da "AURORA" n° 39 (Febbraio - Marzo 1997)

ECONOMIA E SOCIETÀ

Socialismo addio?

Giovanni Mariani

 

Le recenti parole di Veltroni e Martelli non lasciano dubbi di sorta. Il primo, comunista pentito, dichiara che la «socialdemocrazia» è un obiettivo datato! In pratica una scelta di rottura che avrebbe dovuto praticare a suo tempo il Partito Comunista Italiano, sin dai tempi dell’invasione sovietica dell’Ungheria, nel '56, ed incita il suo partito, il PDS, a traghettare al più presto e in modo indolore verso le sponde anglosassoni della liberal-democrazia.

Il secondo definisce anch’esso la socialdemocrazia esperienza datata e anacronistica, puntando il dito sul fallimento degli obiettivi storici della socialdemocrazia a causa della caduta del comunismo nell’Europa Orientale. L’ex-delfino di Craxi ritiene che il grande limite della socialdemocrazia sia insito nella sua natura statalista. Martelli gli contrappone una sinistra che si fondi su di un maturo individualismo, rifacendosi, con ciò, al teorico liberal-democratico John Rawl.

Dunque socialismo addio?

O meglio socialdemocrazia addio? Visto e considerato che ogni partito socialista occidentale al momento stesso della rinuncia alla lotta di classe, ed all’egemonia del partito guida, quale avanguardia cosciente della classe operaia, era già di per sé socialdemocratico. Ed in questo l’esempio di Bad Goedsberg fu illuminante, non solo per la socialdemocrazia tedesca, ma per tutta l’area socialista del mondo occidentale. Un vero e proprio tripudio postumo di Bernstein e delle sue idee apparse su i "presupposti del socialismo" e i compiti della socialdemocrazia nel 1889; appunto perché il dietro front dal massimalismo era stato operato (e in concomitanza con la distensione della guerra fredda) persino da quei partiti comunisti che a priori avevano sempre negato le riforme di struttura, e con Togliatti in testa parlavano già di un passaggio al socialismo per via pacifica e di compatibilità con lo Stato.

Indubbiamente lo sviluppo dello Stato socialdemocratico, sociale, o assistenziale, ha prodotto negli ultimi cinquant'anni dei miglioramenti in campo sociale che non trovano riscontro nella storia passata dell’uomo. Tale sviluppo ha raggiunto l'apice nei Paesi scandinavi che hanno mantenuto alta la spesa sociale per i cittadini, assistendoli dalla culla alla bara e garantendo una copertura sanitaria di prim’ordine; i lavoratori sono riusciti a mantenere intatti salari, pensioni, e gli anziani sono stati protetti. Insomma il sistema socialdemocratico ha contribuito a mantenere un più che decoroso livello di vita garantendo quelle conquiste sociali impensabili solamente un secolo addietro. Naturalmente tale sistema ha comportato anche dei problemi, ad esempio l’elevato e crescente tasso di alcoolismo, droga e suicidi, derivati da una diffusa apatia offerta proprio dal fatto che lo Stato si occupa di tutto, ed in ciò la similitudine con l’esperienza del socialismo reale è più che evidente.

Ma il più che esteso fenomeno dell'apatia, non riguarda lo Stato sociale in sé, quanto piuttosto l’immaturità dello Stato sociale, il quale garantendo l’emancipazione dei cittadini non è riuscito a responsabilizzarli né a renderli partecipi ad un sistema così vantaggioso. E in questo non possiamo non cogliere una responsabilità dei partiti socialdemocratici o socialisti che si sono limitati ad accontentarsi comunque e dovunque della via indiretta e non partecipativa del socialismo adagiandosi su sé stessi, lasciandosi infine avviluppare fra le spire della corruzione che tutti conosciamo.

Indubbiamente non si intende esaltare oltremodo in questa sede la socialdemocrazia, che fra l’altro può essere criticata quanto da destra nella sua degenerazione assistenziale, lottizzatrice, indebitata e sprecona, quanto da sinistra in ragione del suo sostanziale verticismo burocratico ben distante dalla partecipazione.

