da "AURORA" n° 39 (Febbraio - Marzo 1997)

LE IDEE

 

Nazione, Socialismo nazionale, Fascismo nella cultura meridionale

Francesco Moricca

 


 

«È la lotta dei popoli poveri e numerosi di braccia contro gli affamatori che detengono il monopolio di tutte le ricchezze e di tutto l’oro della terra; è la lotta dei popoli fecondi e giovani contro i popoli isteriliti e volgenti al tramonto»

Benito Mussolini (8/6/1940)

 


 

«Puoi cacciare l’indole naturale con un forcone: ma tornerà sempre di nuovo»

Quinto Orazio Flacco

 


Il socialismo -è noto- nasce a seguito della rivoluzione industriale. Tuttavia, poiché presuppone l'idea di una sostanziale eguaglianza fra gli uomini e di un regime tendenzialmente comunista, lo si può far risalire al cristianesimo delle origini, forse proprio a quel movimento degli Esseni a cui sembra esser appartenuto Gesù di Nazareth prima di entrare nella vita pubblica. Non può essere un caso, infatti, che tutte le correnti rivoluzionarie, dal Medioevo alla Rivoluzione francese, si siano in vario modo richiamate al «Cristianesimo primitivo». Sintomatici, per esempio, l’anabattismo e i "Levellers" che tanta parte ebbero durante la prima rivoluzione inglese.

Tuttavia, se esiste un socialismo e un comunismo di matrice democratico-egualitaria e cristiana (quello che propriamente si suole intendere di norma per «socialismo»), esiste anche un socialismo e un comunismo di matrice aristocratica e anti-egualitaria, più antico di almeno quattro secoli, e il cui modello più prossimo all’ambito geografico della cultura occidentale si trova delineato nella "Repubblica" di Platone. Il quale Platone, secondo il Vico del "De antiquissima italorum sapentia" ripreso da Vincenzo Cuoco ai primi dell’Ottocento nel suo "Platone in Italia", si sarebbe ispirato a una tradizione italica nota già a Parmenide e Pitagora.

Diciamo subito che il celebre saggio anti-illuminista di Vincenzo Cuoco sulle ragioni del fallimento della Rivoluzione napoletana del 1799, nonché le stesse idee di abolizione del latifondo in favore della piccola proprietà contadina, propugnate dal Vico nell’ottica del dispotismo illuminato settecentesco, si possono far rientrare nella genesi dei concetti di nazione e di socialismo nazionale come si andranno precisando in seguito.

Si tenga altresì presente che Marx prospetta il comunismo cristiano e quello platonico come due casi di «comunismo primitivo», di cui il primo sarebbe la forma «più evoluta», in quanto respinge l’idea della donna come mero «strumento di procreazione» e «proprietà comune» dell’aristocrazia (anche allo scopo della sua utilizzazione a fini eugenetici). Tuttavia una simile lettura del testo platonico ignora volutamente che il filosofo ateniese ha tanto poca stima delle donne da ammettere la possibilità che alcune di esse (le «più perfette») siano cooptate nella casta dei filosofi-reggitori.

 

In quanto si è collegata l'origine del socialismo moderno al fenomeno internazionale della rivoluzione industriale (con quel che ne seguì nei rapporti fra le classi delle singole nazioni europee e fra le stesse nazioni anche sul piano della competizione coloniale); e in quanto l'origine lontana del socialismo moderno la si è stabilita nel carattere internazionale che assunse il cristianesimo primitivo con Saulo di Tarso (in polemica con la tesi «giudaizzante» sostenuta da Simon Pietro), si dovrebbe concludere che il socialismo moderno è e non può non essere un’ideologia democratico-egualitaria e internazionalista, e che pertanto un socialismo nazionale è logicamente impossibile essendo una contraddizione in termini; impossibile, sia per le caratteristiche storiche della nazione modernamente intesa, sia, a maggior ragione, ove si avesse la pretesa di adeguare la nazione moderna al modello della città-stato antica.

Ciò, ovviamente, nel quadro di una concezione filosofica storicistica (e il materialismo storico marxiano è, comunque, una forma di storicismo).

