da "AURORA" n° 39 (Febbraio - Marzo 1997)

MALI D'ITALIA

Ragionando sull'Italia dei falsi e dei furbi:
il caso Sofri

Amedeo Canale

Quando dieci anni fa iniziò la mia militanza politica, mi ritrovai ad attribuire ad ogni azione o gesto un significato particolare e riconducibile comunque agli ideali nei quali avevo scelto di credere. Col passare degli anni, però, iniziai a sviluppare, insieme ad una coscienza critica e spesso polemica nei confronti dell'ambiente in cui «mi muovevo», anche delle esiziali tendenze al radicalismo ed alla intransigenza. Questi aspetti, che erano e sono propri di tutte le realtà -politiche e non- scaturite da movimenti o fenomeni estremi, pur essendo frequenti e normali fra coloro che rappresentavano quel particolare mondo o area politica a cui appartenevo, mal si conciliavano col mio carattere e la mia propensione al dialogo.

Presa coscienza di questo mio «debordare» ed atteso che l'attività politica -soprattutto perché svolta senza scopi utilitaristici- spesso implica animosità ed irruenza, scelsi di fermarmi e di recuperare la predisposizione alla tolleranza ed alla deradicalizzazione delle posizioni che, da lì in poi, sarei andato ad assumere. Nonostante tutto ciò comportasse notevoli difficoltà, presi ad evitare di occuparmi di quell'immondo teatrino che è la politica italiana e mi risolsi a considerare tutte quelle nozioni e notizie che continuavo ad apprendere come semplice argomento di speculazioni accademiche, di volta in volta, con me stesso.

Spero con ciò di non sembrare pazzo o, peggio ancora, sprezzante; tuttavia arriva un momento nella vita di un uomo in cui si cessa di perseverare in folli progetti o in tentativi inutili ed infruttuosi. Così feci e decisi a non ostinarmi più a spiegare -o perlomeno a tentare di farlo- agli altri, ciò che essi non vogliono o più spesso non possono capire! Ciò perché, prima o poi, ci si domanda -visto e considerato che ciò in cui credi non è recepito più da questa società decadente ed edonista- se il proprio ideale è sbagliato oppure se è troppo nobile ed alto da non ammettere altro luogo di realizzazione se non in se stessi, e ci si decide a darsi una risposta definitiva e totalizzante dalla quale, una volta avuta, risulta difficile prescindere.

Questa risposta, tutto sommato, può consistere nella persuasione che, nonostante ciò possa sembrare presuntuoso, a credere nella seconda ipotesi -avendo delle rispondenze nella realtà- non si è propriamente degli esaltati. E poiché di rispondenze reali ce ne sono, e si riducono all'assoluta insipienza delle persone ed al loro ignorante menefreghismo, ma anche a realtà piccole e allo stesso tempo importanti come "Aurora" (che con il suo al di fuori dei soliti cliché rappresenta -quale eccezione ad una prassi ormai consolidata- un'esperienza essenziale), ritengo la visione «élitaria», ma non sprezzante, dei rapporti politici -e non solo- con gli altri la soluzione preferibile ai disagi prima palesati.

Ora, però, al di là delle sfumature, per esempio, nell'intendere la realizzazione di un progetto politico, fra me ed il carissimo amico Luigi Costa c'è un comune sentire. E nonostante egli, a differenza del sottoscritto, creda nella possibilità di un ancora realizzabile mutamento morale ed etico dell'uomo su vasta scala, nulla ci impedisce di dirci dalla stessa parte.

Ma, è palese, ciò non costituisce la «normalità», bensì la dimostrazione di come questi parallelismi ed affinità nel concepire la vita ed il ruolo che l'uomo dovrebbe svolgerci dentro, non sono altro che segnali giungenti da piccolissime oasi poste in un immenso deserto di barbarie ed indifferenza. E soprattutto sono la prova provata del fallimento di certe teorie che vorrebbero l'uomo sempre e comunque capace di recepire o produrre pensiero. Ed è proprio l'indifferenza di cui accennavo prima a rappresentare, per me, il maggior motivo di consapevolezza dell'assoluta difficoltà di «creare uomini nuovi» e di renderli coscienti della loro funzione; ed ha costituito la principale intuizione grazie alla quale sono arrivato a concludere che, qualora riuscissi senza scadere nell'egoismo, a rendere me stesso un uomo nuovo -capace, magari, di trasmettere anche dei valori- avrei vinto l'unica possibile ed importante battaglia politica della mia vita.