Purtroppo la sinistra socialista e socialdemocratica non è stata capace né di darsi maggiori competenze economiche né di trasformarsi in struttura partecipativa. Ma ciò, a nostro parere, non giustifica né il suo precoce smantellamento (perché i privilegi che il popolo direttamente o indirettamente ha fin qui goduto dallo Stato sociale non torneranno mai più!) né la rincorsa alla svendita dell'economia statale. La privatizzazione dell’economia pubblica, infatti, non trova giustificazioni, perché un’azienda funziona o non funziona in base alla concorrenza dei mercati, e ciò è dimostrato dal buon numero di aziende pubbliche attive e concorrenziali. C’è da rimarcare che indubbiamente lo Stato sociale accentratore burocratico di per sé favorisca la lottizzazione di interi segmenti economici i quali, se entrano in crisi per ragioni di mercato, possono defluire nella morsa del deficit pubblico. Ma la colpa di tutto ciò deriva dal fatto che l’economia pubblica quanto il servizio pubblico rimangono interdetti al controllo pubblico, divenendo così un affare privato fra gruppi di pressione gestiti da tecnocrati. L’assenza di democrazia economica produce assistenzialismo, lottizzazione, sprechi, indebitamenti, ecc.. Ma quello che a nostro parere appare più grave è che la sinistra abbia voluto disperdere un patrimonio, fermandosi di fatto al limite del raggiungimento di una democrazia sociale ed economica compiuta, per ritornare in linea con teorie economiche che all’inizio del secolo apparivano irrimediabilmente sorpassate. Questa è una sinistra che si arrampica letteralmente sugli specchi e tenta di convincere sé stessa prima degli altri di non aver cambiato bandiera. Così cerca di spacciare impunemente le «Public Companies» e l’azionariato popolare come farina del proprio sacco, quando in realtà ciò non ha nulla a che vedere con la tradizione socialista in quanto trattasi di vere e proprie tecno-strutture nelle quali quasi nessun azionista arriva a detenere oltre il 10 per cento delle azioni. Se poi andiamo ad analizzare le cosiddette «Corporation» la percentuale è destinata a diminuire. Del resto qualsivoglia proprietario può risultare informato fin che si vuole al fine di esprimere o sollecitare decisioni, ma comunque le sorti del processo decisionale rimangono saldamente nelle mani della tecno-struttura. L’azionista pur ricco ed informato non può comunque avere accesso ai meccanismi interni della gestione, che a ragione possono essere definiti esoterici. Come potrebbe del resto un anonimo azionista avanzare ipotesi inerenti la politica aziendale, o meglio interferire, senza conoscere a fondo la vita economica dell’azienda? È perciò abbastanza chiaro che se questa è una delle strade per avvicinare l’uomo all’economia, è senza dubbio quella sbagliata. I grandi soloni del rilancio «blairiano» non possono non saperlo. Come non possono non sapere che la strada intrapresa dal laburismo britannico, e solennemente imitata dal nostro Veltroni, pur definendosi democratica è in realtà distante anni luce dall’integrazione del cittadino con la economia politica e l’organizzazione sociale.

Del resto i nuovi consiglieri economici scelti dal segretario del PDS, non provengono dal campo socialista né dalla sinistra, essendo invece altamente stimati nei santuari del liberismo, tanto nazionale quanto internazionale («merchant bank», ecc) e risultano in netta opposizione ai vecchi economisti della sinistra che giudicano superati e controproducenti. Rappresentano di per sé un vero e proprio gruppo di pressione con caratteristiche comuni: laureati negli Stati Uniti, collaboratori del FMI, e generalmente cercano di rifarsi al modello economico statunitense o, meglio, al nuovo modello americano, nel quale ogni riferimento alle tesi di Keynes o Galbraith è ripudiato, di fronte allo studio dei meccanismi sociali dell’amministrazione Clinton. In sostanza se ci è lecito avanzare ipotesi, la base economica della sinistra (tanto quella di D’Alema che intende mantenere il residuo socialdemocratico, quanto quella di Veltroni che intende fare tabula rasa persino dell’esperienza socialista in nome di una liberal-democrazia non meglio identificata) risulta distante e antagonista ad ogni principio partecipativo. Si tratta cioè di una visione ammorbidita del modello liberista, modello che a ben ragione ha rappresentato da sempre l’avversario irriducibile e storico del socialismo. Un modello nato all’insegna dell'efficientismo e del rigore, che tutto sommato con la socialdemocrazia ha da spartire una cosa sola: il positivismo evoluzionista e quindi la convinzione che solo il capitalismo può salvare sé stesso, tramite accorgimenti creati all’interno della struttura. Se ne deduce perciò che la sinistra attuale quanto quella futura si contraddistinguerà con un plateale ottimismo nell’economia e più in particolare con un sistema del tutto svincolato da barriere politiche, sociali, o sindacali che lo ostacolino. Un sistema economico nel quale le forze sociali debbono sacrificarsi fino in fondo per migliorarlo e per renderlo più competitivo.

