe soltanto usarmi per dare un po' di fastidio a Prodi. Sarebbe un'illusione. O, aggiungiamo noi, ambirebbe a prendere due piccioni con una fava, sommando al «fastidio a Prodi» un minor fastidio a lui per quanto attiene a discorsi relativi a leggi anti-trust, a conflitti d'interesse, a spazi per Mediaset e via elencando.

Post Scriptum - Mentre concludiamo queste note apprendiamo della pur contenuta e garbata polemica con il Presidente del Consiglio aggregata ad un intervista ad ampio raggio rilasciata al quotidiano "la Repubblica". Nulla di male, visto e considerato che Romano Prodi è un uomo criticabile come tutti i mortali e non una intoccabile divinità. Forse, però, meglio sarebbe stato se le misuratissime, a vero dire, rampogne ad alcuni offuscamenti dell'azione governativa fossero stati esternati in un momento diverso da quello casualmente coincidente con il cannoneggiamento confindustriale su Palazzo Ghigi, rincalzato dal virulento «aventinismo» dei drappelli parlamentari del Polo e da una certa irritazione contrappositoria di quella che una volta veniva definita la stampa «borghese» mentre oggi, in omaggio ad una vera o presunta «modernizzazione» si preferisce chiamarla stampa «moderata». Una stampa, sarà il caso di rilevare, mai soddisfatta della «moderazione» della Sinistra -o, meglio, delle sinistre, come preferisce esprimersi il tandem Cossutta/Bertinotti-; e che mai lo sarà fino a quando i «rossi» peperoncino non si decideranno a diventare «rosa» confetto. Ossia, fuor di metafora, fino a quando essa non si sarà suicidata oltrepassando la moderazione per guadagnare (in ogni senso) le sponde del moderatismo.

Enrico Landolfi

 

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