* * *

Detto ciò, a descrizione d'un particolare stato d'animo e soprattutto di un notevole disgusto per quanto oggi accade intorno a me, non posso non ammettere che ad interrompere la mia ricerca di stabilità nelle reazioni, spesso si inseriscono momenti nei quali si riaccendono vecchi ardori e nei quali scatta la fin troppo sensibile molla della rabbia.

Uno di tali momenti è stato provocato dallo scempio al quale sono stato costretto -come la maggior parte degli Italiani- ad assistere dopo la sentenza di condanna per Sofri e compagni. A questo punto, come dicevo, tolleranza e pacatezza sono andate a farsi strabenedire. E se ne sono andate a quel paese perché è intollerabile assistere ad una commedia in cui Sofri fa la parte di Giulietta -costretta a penare ingiustamente- ed i vecchi extra-parlamentari di sinistra, oggi protagonisti delle giornate televisive e parlamentari, fanno la parte di Romeo. Perché è disgustoso assistere al trionfo del falso in onore di questi «innamorati» che si mostrano alla gente divisi e vessati da ciò che, ogni tanto, rammenta d'avere una dignità: la Giustizia italiana.

Quella giustizia alla quale tutti noi dobbiamo, ci si augura allo stesso modo, sottostare e rispondere ogni qualvolta decidiamo di delinquere e dalla quale dovremo essere indotti a non farlo. Quella giustizia diroccata e cadente che, d'altra parte, difficilmente riesce ad assolvere ai propri compiti e che da sempre il diritto a qualcuno, ogni qualvolta onora il proprio nome, di gridare allo scandalo.

Indubbiamente di scandali ne vediamo ogni giorno, e continueremo a vederne; ma essi non stanno nella «sentenza Sofri», bensì nelle lungaggini processuali, nell'assenza di regole certe nella gestione dei «pentiti», nell'esistenza -unico paese in Europa- di tre gradi di giudizio e soprattutto nella condotta, molto spesso censurabile, di diversi magistrati.

Aldilà di tutto ciò, però, non esiste scandalo, ma solo comportamenti umani e, al limite, possibili errori o anche sbagli madornali. Ma niente altro! Nient'altro, almeno, a tutt'oggi dimostrabile e, quindi, argomentabile. Ecco perché sono inaccettabili certe posizioni aprioristiche assunte indipendentemente dallo stato reale delle cose. Ecco perché, in questa sede, mi permetto di comunicare a chi legge le mie personali motivazioni di disaccordo -per usare un eufemismo- con quell'armata di ipocriti che mi ha riempito per giorni le orecchie di immani fesserie.

* * *

Prima di passare all'analisi dei fatti, vorrei ricordare che quanto ho scritto e sto per scrivere scaturisce dal fatto che a fare da sfondo al tutto vi è la morte di un uomo che, reo o meno -nonostante una sentenza di proscioglimento- di aver ucciso un altro uomo, non ha avuto venticinque anni per difendersi come, invece, hanno fatto Sofri, Pietrostefani e Bompressi. E soprattutto non ha avuto la possibilità di godersi moglie e figli, di rispondere alle accuse mossegli contro, eventualmente di pentirsi ma -soprattutto- di avvalersi dei sacrosanti privilegi che il concetto di garantismo implica. Garantismo che si risolve in processi esperiti secondo la legge e soprattutto nell'affermazione incontestabile, fino a sentenza definitiva e contraria, dell'innocenza di chi è imputato.

A Sofri, Bompressi e Pietrostefani ciò è stato permesso e per ben sette volte; a Luigi Calabresi -il morto in questione- no! La «giustizia proletaria» si sostituì infatti a quella dello Stato e lo condannò a morte. Così come oggi, con la stessa arroganza e la stessa pretesa superiorità, ha assolto i tre! Se tutto questo, allora, non fosse stato, nessun uomo di buon senso si sarebbe messo a discuterne; tuttavia non è così.

Purtroppo quegli avvenimenti e quegli anni sono realmente accaduti e lo dimostrano le sofferenze, facilmente dimenticate e sovente disprezzate, di chi da essi ha avuto distrutta la vita. Per questi motivi, tacere è impossibile!

