da "AURORA" n° 39 (Febbraio - Marzo 1997)

EDITORIALE

Dahrendorf:
il volto inquietante dell'euro-scetticismo


«Manus manum lavat»
Socrates


«Deligere oportet quem velis diligere»
Cicero


C’è chi ha definito Lord Ralf Dahrendorf «più inglese di un inglese», ponendo in particolare evidenza il suo «realismo scettico» di ascendenza humiana.

La prima osservazione che viene spontanea è la seguente: se vi è una nazione europea visceralmente ostile all’unificazione europea, questa è certamente l’Inghilterra. Almeno dai tempi di Napoleone I: e, vorrei aggiungere, non considerando la nazione inglese come «totalità», ma solo per la sua «Classe dirigente». L’Inghilterra è poi stata «europeista» per effetto delle circostanze storiche seguite all’esito del secondo conflitto mondiale; ed è difficile dire fino a che punto «obtorto collo». Lo è stata comunque con notevole ritardo rispetto ai Paesi fondatori, fra i quali l’Italia non ebbe certo un ruolo di secondo piano, come la stessa Germania. Entrata infine nella Comunità europea, l’Inghilterra si è segnalata quanto meno per la puntigliosa difesa del suo «modo di vedere». Il quale, il più delle volte, «coincideva» con quello statunitense. Questo il destino beffardo ha riservato all’arrogante quanto in definitiva ottuso «imperialismo albionico»; che poteva ormai consolarsi con imprese «autotutelatrici» ma in effetti svolte «su commissione», come quelle relative alla guerra delle Maldive-Falkland, in cui, significativamente, il disprezzo per la vinta Argentina -come molti ricorderanno- fu pretesto all’Inghilterra per ostentare il mai sopito rancore per l’Italia, per quell’Italia «colonizzatrice» che un tempo non molto lontano non si accontentava dei mezzi «pacifici» dell'emigrazione e anzi osava proporre al mondo un modello alternativo di «colonialismo».

Ciò premesso, l’euro-scetticismo di Lord Dahrendorf, ribadito nel recente «pamphlet» "Perché l’Europa?", dovrebbe mettere sull’avviso il lettore attento e «critico». Quanto a me, che sono attento e «critico», ma non «imparziale» perché apertamente schierato, mi rendo conto della difficoltà di riuscire persuasivo, discutendo le tesi di Dahrendorf. Ricordo tuttavia al Lettore che su "Aurora" le sue vedute sono già state analizzate con passabile obiettività, tanto che sono state persino condivise in punti non marginali: e ciò non soltanto da parte mia.

Voglio altresì ribadire una mia convinzione: che tutti i «prodotti culturali» sono influenzati dallo «spirito dei tempi» quanto da interessi politici ed economici non necessariamente spregevoli, e che ciò avviene immancabilmente e persino al di sopra della volontà degli autori, anche quando si tratti di uomini onesti e «imparziali» come Dahrendorf.

Per tale motivo, considero qui il Dahrendorf l«inglese» limitatamente al suo scetticismo derivato dall’illuminista David Hume; per cui, in ragione della terribile serietà del «pirronismo» humiano, il «realismo scettico» di Dahrendorf non può affatto -mi pare- confondersi con un banale pragmatismo di marca anglosassone. Vi è poi da notare che il Dahrendorf è «tedesco» non solo per nascita, ma perché, soprattutto, intellettualmente radicato nella cultura tedesca. Basti ricordare il peso che Kant e Popper hanno avuto nella sua formazione.

Se si considera che il liberalismo kantiano, per il rigoroso formalismo imperativo della sua etica, può essere accolto con i dovuti aggiustamenti nel quadro di un socialismo nazionale europeista come quello sostenuto da Sinistra Nazionale; e che altrettanto non si può riguardo al liberalismo di Karl Popper, per il suo mai smentito rifiuto di una «ingegneria sociale» di orientamento organicistico; allora, nella struttura del pensiero dahrendorfiano, il ruolo dello scetticismo integrale di Hume è e non può non essere quello di consentire una ben connotata sintesi fra il liberalismo kantiano e quello popperiano, sintesi chiaramente finalizzata a «superare» in direzione del più «moderato» liberalismo popperiano gli elementi «arcaici e autoritari» presenti in Kant.