Però, anche in questa prospettiva «scientifica», le cose non sono così semplici come sembrano. Si potrebbe citare il ruolo che l'imperialismo napoleonico, erede delle istanze socialiste della Rivoluzione francese, ebbe nello stimolare la coscienza nazionale, sia nelle regioni geografiche sotto la sua diretta influenza (è il caso dell’Italia in specie), sia nelle regioni che non lo erano o non lo erano del tutto (come la Russia, la Germania, la Polonia). Venendo a tempi più recenti, si potrebbe menzionare l’importante funzione che ebbero per l’indipendenza dei popoli sottoposti al colonialismo e al neo-colonialismo, gli imperialismi sovietico e cinese, l'uno rispetto all’altro «in contraddizione»: l’imperialismo sovietico sostenendo una concezione «più moderna» e «sovranazionale» del socialismo; l’imperialismo cinese, nella versione maoista, una sua concezione «più arcaica», contadina e nazionalista siccome orientata a contrapporsi a Mosca per conquistare il proprio «spazio vitale».

Potrebbe pertanto sembrare che il concetto di nazione e di socialismo nazionale sia proprio ad aree geografiche e a popoli che, essendo «emarginati» ovvero «sfruttati» da altri popoli, lo assumerebbero onde rivendicare il proprio «diritto». Ciò è indubitabile presso i popoli che non abbiano mai conosciuto una civiltà nel senso alto e completo del termine, mostrandosi così incapaci di sollevarsi al di sopra dei propri particolaristici interessi. Ma diventa insostenibile, o almeno assai problematico nel caso di Paesi come la Cina, l’Italia, la Germania ottocentesca, o i Paesi islamici. Qui infatti, persino nelle condizioni storiche più infelici e più propizie quindi all’insorgere di egoismi di vario tipo in forme anche esasperate, il retaggio di uno splendido passato permane esercitando la sua benefica funzione regolatrice: e permane -crediamo- non solo nelle «èlites», ma anche negli strati più bassi della società; anzi è qui, più che nei ceti cosiddetti «colti», che permane nella forma meno contaminata; tal che è proprio nel «folklore» che andrebbe ricercata la vera civiltà di un popolo nei suoi aspetti più autentici e alti, tutt’altro che «primitivi».

È in questo retaggio di civiltà per niente «folcloristico», che andrebbe vista l’essenza della nazione, cercando però di isolarne gli aspetti inconsapevoli per cui la nazione, il cui substrato naturale è l’etnia, finisce col coincidere con quest’ultima, in assenza di stimoli contrari in senso analogico, stimoli che si possono dire «culturali» solo se si tiene conto della differenza fra «cultura» e «civilizzazione». Nella concezione fascista, è la rigida subordinazione della nazione allo Stato, ciò che impedisce la naturale regressione della nazione verso l’etnia: lo Stato però vi è concepito come organizzazione gerarchica paramilitare, non come «società civile», come organizzatore di «servizi efficienti», come «Stato pedagogo» e «burocratico». Concepito in quest’ultimo modo, lo Stato, la nazione non si distinguerebbe da un alveare o da un formicaio, e regredirebbe al più basso livello dell’etnia, proprio per effetto della sua meccanica perfezione di funzionamento. Al contrario, lo «spirito legionario» che caratterizza lo Stato fascista e in cui vive la nazione, incoraggia ed esalta la personalità e l'autonoma iniziativa, secondo il principio che ognuno, stando al proprio posto, può e deve secondo le sue capacità e per il migliore svolgimento del proprio compito.

Ancora, la concezione fascista della nazione si caratterizza in negativo perché esclude che nazione, etnia, razza siano la stessa cosa, e anche perché esclude che la nazione coincida col retaggio storico culturale assunto come «fato», tal che, ad esempio, nulla potrebbe farsi contro gli effetti negativi che storia e cultura hanno avuto su un dato popolo, e anzi queste negatività si dovrebbero vedere come aspetti positivi di distinzione «culturale». Si distingue poi in positivo, in quanto nel «carattere nazionale» valorizza le più alte potenzialità sia intellettuali che morali.