* * *

Nel 1969, all'interno della filiale milanese della Banca dell'Agricoltura, in piazza Fontana, scoppia un ordigno che causa 17 morti e 88 feriti. Immediatamente le indagini si concentrarono sugli ambienti anarchici e si arrivò all'arresto, fra gli altri, di Giuseppe Pinelli che -misteriosamente- venne «defenestrato», finendo spiaccicato sul cortile della Questura nella quale si trovava per rispondere alle domande del commissario Calabresi e di altri funzionari di polizia. Calabresi fu immediatamente bollato come fascista ed accusato dai gruppi extra-parlamentari di sinistra -fra i quali spiccavano "Lotta Continua" e il "Manifesto"- di essere il killer dell'anarchico. Colpevole o non colpevole -in questa sede non esprimerò opinioni- il 17 maggio '72 cadde in un agguato che, da subito ed in virtù delle stesse non- dimostrate teorie di oggi, venne attribuito -dalla sinistra- a coloro i quali, sconosciuti e nell'ombra, precedentemente si sarebbero serviti di lui per uccidere il malcapitato Pinelli.

L'omicidio del commissario, però, arrivò dopo una violentissima campagna stampa condotta, su tutti e con toni accusatori di inusitata efferatezza, dall'omonimo giornale del gruppo di "Lotta Continua". Esso, a caratteri cubitali, invitò ad applicare con ogni mezzo la «giustizia proletaria». E così fu.

Col piccolo particolare, però, che gli stessi paladini del proletariato che allora incitarono migliaia di trogloditi acefali ad uccidere gratuitamente un uomo «simbolo delle leggi e delle logiche borghesi», negli ultimi anni con queste stesse leggi e logiche borghesi hanno fatto fortuna e miliardi. La giustizia italiana, dunque, veniva soppiantata da quella del «preteso» proletariato e, nonostante tutto, non riuscì a reagire; lo dimostra il fatto -a mio avviso abbastanza singolare e strano- che nessun magistrato, leggendo il giornale "Lotta Continua", ed erano in molti a leggerlo con diletto, si sia accorto che in quei titoli c'erano abbondantemente gli estremi per la configurazione di quel reato che si potrebbe definire «incitazione alla violenza (e all'assassinio) a mezzo stampa». Che fossero troppo impegnati a perseguire quelli che «con manifeste intenzioni di nuocere alla collettività», stampavano clandestinamente i libri di Evola o di Jünger o di Drieu? Ma andiamo avanti!

Considerato che il grande Orson Welles girò "Quarto Potere" nel 1940 e che "La guerra dei mondi" fu messa in scena -terrorizzando l'America e dando la dimostrazione della potenza incontrollabile dei mass media- qualche lustro dopo, io invito tutti coloro che mi stanno leggendo a meditare su quanto sia remota la possibilità che gli allora dirigenti di "Lotta Continua" non sapessero o non si fossero resi conto del potere che esercitavano su decine di migliaia di persone tramite un semplice giornale di poche pagine. E soprattutto li invito a notare come questa tesi non sia mai stata avanzata o discussa seriamente, per esempio, da quegli stessi grandi quotidiani nazionali che oggi fanno da sponda a questo indescrivibile casino.

Secondo il mio modestissimo parere, consapevole di muovermi sempre e comunque nel campo delle ipotesi, essi di questo ne erano più che coscienti e, convinto di non spararla grossa, mi sento di dire anche che da questo traevano una sorta di perverso sentimento di superiorità votato al «controllo» di chi li seguiva! E lo dimostrano i toni con cui venne accolta la notizia dell'omicidio del commissario.

Toni che, col senno di poi, ci appaiono quasi come la manifestazione di vivide speranze quando non addirittura l'ostentazione della certezza dell'esecuzione immancabile di disposizioni impartite. Toni che, anche con il massimo dello sforzo, non riescono ad essere diversi da quelli usati qualche anno dopo -in altri luoghi ed in altre circostanze- dai vari Curcio, Moretti o Negri. Toni, infine, che tradiscono, anche ad una lettura postuma, una disarmante sicurezza di poter farla franca anche di fronte all'evidenza dei fatti. Evidenza rimarcata dalla pubblica dichiarazione di soddisfare, per sfacciataggine, solo alla spavalderia con la quale, i nostri, sottolinearono l'ineluttabilità delle loro decisioni.

* * *

Passarono diversi anni dall'accaduto. Anni in cui le indagini non sfiorarono neppure lontanamente gli ambienti della sinistra extra-parlamentare -si seguì infatti la pista legata al neo-fascista Gianni Nardi- ed in cui si continuò ad avvalorare la tesi dell'assoluta innocenza della sinistra in tutte le questioni non riconducibili alle Brigate Rosse.