Una concezione della politica quantomeno aberrante, la quale presuppone che ogni forza attiva (politica, sociale, culturale) risulti comunque subordinata e dipendente dalla tecno-struttura economica. C’è da chiedersi fino a che punto tutto ciò possa definirsi antagonista al liberismo? Di fatto in nulla, in quanto economicamente parla la medesima lingua, ma una differenza esiste. Nel liberismo che a ben ragione possiamo definire un sistema economico nel quale l’intervento dello Stato si limita ai contorni del sistema stesso, la funzione sociale (pensioni, scuola, sanità, servizi sociali) è regolata non tenendo conto dell’etica morale che la gestione di queste dovrebbe comportare, ma al contrario pur ammettendo che siano i privati a gestire le infrastrutture sociali con rigore pari a quello conseguito in altre discipline economiche, si ritiene che tale rigore sia necessario al fine di migliorare la collettività. Nella sostanza la liberal-democrazia si manifesta come un liberismo intriso di spirito messianico del tutto simile a quella etica protestante della quale parlava a suo tempo Max Weber.

Tale spirito non pervade ad esempio il liberismo puro che, a ben ragione, ha come scopo ultimo la creazione del benessere dell’individuo nel contesto della collettività, piuttosto che della collettività come somma di infinite individualità. A prescindere da ciò i meccanismi risultano identici; indubbiamente la liberal-democrazia si avvale d'una malcelata ipocrisia di fondo facilmente identificabile: qualora ad esempio il governo liberista intenda praticare dei tagli o delle nuove tasse, lo fa in nome della salvezza del bilancio, il che è vero. Al contrario un governo liberal-democratico intende farlo, in nome della collettività, o meglio per salvarla. Quando, ben sappiamo, la molla reale di tale operazione sono i conti del bilancio e non tanto il benessere collettivo. La liberal-democrazia si nasconde dietro i bisogni della collettività per venire in soccorso dei bisogni del bilancio manifestandosi palesemente come un liberismo ipocrita. E quindi se era vero il detto che il comunismo fosse la via più tortuosa per giungere al capitalismo, così la liberal-democrazia è la via più ingannevole per arrivare al liberismo. Infatti Marx riteneva che il capitalismo contenesse in sé i germi della propria distruzione, ma fino a che punto aveva torto?

Un sistema finisce solitamente per crollare qualora non riesca a mantenere gli obiettivi che si prefigge, ebbene non si può certo sostenere che il capitalismo abbia raggiunto i propri. Le sue magagne storiche restano croniche; un esempio fra i tanti: il mercato del lavoro in un mercato perfetto (utopia delle utopie partorita da Adam Smith) in cui i salari dovrebbero esser determinati dalla domanda e dall’offerta come per qualsiasi altro bene. Il mercato risulterebbe così in una situazione di pieno equilibrio, garantendo a tutti la piena occupazione. Ma così non è, visto e considerato che la disoccupazione sta raggiungendo livelli mai raggiunti prima in Europa se non in concomitanza di crisi economiche di portata ciclopica.

La piena occupazione è un ricordo lontano, che i Paesi altamente industrializzati sono riusciti a mantenere per qualche decennio, e va sottolineato che il livello elevato e stabile di occupazione, ovvero la situazione nella quale permane un numero di posti di lavoro sufficiente a saziare la domanda, s'è verificato per l'appunto in un momento storico nel quale lo Stato sociale dominava. Ciò a maggior riprova che la crisi economica non è direttamente dipendente dalla percentuale di economia pubblica presente in una determinata nazione. Un altro spauracchio dell'economia, la recessione, è ben presente nel sistema economico attuale e indubbiamente risulta concatenata alla disoccupazione. Volendola infatti definire come un periodo economico nel quale la crescita risulti lenta o nulla, c’è da domandarsi fin quando possa definirsi tale, e non in altro modo, ovvero nella depressione, che ne rappresenta a tutti gli effetti la fase terminale. Un momento economico caratterizzato dalla chiusura di molte imprese, dalla domanda che crolla, dalle code davanti agli uffici di collocamento, e quindi dall’impoverimento generalizzato.