Pertanto, il «realismo a base scettica humiana» di Lord Dahrendorf si presenta come aderente alla realtà del capitalismo post-industriale risolvendosi in uno sperimentalismo integrale antidogmatico, che però non è un volgare pragmatismo, come si comprenderà meglio fra poco. Il modo, di argomentare di Lord Dahrendorf è talmente lineare e rigoroso, che verrebbe da condividerlo in pieno.

Tuttavia, è legittima la seguente domanda. Fino a che punto la finanza internazionale è disposta a tollerare l’anti-dogmatismo di questo fin troppo acuto ragionatore? Fino al punto -è chiaro- che esso non venga a urtare i dogmi del «globalismo», e per la medesima ragione per cui oggi lo accetta, onde valersene per scardinare il «vetero-capitalismo», il capitalismo produttivo altrimenti detto «capitalismo ecumenico».

È questo il punto debole sostanziale del sistema dahrendorfiano, ove si coglie la sua insufficienza pressoché completa di caratteri etico-normativi, causata, come si è visto più sopra, dalla pretesa di contrapporre Hume a Kant per approdare a Popper. E questo non è affatto un progresso ma un regresso, giacché l’innovazione di Kant rispetto a Locke e allo stesso Hume, consistette nell’introduzione del concetto di «trascendentale», con cui veniva recuperato e riformulato in termini «scientifici» l’a priori della filosofia scolastica, facendolo valere sia contro la brutta «empiria» (Locke), sia contro la non meno bruta «intellettualità» della scepsi humiana.

In una parola, esiste uno scetticismo «attivo» che batte in breccia i «valori tradizionali»; ed è quello di Hume, quello di qualsiasi pensatore rivoluzionario ovvero reazionario. Ed esiste uno scetticismo «anchilosato» se non proprio «passivo», il quale, in nome di uno «sperimentalismo integrale antidogmatico», non sa in realtà dove andare, procede a tentoni, timoroso più di sbagliare che della sua inerzia e «impotenza». Questo sembra essere proprio lo scetticismo, anzi il «realismo» di Lord Dahrendorf: uno scetticismo che non è né rivoluzionario né reazionario, ma soltanto -non è data, ahimè, altra possibilità logica-conservatore.

Sorge qui una domanda a cui nessuno può rispondere al momento, nemmeno Lord Dahrendorf. E cioè: conservatore nel senso del «capitalismo ecumenico», o dell’«anarco capitalismo» che avanza, che sembra avanzare nonostante tutto? Se dovesse verificarsi la seconda ipotesi, certo Lord Dahrendorf non potrebbe gloriarsene (e lo diciamo senza alcuna ironia). Se invece si verificasse la prima, non avrebbe da gloriarsene la «storia», ma solo quei «furbi» per i quali è massima di vita il detto che s'attribuisce a Luigi XV, «Après moi le déluge», «furbi» i quali allignano in tutti i ceti e «classi» sociali, fra i «ricchi» come fra i cosiddetti «poveri», che una ben definita tendenza che denota, l’«umanismo» catto-liberal-bolscevico continua a presentare come «minorenni e minorati», vittime passive delle situazioni, meri «ricettori del messaggio mediale».