 

Differenziazione, dunque, sia fra i membri di una stessa nazione, sia fra le nazioni, secondo un ordine di dignità che evidentemente, se non esclude una determinazione materiale, non può tuttavia stabilirsi solo in funzione di essa, anche dove si intende in relazione agli apparati industriali e militari. Similmente, la non automatica coincidenza di nazione ed etnia non deve spingersi al punto d'immaginare la nazione come «disincarnata» rispetto all’etnia. Le acquisizioni delle «èlites» nazionali dovrebbero infatti entrar a far parte del «patrimonio genetico» della nazione, diventare caratteri distintivi ed esclusivi dell’etnia o «razza».

 

Poiché questa concezione della nazione è aristocratica quanto organicistica, è socialista. Non però nel senso del socialismo moderno, cosmopolita e internazionalista quanto, il cristianesimo «primitivo» da cui trae origine, Ancora, mentre il socialismo moderno è «democratico» in quanto concepisce la eguaglianza degli uomini al più basso livello (onde l'«umanità» di un criminale vale quanto quella di un onestuomo e anzi di un granduomo), il socialismo nazionale è «democratico» non solo perché ammette un’uguaglianza al più alto livello, ma perché la stimola in ogni modo al fine di consentire un continuo ricambio delle «èlites», per contrastare la loro naturale decadenza nell’interesse superiore della nazione.

Piuttosto che un’eresia nel quadro del socialismo moderno, il socialismo nazionale è una ripresa e una «antistorica» e drastica opposizione del socialismo antico (platonico e «utopistico») contro quello moderno, esauritosi con la crisi della IIª Internazionale e ridottosi a fenomeno «domenicale».

L’eresia mussoliniana, e cioè il fascismo come fenomeno non controrivoluzionario ma reazionario nel senso di un «restaurazione integrale» che dovrebbe rivoluzionare i rapporti di classe e ogni aspetto della vita nazionale, è tutta qui; a ben guardare, non è una «deviazione» dal socialismo marxista, ma piuttosto il rivoltarsi contro quest’ultimo di un «altro» socialismo, fondantesi non già sulle «ragioni economiche» della «lotta di classe», ma sulla giustizia dei rapporti (anche economici) che devono intercorrere fra le classi di una data società per il suo retto funzionamento. Il quale è il fine supremo a cui tutto va sacrificato, dal «benessere e interesse» degli individui al «benessere e interesse» delle classi. Così il Gentile, il cui socialismo nazionale costituisce secondo Sternhel la più profonda espressione teoretica del fascismo europeo, dichiara che la superiorità del socialismo nazionale su quello marxista consiste proprio nel suo deciso svincolarsi da ogni considerazione economicistica. Tuttavia le considerazioni economicistiche sono altrettanto, se non maggiormente, presenti nel liberalismo e segnatamente nel «giolittismo», per cui -afferma il Gentile- il fascismo, pur combattendo con pari energia socialismo marxista e liberalismo, ma riconoscendo altresì che gli errori del primo sono la conseguenza degli errori del secondo, non agirà mai nei confronti del proletariato come una «plumbea cappa soffocatrice», non lo scaccerà dalla scena politica in cui «fu introdotto ed esaltato dal socialismo». L'«emancipazione del proletariato» non si verificherà attraverso l’estensione ad esso degli «agi» del vivere borghese, attraverso un eguagliamento al più basso livello, che comunque escluderà di fatto il proletariato dalla partecipazione alla vita politica della nazione e anzi ne ottunderà la volontà di partecipazione. Per il fascismo, al contrario, questa «emancipazione del proletariato» avverrà a un livello tale, per cui sarà impossibile parlare ancora sia di proletario che di borghese. Questa emancipazione, che interesserà tutte le classi della società senza tuttavia distruggerle nella loro specificità e funzione, si realizzerà nel corpo della nazione. La conflittualità degli interessi particolaristici per cui la «società civile» delle democrazie liberali non riesce mai ad essere «nazione» se non per pochissimi che tali devono restare per principio, viene dal fascismo eliminata attraverso la coercizione dello Stato; il quale, ben lungi dall’essere (come presso le democrazie liberali) lo strumento degli interessi della «società civile» ovvero il «mediatore» di questi interessi confliggenti, è invece il depositario della «tradizione nazionale», quindi l’ente che impone dall’alto i «valori» in funzione dei quali si commisurano gli interessi delle «parti sociali», e, nel caso, questi si rifiuta persino di considerare in sede di discussione. Quanto alla «tradizione nazionale» che -abbiamo visto- è etnia persino nei suoi contenuti «culturali» quando essi siano vissuti sentimentalmente e passivamente, Gentile osserva che «la nazione non c’è se non in quanto si fa». E fin dall’epoca della Iª Guerra mondiale polemizza col nazionalismo biologico di ascendenza bismarckiana, che «fa dell’uomo una bestia bizzarra, legata alla catena, una specie di canis nationalis».