Ma circa quattordici anni dopo quel 17 maggio '72, inaspettatamente, arrivò la svolta. Un giorno, infatti, un signore dismesso si recò ad una caserma dei Carabinieri e confessò di essere l'omicida del commissario Calabresi. Sicuramente dimentico di un nome e di una circostanza ormai lontani, il milite, come da regolamento, continuò doviziosamente a raccogliere le dichiarazioni dell'individuo che, dopo aver declinato le proprie generalità, Leonardo Marino etc., iniziò a raccontare la sua versione dei fatti ed a pronunciare i nomi di Ovidio Bompressi, quale autore nell'atto materiale (che lui accompagnò con una Fiat 125 a compiere «l'atto rivoluzionario»), di Adriano Sofri (leader indiscusso di LC) e di Giorgio Pietrostefani (capo dell'ala dura di LC) quali mandanti. A questo punto, dopo tre lustri di buio «nero», la Giustizia italiana -che in tutta questa storia è quella che ne esce peggio- potè finalmente permettersi qualcosa di concreto su cui «lavorare», a dispetto delle precedenti piste «di comodo». Nonostante ciò, però, non si guadagnò poi molto tempo e si dovette aspettare, a vergogna del nostro sistema giudiziario e democratico, il 24/1/97 e sette processi per registrare una sentenza definitiva. Una sentenza di condanna che, arrivando dopo venticinque anni dal fatto, ha acclarato l'incapacità di chi ha esperito le indagini e la faziosità, quand'anche non la malafede e l'inettitudine, di chi le ha dirette.

Sette processi e otto anni, dunque.

Tutto per verificare se le affermazioni di un «reo confesso» fossero corrispondenti al vero e per comminare agli imputati 19 anni, 10 mesi e 20 giorni di carcere. Leonardo Marino non sconterà carcere perché il reato addebitatogli, che avrebbe procurato una pena di circa 11 anni se la prima sentenza non fosse stata cassata, è caduto in prescrizione.

Domanda: fermo restando la palese insufficienza della giustizia italiana, siamo sicuri che tale ritardo, che -non dimentichiamolo- ha concesso anni di libertà ai condannati, non sia addebitabile anche a pressioni uguali e contrarie a quelle oggi contestate dal fronte innocentista? (Vedi i casi dei giudici Della Torre e Pincioni).

* * *

Finita dunque la cronistoria di una lunga tragedia, passiamo al dopo.

In un Paese dove, a fronte di consolidate tendenze europee, reggono ancora tre gradi di giudizio in ogni processo, dove la gente è abituata -soprattutto da chi poi, come in questi casi, si trova a contraddirsi- a condannare anzitempo tutti coloro che vengono iscritti nel "registro degli indagati" in un qualsivoglia procedimento giudiziario e dove -qualora poi si risulti innocenti- nessuno si prodiga a farlo notare per riparare alle ingiuste calunnie e ai propri errori, un arresto «eccellente» quale quello di Sofri non poteva passare inosservato. E non poteva non essere, anzitutto, «motivo di forte, deciso e democratico (sic!) sdegno».

Allora, lucidati in anticipo tromboni, trombe e trombette, i sempreverdi intellettuali della generazione che «chiedeva l'impossibile» si sono messi in fila dietro i portoni dei principali quotidiani e delle più grosse reti televisive e, al momento prestabilito, hanno iniziato a berciare all'unisono.

Magistralmente diretti dal buon Manconi, onorevole «verde» della corrente di pensiero di Marina Ripa di Meana, si sono esibiti in prodigiosi, per falsità e tediosità, assoli: Marco Boato, vecchio di LC che negli anni ha preferito al pugno chiuso la mano aperta; Gad Lerner che, forte della sua quirinalesca evve (erre) moscia, ha gridato anch'egli il suo «non ci sto»; Franca Fossati, anch'essa ex-LC, portavoce di una signora che farebbe meglio a tacere; Livia Turco, ministro; Paolo Liguori, che ha dovuto subire chissà quali pene corporali da Berlusconi per aver sguaiatamente sospirato pensando a quegli anni; Fabio Fazio, gradevolissimo giullare televisivo che ha voluto farci intendere di avere anch'egli un cervello, pardon! un cuore; ed infine Adriano Celentano che ha espresso solidarietà a Sofri -s'immagina- per un profondo e pregnante motivo: l'avere lo stesso nome.