Pure, circa l’essere Lord Dahrendorf un conservatore, nel senso di situarsi nell’alveo del nominato «umanismo» in cui alla fine confluiscono le più disparate correnti storiche -e nella direzione impressa dal trionfante anarco-capitalismo, malgrado l’Autore-, lo dimostra il tenore di certe affermazioni recentissime pronunciate presso la Fondazione Cini, nella lezione conclusiva del corso della Scuola per Librai Umberto ed Elisabetta Mauri. Egli sostiene di non essere un «eurocinico», nonostante la cruda disamina delle cause che renderebbero l’unità imposta da Maastricht disastrosa al punto di compromettere la unificazione economica già realizzata dagli Europei. Dice piuttosto di essere un «europeista scettico» e chiarisce come segue il significato di questa capziosa distinzione. «Eurocinico», sarebbe colui che «sic et simpliciter» non crede alla unificazione politica e nemmeno la vuole. «Europeista scettico», sarebbe invece chi la vuole e teme che ricette di politica economica come l’imposizione prematura della moneta unica (l’Euro o «franco-marco»), possano comprometterla irreparabilmente. Dahrendorf non vuole che «si anticipino i tempi», al pari degli economisti settecenteschi crede nella «longa manus» e forse ne ha una concezione ancora più metafisica. Infatti sostiene che gli Europei, prima di darsi una moneta unica, dovrebbero continuare a scambiare le loro merci, ma soprattutto dovrebbero cominciare a «scambiarsi» le loro culture, che dovrebbero però restare «rigorosamente diversificate» essendo la diversità «ricchezza».

Sono da farsi, al riguardo di una simile presa di posizione contro l’«omologazione culturale», alcune considerazioni che mi paiono fondamentali. Anzitutto le culture, nella concezione dahrendorfiana, vengono ritenute merci con una sorta di marchio di «denominazione d’origine controllata» che conferisce loro un apprezzabile «valore di scambio». È però da osservare che, mentre le merci vere e proprie possono, in quanto oggetti inanimati, conservare inalterate le peculiarità qualitative proprie, accade naturalmente proprio il contrario per le culture, che sono organismi vivi e quindi reciprocamente influenzabili «per contatto». Se ne deduce che una «omologazione culturale» diventa inevitabile, e, date le caratteristiche della nostra epoca, anche in tempi molto brevi. Perciò lo «scambio» delle diversità culturali intese come merci, distrugge queste diversità quasi nel momento stesso in cui si verifica. In realtà, ove il suggerimento dahrendorfiano si attui (e già si attua con modalità suscettibili di un quasi indefinito «miglioramento»), viene a determinarsi quella omologazione culturale allo stato puro (ovverosia più spurio, secondo le «Weltanschauugen» non «liberali») di cui abbisogna il globalismo per ottimizzare la sua capillare diffusione: abbassando a suo piacimento il livello qualitativo delle merci destinate al consumo delle «masse», incidendo in tal modo sulla «libera» dinamica della legge della domanda e dell’offerta e più agevolmente indirizzando gli investimenti «produttivi» verso la speculazione finanziaria.

Ma vi è un altro fatto di estrema importanza che sembra sfuggire a Lord Dahrendorf. Riguarda la pretesa «diversità culturale degli Europei». Essa esiste soltanto in quelle aree geografiche e presso quei segmenti della popolazione europea che, per ragioni storico-economiche, hanno conservato una sorta di «originarietà primitiva», da intendersi a un di presso, per il suo carattere inconsapevole, irriflesso, situato nelle regioni infere dell’etnia, alla stregua della ferinità: proprio quella «diversità culturale» che è il substrato irrazionale di tutti i fenomeni centrifughi che si sono verificati dopo il crollo del Muro di Berlino soprattutto, e a cui sono da ricondursi motivi non marginali del disfacimento dello stato jugoslavo e lo stesso secessionismo leghista: fenomeni tutti funzionali a distruggere la già vacillante autorità degli Stati nazionali e la loro integrità territoriale, a tutto vantaggio del globalismo (non è casuale, a proposito della Lega, l'estrema povertà intellettuale, rivelantesi anche nell'estrema rozzezza e approssimazione del linguaggio politico, che trovasi presso tutti i suoi attuali leaders, primo fra tutti l'ineffabile Senatore Bossi).

Ma ove si prenda in esame la cultura europea di alto livello, la pretesa «diversità culturale degli Europei» è una falsificazione patente. Non è mai esistita, neanche dopo la caduta dell'Impero romano d’Occidente. Anzi è proprio questa indipendentemente dal suo orientamento politico, il dovere dell’unificazione europea: presso il ghibellinismo come presso il guelfismo medioevale, presso il disegno di restaurazione imperiale di Carlo V e di Filippo II di Spagna, presso la Francia di Luigi XIV e di Napoleone I, presso la Restaurazione, il fascismo e lo stesso comunismo sovietico.