 

La concezione gentiliana della nazione e del socialismo nazionale in ciò che costituisce il lato più fecondo e ancora irrealizzato storicamente del fascismo, appartiene alla cultura nazionale dell’ex-Regno delle Due Sicilie che, come si accennava all’inizio, si può fare risalire al Vico e al giurisdizionalismo del suo allievo Giannone. Questa tesi delle origini meridionali del fascismo è stata illustrata in una serie di miei articoli pubblicati su "Aurora" nel ’96, e dedicati a due personaggi solo apparentemente distantissimi fra loro: Ferdinando II di Borbone e Carlo Pisacane. Basti qui ricordare che, unico fra gli Stati italiani pre-unitari, il Regno delle Due Sicilie (e non il «liberale» Regno di Sardegna) osò sfidare la potenza e prepotenza inglese, mettendo in discussione il monopolio britannico sullo zolfo siciliano, sicché nei primi anni Trenta una flotta inglese si presentava nel Golfo di Napoli minacciandone il bombardamento, se il Re non avesse desistito dalle proprie decisioni «lesive degli interessi economici britannici». E più o meno la stessa cosa era già successa nel 1816 ad opera di quegli Stati Uniti d'America che dopo l’Unità sarebbero diventati la meta dell’emigrazione meridionale e il simbolo del «paradiso democratico»: una squadra navale si schierava davanti al porto di Napoli coi cannoni puntati sulla città, mentre il diplomatico Pinckney reclamava dall’appena restaurato governo borbonico la restituzione di merci americane sequestrate a suo tempo dal governo murattiano. Negli articoli suddetti si analizzava poi il complesso siderurgico di Stato di Mongiana-Ferdinandea, organizzato dal Borbone come un «falansterio» epperò secondo un «socialismo militare» che, appreso dal Pisacane nei suoi princìpi essenziali alla Scuola della Nunziatella, sarà la premessa, tutt'altro che «inconsapevole», della sua «eresia mazziniana» (da non interpretarsi, dunque, come orientata in senso marxista, dato che il Generale restò fino all’ultimo mazziniano e nazionalista nel senso più nobile del termine, ma invece da interpretarsi, senza forzatura alcuna visto lo studio di Carlo Rosselli, come decisamente pre-fascista). Negli stessi articoli si segnalavano poi i meriti del Borbone e le fattive intraprese a favore dell’Unità italiana, non solo all’epoca della Iª Guerra di Indipendenza, ma ancora durante la sua lunga agonia, fino alla morte avvenuta nel corso della IIª Guerra d’Indipendenza. (1)