C’è da supporre di essere entrati a pieno titolo in questa fase «adulta» della recessione e i sintomi sono sotto gli occhi di tutti. In quanto all'inflazione e al suo evidente abbassamento, c’è da chiedersi se sia merito della recessione galoppante, e quindi della diminuzione della domanda o parte integrante dei progetti anti-inflazionistici operati fin ora che, come ben sappiamo, non hanno mai trovato applicazione indolore, in quanto calo della produzione e relativo aumento della disoccupazione marciano assieme a tali provvedimenti.

Arriviamo poi al tanto declamato debito pubblico; a prescindere dall’ottusa politica economica praticata negli anni ottanta, mirante a fare di ogni italiano un finanziatore del debito pubblico attraverso la compravendita dei Titoli di Stato, quanto degli sprechi disumani sostenuti da amministrazioni corrotte e incapaci, ci sono due cose da evidenziare subito: innanzi tutto il debito pubblico interno è comunque meno grave di quello contratto con l’estero, che come ben sappiamo viene a gravare direttamente sulle riserve di valuta estera prodotta dalle esportazioni. In seconda istanza il debito pubblico, pur con sostanziali distinzioni, non risulta essere un problema circoscrivibile all'Italia, ma al contrario interessa quasi tutti i Paesi più industrializzati del pianeta. Dunque come possiamo notare il capitalismo non è riuscito a mantenere i presupposti del suo stesso sviluppo, o più semplicemente i propri obiettivi, ovverosia la creazione di uno status quo utopistico, libero dalle minacce storiche dell’economia: debito pubblico, disoccupazione, inflazione, recessione ecc.. E di tutto ciò non si può certo dare colpa esclusiva allo «statalismo» perché è bene chiarire che persino in quei Paesi ove la ingerenza dello Stato sull’economia risulta pressoché nulla, permangono tali ostacoli di natura economica. Dunque il capitalismo, o meglio il liberismo, hanno fatto bancarotta da tempo dimostrando di non essere in grado, ed in questo similmente al socialismo reale, di abbattere gli avversari storici. Anche se da più parti si avverte l’ingerenza dello Stato come il nemico reale del capitalismo, dimenticando volutamente che anche laddove lo Stato non esiste più come soggetto economico, disoccupazione e debito pubblico prosperano indisturbati confondendo perciò abilmente la causa con l’effetto. Se ne deduce che il bilancio economico di una nazione possa risultare positivo o meno indipendentemente dalla presenza dello Stato sociale, ma al contrario dipende direttamente da una serie di fattori interni ed esterni del tutto avulsi dalla natura stessa dello Stato. Appare perciò chiaro che la battaglia del «benessere» lanciata da questa sinistra, all'insegna dello smantellamento dello Stato sociale e caldeggiata dai solerti commissari europei, non porti a nulla, sia di per sé inutile, e un grande inganno. Un vergognoso marchingegno destinato ad arricchire i ricchi ed a impoverire i già poveri, sotto l’egida della menzogna del secolo, realizzare l’economia perfetta, priva di conflitti e ostacoli.

In nome della democrazia si sono compiuti molti orrori, e naturalmente quello più grande rimane la sua irrealizzazione! Perché la democrazia intesa come partecipazione non è stata tale neppure nella socialdemocrazia che poteva definirsi a pieno titolo come un simulacro zoppo della democrazia. Non fu democrazia politica lasciando i cittadini estranei e marginalizzati nella gestione centrale e periferica della cosa pubblica. Non fu democrazia economica lasciando di fatto i lavoratori esclusi dalla partecipazione alla gestione dell’economia. E, dulcis in fundo, i post-socialisti cercano di compiere un'altro di questi orrori, andando a toccare i pilastri del socialismo: l’educazione, la sanità, la previdenza, e la leva obbligatoria. La nuova sinistra contrariamente alle nostre speranze si preannuncia oligarchica, tecnocratica, liberista, antidemocratica nel senso più vero della parola, ed infine pervasa da un messianismo ipocrita destinato a raccogliere le esigenze delle minoranze piuttosto che delle maggioranze, figlio naturale d’un libertarismo amorale tipico della borghesia non produttiva.

Vorremmo quindi fare appello a tutti coloro che credono ancora nel socialismo, facendo una domanda:

Fino a che punto il popolo della sinistra intende sopportare oltremodo il ridicolo e doloroso tentativo di passare le consegne dall’eredità socialista a quella liberale?

Giovanni Mariani

 

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