Sembra che Lord Dahrendorf, pur così acuto e dotto, ignori e anzi letteralmente non veda ciò che è sotto gli occhi di chiunque abbia occhi per vedere. Egli, che si ritiene un «realista» e come tale è osannato dalla pubblicistica specialistica e non, ragiona a un di presso così; poiché il passato europeismo, che era più politico che economico, ha fallito, a maggior ragione fallirà il contemporaneo, se non si emancipa dalla tutela politica e non «si affida» alla libera dinamica delle forze economiche. Poiché oggi, per la prima volta nella storia, l'economia «può fare a meno della politica», è teoricamente possibile che essa vinca laddove la politica ha sempre perso. Ma se le ragioni dell'unificazione europea sono soltanto economiche (e anche quelle «culturali», si è visto più sopra, sono ridotte all’economia), allora, per ragioni economiche, anche l’Europa «ideale» di Dahrendorf, quando la si fosse costruita, la si potrebbe sciogliere: per principio sancendosi il «diritto alla secessione». E dunque a una confederazione europea pensa Lord Dahrendorf, a qualcosa che, in realtà, si può legare e sciogliere secondo l’arbitrio degli interessi economici. Si tratta appunto dello «scetticismo metodico» di David Hume, trasferito dalla «metafisica» all’economia, uno scetticismo in cui, del tutto irrealisticamente, non è possibile alcuna vera affermazione, in quanto ogni affermazione presuppone una negazione, «vive» mediante essa, prima che «sia uccisa» dalla negazione successiva: sembra vivere, ma in realtà è morta, o meglio è la morte evocata e vivente.

In una simile prospettiva, anch'io non posso non ritenermi un «europeista scettico». Epperò radicalmente scettico e «a mio modo» utilizzando David Hume. L’esito, è così del tutto divergente rispetto alle conclusioni di Lord Dahrendorf, in, quanto negandosi da parte mia il «primato delle ragioni, economiche dell’europeismo», affermo l’assoluto primato delle sue ragioni politiche. Certamente, non posso non consentire con lui sull’attuale debolezza di queste ragioni; non posso non temere che, realisticamente, la linea di tendenza storica si muova verso l’aggravamento di tale debolezza. Ma, altrettanto realisticamente, nessuno può negare che i governi europei si sforzino in ogni modo di contrastare la tendenza in atto, per riaffermare nei fatti, sia pure fra molteplici contraddizioni e incoerenze, l’autonomia se non proprio la «primazia» della politica. Al riguardo non si può essere scettici, anche perché naturalmente ogni persona non rinuncia ad essere quel che è: né il mercante né il politico, il quale, pur condizionato dal mercante, non gli cederà mai il campo tanto facilmente, al limite «mercanteggiando» sulla politica (e in ciò i politici italiani hanno superato e superano con eccessiva disinvoltura tutti i limiti, ma -bisogna riconoscerlo senza falsi moralismi- per motivi che trovano una spiegazione nell’essere -ancora- l’Italia un Paese a sovranità limitata, presidiato non solo da truppe d’occupazione di una potenza straniera, ma da organizzazioni malavitose autoctone, quinta colonna di questa potenza e «Stato nello Stato contro lo Stato»: basta solo accennare a questi motivi, date le dichiarazioni di principio fatte fin qui esplicitamente e implicitamente).

 

Venendo ai problemi politici concreti dell’europeismo nella fase attuale, problemi che interessano direttamente il nostro Paese perché strettamente collegati alla continuità dello Stato e alla sua integrità territoriale, sono d’obbligo alcune considerazioni, che avranno una forma schematica, volendo presentarsi non in guisa di affermazioni dogmatiche «da ur fascista», ma come spunti di riflessione che questi, rinunciando o tenendo a freno la sua «connaturata oltracotanza», vorrebbe proporre, specialmente a coloro che, nella sinistra marxista e non, lo accusano più o meno velatamente d’essere un «pretenzioso fossile», atteggiandosi dal canto loro a campioni della «Ragione» della «Civiltà» e dell'«Umanità».