Anche perché il primo moto per l'Unità italiana fu quello del ’20, per quanto si sia in ogni modo cercato di sminuirne l’importanza ad opera della storiografia «vincente» dopo la IIª Guerra mondiale (e ciò non è senza significato se si pensa alle terribili offese che Napoli patì durante l’occupazione alleata con la complicità della malavita organizzata, filo-americana spalleggiata dal Colonnello Charles Poletti), è mia convinzione che immenso sia stato il contributo offerto dalla nazione napoletana per la costruzione della più grande nazione italiana: un contributo la cui misura è data non solo dall’opera di militari e intellettuali napoletani, che è assolutamente di prim'ordine, ma da tutto il popolo meridionale, che sostenne con intraprendenza, intelligenza e virile determinazione l'esodo biblico della prima emigrazione transoceanica. Questo popolo non è per niente il popolo di «mandolinisti» che si pretende, e che si è fatto di tutto perché tale diventasse, costringendo alla devianza criminale -non a caso diffusasi a livello di massa e «organizzata»- i suoi «impulsi» migliori, la sua millenaria saggezza, il suo indistruttibile senso dell’indipendenza e del vero onore, inteso, quest’ultimo come capacità individuale di imporsi sfidando le circostanze più avverse e persino le «leggi umane e divine». Che tale pervertimento sia avvenuto ad opera degli «avvocati napoletani», novelli «sofisti» e interessati banditori di «magnifiche sorti e progressive», massoni asserviti prima agli Inglesi e poi agli Statunitensi, lo denunziò, prima che il Leopardi, e con più diretta cognizione di causa, proprio Ferdinando II, che icasticamente li bollò con l'epiteto di «pagliette», alludendo all’assoluta loro inconsistenza morale. Se poi, in un popolo fin troppo profondamente penetrato dal cattolicesimo controriformistico, ciò diede luogo al «mandolinismo» e a quanto di peggiore esiste nella «canzone napolitana», è fin troppo «naturale», e comunque inescusabile dal punto di vista non folcloristico dei valori autentici della nazione napoletana come della nazione italiana. Lo ebbe a rilevare, con la consueta acutezza e «brutale franchezza» Julius Evola, che indiscutibilmente appartiene alla migliore «cultura siculo-napoletana», più influenzata dal retaggio romano-svevo che non da quello cattolico controriformistico.

 

Il contributo essenziale ed insostituibile della cultura meridionale nella genesi dell’idea di nazione e di socialismo nazionale, è apertamente riconosciuta dai maggiori teorici del nazionalismo italiano. Sia il Corradini che il Sighele individuarono infatti nel siciliano Crispi e nelle concezioni animatrici della sua azione di governo l'origine dell'idea nazionalista sorta ai primi del Novecento. Il Corradini, in particolare, con la sua equazione di «nazionalismo» e «socialismo della nazione», ebbe una marcata influenza sul «giovane Mussolini», su colui che il De Felice presenta senz’altro come «il rivoluzionario», e di cui continuano a sottovalutare la grandezza e il destino storico ancora incompiuto, quanti del fascismo, in buona fede o interessatamente, tendono a conservare una «certa immagine» di tipo romantico, concependolo come espressione di un generico «spirito ribellistico» di matrice piccolo-borghese e sottoproletaria, strumentalizzato ad arte dalla «reazione borghese e nobiliare», il quale avrebbe avuto il suo finale sussulto o la sua resipiscenza nell’«ultimo Mussolini» e nell’«esperimento socializzatore repubblichino».

È nostra convinzione, invece, che le idee di nazione e di socialismo nazionale -che costituiscono il nucleo essenziale e ancora valido del fascismo su scala mondiale, dopo il fallimento del «socialismo reale» (o piuttosto il suo inevitabile rientro nella logica del capitalismo, rispetto al quale fu antagonista più per transitorie contingenze storiche che non per una incoercibile volontà interna, come comprese Mussolini all'epoca del suo distacco dal PSI)- abbiano continuato a germinare in intellettuali meridionali della statura di un D’Annunzio (del «poeta-soldato» animatore dell’impresa fiumana e ispiratore della Costituzione del Carnaro), e soprattutto di un Gentile (senza considerare i contributi «minori» dei Labriola e di un certo Croce, maestro di Edmondo Cione). Epperò il fascismo sarebbe nato al Nord e per merito esclusivo di Mussolini. Era infatti il Nord il luogo europeo dell’industrializzazione italiana; il luogo delle sue «contraddizioni interne ed esterne», in cui le «soluzioni reazionarie locali» si saldavano naturalmente ad analoghe proposte che venivano d’Oltralpe. Se l’Italia poteva dare il suo contributo originale a una problematica che era ormai europea e mondiale, lo poteva dare solo partendo dalla realtà industriale del Nord. E lo diede, nella persona di un «uomo del Nord», che aveva però la mente e l'animo di un Romano antico. Dalla Francia, Mussolini prende la lezione del Sorel, e comprende, molto meglio di Charles Maurras, i «motivi» dell’attenzione che il padre del sindacalismo rivoluzionario riservava all'"Action Francaise", motivi che in qualche modo anticipavano quella che, nella Germania del primo dopoguerra, sarà la «rivoluzione conservatrice» e il «nazionalbolscevismo». Dalla Germania, poi, Mussolini prende anzitutto la lezione nazionale della socialdemocrazia tedesca, in secondo luogo la lezione del «miglior Nietzsche», quello volontarista che, assieme all’attualista Gentile, influenzerà Gramsci e l’"Ordine Nuovo", tanto che oggi si è addirittura parlato di Gramsci come di «uno degli esponenti di spicco della destra» (e ciò, secondo me, con una forzatura tutta dilettantesca).