Ora, al di là della fin troppo facile ironia e di queste ridicole manifestazioni di preteso pensiero, vorrei invitare il Lettore a notare come tutti coloro che -come i suddetti signori- oggi chiedono grazia per i tre eroi, gridando ed accusando senza pudore la Magistratura, sono gli stessi che slinguazzano ogni qualvolta capita loro a tiro il fondoschiena d'un magistrato e che non perdono occasione pubblica o privata per incensarne alcuno.

Allora, ferma restando l'assoluta incontestabilità di quanto ho detto in virtù di prove che sono disposto a fornire in qualsiasi momento (basta comprare i quotidiani) e la fastidiosa sensazione che ne deriva, vorrei tentare un breve e volutamente semplicistico ragionamento: qual'è il principale partito dei giudici in Italia: il Partito Democratico della Sinistra. Quanti di costoro -scelti come fulgidi rappresentanti d'una schiera purtroppo ancora vasta di loro simili- appartengono a tale partito o gravitano intorno ad esso (ed a Rifondazione Comunista), ricavando da tutto ciò notevoli privilegi e guadagni? Quasi tutti! E quanti dei sopraccitati, in virtù di tali considerazioni, sono coerenti e credibili? Indubbiamente nessuno!

Quindi, secondo questo modesto sfoggio di conoscenze logiche, la domanda da porsi è la seguente: per quanto tempo ancora questa genia di idioti, qual'è il popolo italiano, si beerà d'esser presa per i fondelli? Ai posteri l'ardua sentenza!

Iniziamo allora, nel frattempo, ad argomentare sulle affermazioni che questi ipocriti non hanno lesinato di propinarci. E partiamo da quelle squisitamente accademiche. Muovendo, infatti, da approfondite conoscenze tecnico-giuridiche e soprattutto da accurate analisi dei fatti processuali, i figli della contestazione chiedono la grazia per Sofri e compagni contestando la funzione di un pentito -che come ho detto non è propriamente tale- che, rischiando 11 anni di carcere, sua sponte si suppone, ha deciso di scaricarsi la coscienza e di raccontare ciò a cui cinquanta giudici hanno creduto. Ci spieghino allora, a questo punto, questi campioni di pensiero e coerenza perché, se la figura del pentito è neutra e quindi utile o non utile indipendentemente dal tipo di processo in cui è «utilizzato», esso risulta attendibile ed indispensabile -sempre e comunque- per Andreotti, per Craxi o per Fioravanti e non (unitamente ad una concezione tutta loro dell'equità del diritto dove la legge, quando deve punire, vale solo per gli altri) per Sofri, Bompressi e Pietrostefani. Ci spieghino perché Totuccio Cotorno, grande accusatore di Andreotti e mafioso riconosciuto è credibile quando si accolla qualche decina di omicidi mentre Marino, che -bontà sua- se ne è accollato solo uno, non lo è.

Ed ancora ci illustrino i motivi per i quali -e qui mi diverto a fare un po' di dietrologia- lo stesso Cotorno, fulgido esempio di leale collaboratore di giustizia fino al 29/1/97 ora si scopre aver trafficato droga durante i primi periodi della sua delazione retribuita ed un pentito di Reggio Calabria viene condannato, ad esempio, all'ergastolo per aver ucciso dei Carabinieri senza che, però, venissero condannati anche coloro che furono da lui stesso chiamati in causa nello stesso identico processo. Che si voglia screditare la figura del pentito? Di tutti i pentiti? Che si voglia convincersi che questi accadimenti siano realmente «occasionali»? A chi giova tutto ciò? Chi può trarre vantaggio da tutto questo polverone? Di risposte, sicuramente, non ce ne sarà nessuna!