Come prima e fondamentale considerazione: a fronte della volontà dei governi di pervenire al più presto all’unificazione politica europea, e nonostante le difficoltà e il rischio che essa risulti alla fine funzionale alle logiche del globalismo, quand’anche questa volontà fosse assai minore di quel che in realtà è, sarebbe colpevole non aiutare, ciascuno coi mezzi a sua disposizione, tale processo che si intende affrettare, magari «artificiosamente», e tuttavia con chiare e decise connotazioni politiche al fine di evitare che connotazioni di altro genere, quasi «per inerzia», prendano il sopravvento.

Ciò è tanto più impellente, ove si consideri, a prescindere da vedute etico-politiche che potrebbero non condividersi, la «ragion di Stato» pura e semplice con le sue ricadute sugli interessi della borghesia italiana, dagli Agnelli ai Berlusconi, in relazione alla questione del secessionismo leghista. È di assoluta evidenza l’interesse della borghesia italiana a poter contare su un mercato interno che copra l’intero territorio nazionale e per cui anche fu realizzata l'unità italiana. Tale interesse -dovrebbe essere altrettanto evidente- accomuna la grande e la piccola imprenditoria del Settentrione. Ma quest’ultima, la cui intelligenza dei fatti economici si limita a soffermarsi soltanto sulle «enormi» perdite di profitto causate dalla rapina fiscale, dagli sperperi e dalle varie inefficienze del governo centrale, ma non anche sulla propria effettiva capacita di reggere la concorrenza mitteleuropea a secessione avvenuta, non vuole intenderlo in alcun modo, passiva e ottusa soggiacendo a una paranoia economicistica quasi nella sostanza identica alla paranoia etnica che ha contribuito a dissolvere la ex-Jugoslavia; epperò -riteniamo- affatto indisposta a sostenere l’«istantia crucis» di un conflitto armato, per effetto d’una peculiarità della paranoia economicistica consistente nella progressiva scomparsa di virtù militari, in senso letterale e traslato, presso le popolazioni che ne sono affette: prima, fra queste virtù militari, la disponibilità alla risoluzione estrema e all’estremo sacrificio.

Non è affatto escluso che la paranoia economicistica che distingue le velleità della piccola impresa industriale del Settentrione (ma anche gli agricoltori e allevatori non proprio e soltanto piccoli della Padania), possa essere strumentalizzata dalla «ragion di Stato» di potenze straniere. Se ne è parlato da più parti, né può essere taciuta -lo diciamo con viva soddisfazione- l’iniziativa unilaterale, senza previa informativa ai competenti ministri Dini e Andreatta, con cui il PDS ha inteso aprire le trattative per la soppressione delle basi statunitensi sul territorio nazionale (cfr. "Panorama" del 28/11/96, p. 32). Si è anche ventilato un «gentlmen agreement» fra Tedeschi e Statunitensi per una spartizione dell’Italia in due zone di influenza, tedesca al Nord e statunitense al Sud e nelle isole, ove la instabilità politica italiana dovesse perdurare.