Quest’opera di mirabile sintesi, che è oggetto della mussoliniana "Città fiorita" di cui ci parla Giovanni Luigi Manco nel suo libro, culmina, a mio parere, nell’esperienza della RSI e nel superamento del corporativismo del Ventennio attraverso la legge sulla Socializzazione. L’adesione alla RSI del «comunista rinnegato» Nicola Bombacci, può essere stata persino suggerita da Mosca, come viene da sospettare dopo aver letto l’interessante volume di Arrigo Petacco sul «Lenin di Romagna». Sta di fatto che Palmiro Togliatti, l’ideologo comunista della «via nazionale al socialismo» nonché seconda autorità mondiale del comunismo, si battè energicamente contro l'epurazione dei fascisti, accogliendo nel PCI molti di costoro, spesso ex-Littoriali, che avevano chiesto la tessera per convinzione e non per mero opportunismo, come si malignò, anche comprensibilmente, nel MSI. Poi, morto Togliatti, l'antifascismo dei comunisti, anche per effetto della «strategia della tensione» e delle provate collusioni del «neo-fascismo» coi servizi segreti e coi «mortali nemici anglosassoni» di ieri, finì sempre più con lo schiacciarsi sulle posizioni retoriche e «resistenziali» della partitocrazia, e di una democrazia che speciosamente si faceva passare per «proletaria», mentre in realtà non riusciva a conquistare per i lavoratori altro che molto discutibili miglioramenti salariali, mentre i vantaggi del «miracolo economico» italiano venivano spartiti da un ceto medio corrotto e sempre più impreparato dopo la «democratizzazione» della scuola caldeggiata dalle «idee progressiste» e dalla violenza barricadera, parimenti «progressista», di comunisti parlamentari ed extra-parlamentari. Ora il PDS pare essersi reso conto degli errori del vecchio PCI post-togliattiano, e ha preso significative posizioni contro l’antifascismo tradizionale, assai più convincenti per noi di quelle assunte dai partiti del centrodestra con cui si è schierato il partito di Fini, il quale nella recente manifestazione romana contro il governo «tassofilo», non si peritava di agitare lo spauracchio dell'«ira dei moderati»: formula demagogica nel peggior stile fascista, in quanto penosamente auto-contraddittoria, giacché, o l'ira barricadera è in contraddizione col «moderatismo» (garbato eufemismo con cui si designa una attitudine morale fra il volpino e il conigliesco), oppure coloro che si presentano oggi nelle vesti dei «moderati» sono ancora quelli che, consapevolmente e inconsapevolmente, facevano i mazzieri del capitale.

Tornando al PDS (di cui abbiamo riconosciuto le significative iniziative per il superamento della pregiudiziale antifascista, e quindi la possibilità non chimerica di un approdo al socialismo nazionale di cui siamo sostenitori), non possiamo tacere la nostra viva preoccupazione che esso sia fortemente ostacolato, in questa riscoperta della nazione, dai «poteri forti» internazionali, per i quali l'Italia è ancora il luogo di nascita del «pericolo fascista», il paese sconfitto e a sovranità limitata a causa della sua sconfitta e «per la tranquillità di tutto il mondo». Siamo anche preoccupati, perché sappiamo bene che l’esercizio diretto del potere, in una società come la contemporanea, riesce a spegnere tutte le buone intenzioni, non solo quelle «rivoluzionarie», ma anche quelle più semplicemente «riformiste». In ogni evenienza, noi siamo pronti a fare il nostro dovere di Italiani.

 

Francesco Moricca

 

Note:

(1) Cfr. "Aurora", nn. 31, 32, 33, 34, anno 1996.

 

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