Non è finita qui! Si argomenta, infatti, dalla parte dei suonatori, che un atto compiuto da un uomo di second'ordine del movimento quale Marino, non doveva necessariamente essere conosciuto dai vertici del movimento stesso e, quindi, da Sofri. Perfetto. Ma questa tesi, rispettabile anche se non condivisibile per almeno un centinaio di ragioni, come può essere considerata frutto di oneste e disinteressate riflessioni e quindi seriamente studiata quando a sostenerla sono gli stessi che, in processi quali quelli a Berlusconi e Romiti che si basano su «il capo di un'Azienda non può non sapere che ...», ne hanno sostenuta una, evidentemente, di contenuto diametralmente opposto. Come fa ad essere credibile quando, a rileggere i titoli di "Lotta Continua" nei giorni successivi al 17 maggio '72, ancora oggi si ha la sensazione che l'atto criminoso arrivasse a soddisfare le aspettative di chi era responsabile di quel giornale e di quel movimento. Come fa a non suscitare nel cittadino, anche in quello più disattento, lo sdegno che merita una palese falsità ed un così chiaro stridere fra realtà e farneticazioni. A tutto ciò, ancora, si aspetta una risposta!

Intanto, rileviamo come anche in questo caso, come prima abbiamo osservato per la figura del pentito -nonostante si ragioni in termini generali e teorici- si usano due pesi e due misure. Ma procediamo con l'analisi di queste baggianate, confutabili solo se -come me- si ha il senso dell'umorismo e la predisposizione a seguire gli altri nei loro ragionamenti. Oltre la grazia, costoro, hanno chiesto la revisione della sentenza. Sicuramente non sanno che affinché ciò avvenga c'è la necessità che emerga almeno un elemento nuovo capace di giustificare una procedura del genere e, a quanto pare, all'orizzonte non se ne vedono. Tantomeno, in termini di contenuti, è da considerare come elemento nuovo e qualificante la storia del giudice che, ancor prima di entrare in aula ed emettere la sentenza incriminata, ebbe a manifestare i propri propositi ad un interlocutore di cui ignoro l'identità. In questo caso, signori miei, si critichi -qualora si accerti la veridicità della situazione- la scarsa professionalità del giudice ma ci si astenga, in valutazioni politiche e dunque non in aula in veste di avvocati difensori, dall'utilizzare argomentazioni in tale contesto così rozze da non ammettere quasi che le si discuta. Ciò perché non si può sostenere che ad un giudice -che comunque deve mantenere una condotta irreprensibile che qui è venuta meno- si debba negare la possibilità e la libertà di formarsi da subito un'idea della fattispecie di reato da lui esaminata e di mantenerla, salva l'emersione di ulteriori e successivi nuovi elementi all'uopo rilevanti, fino alla fine.

E non si può immaginare che -anche se un collegio giudicante ha il dovere di emettere una sentenza solamente dopo aver valutato tutto ciò che è giuridicamente rilevante e tutto ciò che serve alla risoluzione del processo, e non un secondo prima -un giudice, che è poi anch'egli un essere umano, debba aspettare di leggere l'ultima sillaba di un verbale, per esempio, per iniziare ad elaborare un'idea dei fatti e quindi una risoluzione ad essi.

Tutto ciò è assurdo e tendenzioso almeno quanto pretendere di mettere sullo stesso piano quella che per comodità chiamerò forma (possibile incauta e professionalmente scorretta dichiarazione del giudice in luoghi non consoni e prima della pronunzia ufficiale in aula) con la sostanza (la reale sussistenza di indizi e prove di colpevolezza giudicati sufficientemente rilevanti) e dimostra come una non diffusa conoscenza tecnico-giuridica ed una massiccia dose di demagogia e di falsi proclami televisivi diano gioco facile alla attuazione di certi meschini raggiri.

* * *

Ma c'è di più! Si sostiene l'inutilità del carcere per individui che «hanno trasformato la loro vita in un modello di correttezza civile». La cosa strana che emerge, però, è che -a loro dire- fra tutti i terroristi ancora in galera o latitanti, solo Sofri, Pietrostefani e Bompressi hanno queste caratteristiche. Ora, comunque, se ciò risultasse vero e considerando che il diritto serve per preservare gli equilibri sui quali si fonda la società entro cui esso opera e tenendo presente che il carcere ha, allo stesso tempo, funzioni rieducative e punitive, a quale persona di buon senso verrebbe in mente -seppur accettando la dimostrazione dell'inutilità della carcerazione in senso rieducativo- di negare ai cittadini ed ai parenti delle vittime il sacrosanto diritto di veder ristabiliti questi equilibri? A quale persona razionale verrebbe da non pensare come questi ultimi -sicuramente favorevoli, a mio modo di vedere, ad un'amnistia che di fatto non implicherebbe particolarismi- si porrebbero da quel momento di fronte ad uno Stato che, fra le altre cose, si fosse astenuto dal porre in essere i dettami di quel diritto su cui esso stesso si fonda? Anche qui si aspettano risposte!

