da "AURORA" n° 39 (Febbraio - Marzo 1997)

QUESTIONI DELLA SINISTRA

Un Napoleone, il Colajanni, deciso ad evitare la Waterloo del socialismo non soltanto italiano

Enrico Landolfi 

La convocazione a Roma nella terza settimana di gennaio del summit dell'Internazionale Socialista ha offerto a Napoleone Colajanni -prestigioso intellettuale dal nome illustre che ha onorato il Senato della Repubblica, dove purtroppo non siede più da alcune legislature causa dissensi con il vertice del fu PCI- l’occasione per un intervento sulle colonne del quotidiano romano "il Messaggero" inerente alle problematiche del movimento socialista nell’attuale fase storica.

Un articolo denso di critiche costruttive, di preoccupazioni molto serie, di suggerimenti interessanti questo del Colajanni, che riteniamo possa riscuotere il consenso del Lettore oltre che quello dello scrivente. Per esempio come non condividere un’affermazione come questa: «... da un quindicennio in Europa quella che va avanti è la politica della destra. E questo perché mentre la destra ha idee forti, legate ad una prospettiva ideale, che è la libertà individuale, e porta avanti un liberismo che muovendo dalla critica dell’intervento statale è capace di organizzare consenso, a sinistra regnano incertezza e confusione». Perfetto. Noi, però, vorremmo portare un modesto nostro contributo alla denuncia delle gravi insufficienze della sinistra facendo presente che esse affondano le radici anche nella incomprensibile rinuncia a tradizionali, caratterizzanti, fondamentali coordinate. Per cominciare, attiriamo l’attenzione su queste ultime mediante il seguente retorico interrogativo: si è mai accorto qualcuno che in elaborazioni, dichiarazioni, documentazioni, enunciazioni scritte o orali della Sinistra (considerata nel suo insieme) brillano per la loro assenza parole come politica di piano, programmazione democratica, riforme di struttura, nazionalizzazione di questo o quel settore dell’economia, partecipazione agli utili e alla gestione dell’impresa, socializzazione, statuto dei lavoratori, autogestione, cogestione, et coetera? Naturalmente non mancano le eccezioni, e tanto per attirarci ancora una volta l’accusa di filo-comunismo -che, sia detto per inciso, non sta né in cielo né in terra- onestamente riconosciamo che solo Rifondazione Comunista non si è sbarazzata di tutto ciò come zavorra passatista, ma a sua volta ha messo in campo errori paralizzanti soprattutto di settarismo di cui non riesce a liberarsi nonostante si giovi della leadership culturalmente attrezzatissima, ariosa, ed anche spregiudicata (non nel senso deteriore del termine) di un dirigente dello spessore intellettuale e umano come Fausto Bertinotti.

Vien da sorridere pensando che negli Anni Sessanta e Settanta "l’Unità" indossava l’elmo di Scipio per combattere contro il vero o presunto «moderatismo» di un centrosinistra variamente intuito e varato da un Lombardi, da un De Martino, da un Nenni, da un Saragat, da un Brodolini, etc. etc. che conteneva tutto quel ben di Dio testè elencato anche se poi di effettivamente realizzato vi fu solo una parte di esso ben lungi dall’essere maggioritaria. Però quella parte conteneva, nientepopodimeno, il bradoliano-giugnano "Statuto dei Lavoratori", la nazionalizzazione dell’energia elettrica, il superamento della conflittualità fra le tre grandi centrali sindacali e la loro unità d’azione se non ancora la loro unificazione organizzata (da cui scaturì il famoso «autunno caldo», ossia una delle più grandi vittorie del movimento operaio e popolare di tutti i tempi).

Oggi "l’Unità", spocchiosa e intrattabile di allora, ha addirittura abolito l’appellativo «compagno», è un monumento eretto al «buonismo» sociale e politico, invita Gianfranco Fininvest, leader della cosiddetta "Alleanza Nazionale", alle sue «Feste» annuali, difende le privatizzazioni, parla molto di riforme «istituzionali» ma si guarda bene da fare il benché minimo riferimento a quelle «sociali», intervista i maggiorenti del Partito Democratico della Sinistra talvolta dandogli perfino del «Lei» o appellandolo con il titolo relativo alla carica pubblica che ricopre. È una critica, questa, di chi scrive? Sicuramente, e anche severa. Tuttavia non deve essere assolutamente confusa con l’attacco di un nemico. Mancherebbe altro! Personalmente, non abbiamo nemici a sinistra e non ne avremo mai. Utilizziamo invece il diritto democratico della libertà di espressione del pensiero per chiaramente e pacatamente dire, in chiave esaustivamente costruttiva e con spirito di fraternità ciò che pensiamo della linea ideologica, culturale, politica adottata dai vari compagni delle forze progressiste. Insomma, le nostre sono osservazioni che vengono da sinistra e vanno a sinistra, impegnando, naturalmente, solo chi le formula su di una rivista il cui direttore ha sempre garantito ai collaboratori la più ampia facoltà di esternazione.

 

Ma torniamo all’ottima prosa di Napoleone Colajanni: «Una forza socialista che nella sostanza cede all’avversario e rinunzia alle riforme, finisce per essere intrappolata nel mantenimento ad ogni costo del potere o per fare quelle cose che alla destra costerebbero troppo. Da nessuna parte della sinistra europea viene una interpretazione critica della società contemporanea, dalla disoccupazione alla frammentazione dello Stato che apre le porte alla corruzione ed alla dittatura della burocrazia».