Ve ne è abbastanza per intendere le ragioni dell’estrema prudenza (al limite della patente debolezza e viltà) usata dall’attuale governo nei confronti della Lega, sempre più proterva nelle sue richieste «indipendentistiche». E chiarisce ben altre cose il fatto che le sue farneticazioni sul «fascismo» del governo e sulla sua pretesa «violazione del diritto all’autodeterminazione dei popoli», siano state difese da un Marco Taradash in Parlamento; il che ha provocato la immediata puntualizzazione di un altro deputato di Forza Italia, che precisava essere le vedute di Taradash opinioni personali e non «posizioni ufficiali del partito», Come che sia, bisogna rammentare che lo stesso Onorevole Berlusconi ha più di una volta affermato la «opportunità di rivedere la prima parte della Costituzione», questa rappresentando una delle tante «ambiguità» del Cavaliere Azzurro, e senz’altro la più pericolosa. Inoltre, egli, dopo il rifiuto di AN di votare D’Alema alla presidenza della Bicamerale, ha commentato che AN sarebbe viziata da una certa «arcaicità» nel modo di intendere e di fare politica; «arcaicità» che tuttavia grazie all’alleanza col Cavaliere, ha permesso a questa compagine politica di diventare il terzo partito italiano, al quale una eccessiva condiscendenza alle direttive del «padrone del vapore» non può al momento che nuocere, non solo -crediamo- in termini quantitativi di consenso. Per quanto ci riguarda, è da augurarsi che la grave crisi del Polo, venuta finalmente alla luce in tutta la sua gravità e complessità, giunga alle sue naturali conseguenze, salvo «imprevisti» che non è per niente improbabile si verifichino «in extremis», non solo per la «logica perversa» del sistema maggioritario.

E tuttavia, non credo si debba vedere l’intesa Berlusconi-D’Alema nell’ottica del solito «consociativismo». È in effetti l’unica soluzione possibile per dare al Paese la stabilità di governo di cui ha urgentemente bisogno, non solo per risolvere le gravissime emergenze interne, quanto, soprattutto, quelle relative alla politica estera e alla conservazione della integrità territoriale dello Stato.

Io a suo tempo giudicai sfavorevolmente la vittoria dell’Ulivo (per cui tuttavia votai e invitai a votare sulle pagine del nostro giornale suscitando non poche perplessità). Non avrei voluto che la liquidazione dello Stato sociale -e nella maniera più vergognosa venendosi a sacrificare i più deboli, che sono i pensionati non «di annata»- spettasse alla sinistra piuttosto che alla destra che ne era stata promotrice secondo la visione berlusconiana, tanto edulcorata all’apparenza quanto dura e intransigente nella sostanza. Una sinistra all’opposizione e compattata dalla circostanza stessa di essere all’opposizione, avrebbe certamente lavorato meglio per limitare la alienazione delle aziende IRI e l’«alleggerimento» delle incombenze dello Stato sociale.

Pertanto, credo di poter comprendere il tono grave del discorso pronunciato da D’Alema all’atto del suo insediamento alla Presidenza della Bicamerale. Mi ha colpito favorevolmente il modo con cui egli ha confrontato i tempi della Resistenza da cui è nata questa Repubblica, con i tempi attuali della sua «rifondazione» improcastinabile. Quei tempi -ha detto a un di presso l’Onorevole D’Alema- furono «più facili» grazie alle tensioni ideali suscitate dal conflitto mondiale e non dalla guerra civile.

Mai furono pronunciate negli ultimi tempi parole più asciutte e dense di significato per la vera riappacificazione degli Italiani, parole che potrebbero accusarsi di opportunismo, solo da chi è lui stesso un opportunista; ovvero, non avendo mai conosciuto la sincerità, non può riconoscerla quando la incontri per avventura. Quanto più convincente l’onorevole D’Alema, così «antipatico» persino quando deve assumere i panni del «buonismo», a fronte dell’Onorevole Bertinotti, sempre «simpatico», «suasivo», «popolare» presso gli «alti» come presso gli «infimi» strati della popolazione, gesuita tanto nel male quanto nel bene! Quel Dio «sconosciuto» e tanto poco catto-bolscevico che invoca l’Onorevole D’Alema, di sfuggita e senza tante smancerie, perché ci aiuti nell’attuale frangente, potrebbe benissimo essere anche il nostro Dio. «Ce la faremo», egli ha detto nel più pretto spirito gramsciano: ce la faremo, perché lo vogliamo.

Qualcuno potrebbe obiettare che qui si stia concedendo troppo credito all’Onorevole D’Alema. E perché -è da ribattere- non si dovrebbe?

Prescindendo da altri argomenti, non è forse vero che la «concessione di credito» impegna il debitore almeno quanto il concedente se non di più.

 

 

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