Poco fiducioso, non mi resta che continuare nella mia, seppur superficiale e limitata, analisi tecnica delle dichiarazioni succedutesi in questi ultimi giorni. A tal proposito mi preme far notare due cose:

a) Si è puntato immediatamente il dito sulla Corte di Cassazione. Ma non lo sanno, questi imbecilli, che i giudici di Cassazione non hanno il compito di entrare nel merito dell'innocenza o della colpevolezza dell'imputato, ma devono pronunziarsi esclusivamente sul rispetto della procedura e stabilire se una sentenza è motivata correttamente? E non lo sanno che non è molto difficoltoso rendersi conto -data l'assenza di similari contestazioni dopo la precedente condanna che, questa sì entrando nel merito, dichiarò la colpevolezza degli imputati- che anche questa volta speravano, i nostri nuovi martiri, o erano pressoché sicuri di farla franca?

b) S'è mossa l'obiezione del tempo trascorso e dunque si è sollevato l'argomento -guarda caso solo in questo processo- «prescrizione». Vorrei allora ricordare, sempre ai suddetti imbecilli, che la legge prevede per ogni reato dei tempi di prescrizione, ritenendo che trascorso un determinato periodo di tempo dal reato, la punizione non abbia più senso. Ora se questa è la legge degli uomini perché non dovrebbe valere per Sofri? E perché, chi oggi ha sollevato tutto questo vespaio, non spiega come mai non si riserva eguale trattamento per gli altri detenuti o futuri tali? E perché, ancora, tutti coloro che, fra una dichiarazione pro-LC e l'altra, fanno i deputati, non fanno proposte di legge -se ne sono capaci- invece di rompere le balle e fottersi i soldi?

Silenzio, silenzio assoluto!

* * *

Tralasciando a fatica d'entrare nel merito delle dichiarazioni di individui come Norberto Bobbio che giustifica l'omicidio Calabresi con un «Non dimentichiamoci che Calabresi era accusato di aver ucciso un uomo!» o Giorgio Bocca che, tenendosi come suo solito da tutte le parti per non scontentare nessuno (partendo dalle file fasciste è, negli ultimi cinquant'anni, «appartenuto» a tutti i partiti dell'«arco costituzionale» per approdare, poi, alla Lega), afferma esaltato: «Lotta Continua fu un movimento anarco-dannunziano più che marxista!» (sic! sic! sic!) e «Siamo in presenza di una giustizia inquisitoria!» come se il suo pseudo-giornalismo fosse da cronaca rosa, «vi è assoluta assenza di prove!» e quindi i giudici sono dei delinquenti.

Vorrei portare all'attenzione dei Lettori quanto dichiarato da Bobbio Luigi da Torino. Anche egli «ex» di LC, in un'intera pagina del quotidiano "la Repubblica" afferma: «Calabresi protesse i veri colpevoli della strage di Piazza Fontana incolpando Pinelli»; «Calabresi fu un funzionario infedele»; «L'Italia deve ringraziare Lotta Continua per la propria evoluzione democratica»; «Calabresi, fascista!». Siamo sicuri, mi domando, che il buon Bobbio si sia reso conto degli anni che sono passati e che siamo nel 1997? Oppure ancora esce con l'eskimo alla ricerca di qualche «punto nero» da colpire? E siamo altresì sicuri che, come lui, non ci siano altri -escluso Liguori, bontà sua- del suo movimento o di altri consimili, nelle stesse condizioni? A tali domande rispondo con una frase del «grandissimo» Bocca: «Dopo venticinque anni gli uomini di allora non ci sono più!»

Minchia!

* * *

A questo punto, sperando d'esser perdonato per la lunghezza di questo scritto -pur avendo tralasciato moltissimi elementi e spunti di discussione- concludo affidando ai Lettori le mie considerazioni finali e rimandandoli alla lettura degli articoli di Massimo Fini sul "Tempo" di Roma a proposito dell'argomento fin qui trattato:

a) Nonostante quanto da me detto rappresenti, a mio modestissimo avviso, un'analisi -anche se a ampi tratti deduttiva- abbastanza obiettiva degli avvenimenti, non bisogna dimenticare che, comunque, su quegli anni e quindi anche sull'omicidio Calabresi, si staglia l'ombra di una «longa manus» occulta, la cui esistenza non credo sia più discutibile, ma il cui «raggio d'azione» e coloro che l'hanno diretta sono ancora ignoti. È quindi opportuno, rispettando l'obbligo di attribuire ad ognuno le proprie responsabilità, distinguere le implicazioni derivanti dal ruolo di burattino da quelle legate al ruolo di burattinai.

b) È altresì giusto che si chiuda il capitolo «Anni di piombo», rendendosi conto che si trattò di anni in cui certe regole erano saltate e dove la vita di un ragazzo non valeva poi molto. Però questo capitolo deve essere chiuso nel massimo rispetto di chi, proprio per l'esaltazione che regnò sovrana in quel quindicennio, ha avuto la vita irrimediabilmente rovinata o, comunque, cambiata; e prima di tutti, di chi ci ha lasciato la pelle. Si può parlare di amnistia o di indulto, ma prima di tutto si parli di trovare i veri responsabili di tanti omicidi e di tante stragi, rovina di due generazioni intere. I responsabili veri, però! Coloro che tali delitti hanno pianificato per obbedienza a logiche strettamente legate alla conservazione del potere. Dopo aver fatto ciò, con equità e coscienza, si pongano tutti questi «ragazzi» sul medesimo piano, senza alcuna distinzione, e si dia loro -se lo vorranno e quindi se realmente sono persuasi della fine di una epoca- la possibilità di rifarsi una vita dando un contributo fattivo e serio alla società. Anche, e soprattutto, con il loro bagaglio di esperienze ed errori. Venga data loro la libertà e la possibilità di dimostrarsi diversi da come erano allora; di ritrovarsi diversi!

Ma senza prescindere, e lo sottolineo con estrema severità, dall'assunto -vitale ed essenziale per l'adeguata riuscita dell'operazione- che, solo eliminando (naturalmente non in senso fisico!) dalla scena italiana tutti quegli sciacalli che, scampati al carcere, continuano ad usare toni di trent'anni orsono, si potrà creare all'interno dell'opinione pubblica un clima favorevole a che tutto ciò accada. Ma occorre cancellarli dalle pagine dei giornali, costoro. Perché sono gli stessi, vermi e bastardi, che, se non fossero stati vili e pisciasotto, avrebbero ucciso senza molte remore, forse anche me che, avendone l'età, mi sarei trovato dalla parte opposta. Quella dei ragazzi che «dovevano tornare nelle fogne». Perché sono quei porci che, disilludendomi con la loro inusitata ipocrisia sulla possibilità di un dialogo aperto e costruttivo senza barriere ideologiche, oggi più di ieri mi persuadono che certa gente -quella che una volta affollava i comizi di Sofri o di Negri e che oggi, con le nuove leve, li glorifica senza pudore- non cambierà mai!!!

Dunque, cari amici di "Aurora" e, se mi è permesso, carissimo Luigi, non dimentichiamo mai di essere pronti al dialogo e soprattutto di essere disposti a costruire con chiunque ne abbia la voglia un futuro che, almeno, non sia peggiore di questo presente. E soprattutto non rifiutiamo ad alcuno il nostro contributo. Ma stiamo attenti a non cadere nell'errore di non voler vedere ciò che è evidente. E cioè che -fatti salvi casi sporadici che, in quanto tali, difficilmente fanno testo- chi proviene da ambienti politici definiti di «destra», anche se quella più eretica, non sarà mai accettato totalmente come soggetto politico avente dignità di pensiero da una sinistra ancora saldamente legata a schemi che sono legge dal 1945. Da una sinistra che -per ottusità o anche per incapacità nostra- non ha ancora capito che noi, quelli che -per intenderci- ci facciamo portatori dei princìpi dell'unica forma di socialismo realizzato al mondo, abbiamo diritto più di altri di distinguerci dalla destra e di prendere le distanze da accoliti di mercanti e politicanti da quattro soldi.

Evolviamoci, dunque, senza limiti! Però non dimentichiamo di aver ben chiaro da dove veniamo e perché abbiamo deciso di venire da lì; non dimentichiamo quale è la nostra concezione dell'uomo e soprattutto la nostra idea di comunità e non dimentichiamo, perdio!, quali sono stati i princìpi che ci hanno insegnato l'assoluto valore di un'idea e l'idea che ci ha sempre distinti da chi, ancora oggi, si spaccia come unico, solo, abilitato a dire e pensare.

Amedeo Canale

 

articolo precedente Indice n° 39 articolo successivo