Ineccepibile. Riteniamo, naturalmente, che l’autorevole articolista adoperando la parola «riforme» intenda fare riferimento a quelle idonee a trasformare la società capitalistica mediante il pur graduale spostamento del potere e, dunque, della egemonia dai ceti plutocratici attualmente dominanti sulle classi lavoratrici, al mondo popolare, ai gruppi sociali emarginati esclusi e sacrificati, alle forze democratiche d'avanguardia, agli intellettuali progressivi. Solo pensando in grande, per così esprimerci, -il che non significa concedersi alla megalomania, al massimalismo, all’estremismo, o ad altre droghe del genere- i partiti storici del movimento operaio ed i loro alleati possono sfuggire all’«intrappolamento» nel potere, nelle sue seduzioni, nei suoi giochi, nei suoi rischi mortali, nei suoi collegamenti sostitutivi con la destra.

Aggiungiamo che il Colajanni ha ragioni da vendere nel lamentare che «da nessuna parte della sinistra europea viene un'interpretazione critica della società contemporanea». E come potrebbe «venire» codesta «interpretazione» se si accetta -per di più in chiave ideologica e, quindi, di esaustività- la linea delle privatizzazioni, ossia della estensione illimitata ed irreversibile del potere capitalistico? Un potere, cioè, usque ad sidera et usque ad inferos, per usare una definizione proprietaria elaborata dai giureconsulti dell’antichità romana. E sarà appena il caso di annotare quanto congrua sia l’ulteriore osservazione colajanniana stando alla quale «sembra che la conclusione da trarre dalla fine del comunismo sia che il sistema che i socialisti intendevano riformare durerà in eterno».

Ed ecco un veloce ma succoso bilancio dei guasti prodotti dal prevalere delle forze conservatrici a livello continentale: «Che cosa abbia significato per l’Europa il governo della destra dovrebbe ormai essere chiaro. La disoccupazione e la crisi fiscale dello Stato che ovunque impongono il ridimensionamento del Welfare State sono un dato, più o meno accentuato, ma comune a tutta l’Europa». Soggiunge subito dopo, il nostro amico, prevedendo e prevenendo obiezioni culturalmente scorrette: «Non serve citare una ripresa drogata come quella inglese destinata a durare lo spazio di un mattino, o invocare il modello americano. Questo non può essere esportato in Europa: sarà vecchio, ma il nostro continente non accetta che l’ineguaglianza si accresca, che i ricchi diventino sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri, e non può estendere l’occupazione a bassi salari grazie ad una spesa pubblica finanziata dall’estero grazie alla funzione del dollaro come moneta di riserva». Conclusione sul tema: «L’unico modo per affrontare la questione di disavanzi pubblici che debbono comunque essere ridotti, senza distruggere lo Stato sociale e combattendo la disoccupazione, è una forte ripresa dello sviluppo... Dalla crescita della produzione e dell’occupazione può venire quel superamento della crisi fiscale che può consentire di mantenere lo Stato sociale». Come non sottoscrivere a piene mani asserzioni del genere? Da notare che esse, tra l’altro, ci liberano da una preoccupazione: che il Nostro, cioè, fosse passato dalla parte del sedicente "Polo delle Libertà". Perché questo sospetto, che naturalmente non intaccava l’amicizia per lui ma, in qualche modo, certo suo magistero intellettuale che egli -da antico e gettonatissimo e simpaticamente irrequieto esponente, nel senso positivo del termine, del movimento operaio e popolare- esercita anche su di noi? Il fatto è che la sua firma era apparsa anche sul settimanale "Panorama", sicuramente testata degna di ogni considerazione e rispetto ma da tempo schierata nelle trincee berlusconiane. Dunque, il Napoleone di quest’ultimo scorcio del XX secolo, diversamente da quello che visse a cavallo fra il XVIII e il XIX, lungi dal passare armi e bagagli nelle file dei moderati resta saldamente attestato sulle posizioni progressiste. Insomma, ogni tanto una buona notizia ci arriva.

Dopo tanto interessata, pelosa demagogia contro il cosiddetto «statalismo» -ossia, in parole meno paludate e allusive, contro l’intervento di pubblici democraticamente qualificati in economia al fine di lasciare grandi gruppi capitalistici- l'Autore dell'articolo significativamente titolato: «Sinistra in cerca di idee forti» confortevolmente si esprime nel seguente modo: «Ma ciò comporta un processo di adattamento che può essere difficile e perciò deve essere guidato da un intervento consapevole nell’economia. Quindi non meno Stato e più mercato, ma uno Stato nuovo per un mercato che è già nuovo, ed occorre sapere che gli Stati nazionali europei non possono da soli reggere a questa sfida».

Immediatamente dopo queste inequivoche dichiarazioni ecco le primizie di un discorso, certamente destinato a proseguire, sulle problematiche europee: «L’Europa può farlo, ma non può essere l’Europa della deflazione, l'Europa dei banchieri». E soggiunge, accorato e al tempo stesso polemico: «Spero che i socialisti abbiano letto le brutali dichiarazioni di Hans Tietmeyer all’"Herald Tribune". La competitività come la vuole il governatore della BundesBank serve solo a distruggere le forze produttive e a privilegiare il capitale finanziario, significa il radicamento della disoccupazione e finisce per rivolgersi nel suo contrario, la perdita di competitività dell’Europa nel suo insieme.

La verità è che i banchieri parlano alto, forte e chiaro, mentre la sinistra di stampo riformista balbetta e, giorno dopo giorno, concessione dopo concessione, arretramento dopo arretramento, finisce per consegnarsi, disarmata, a quella che una volta veniva inoppugnabilmente chiamata -e perché mai non dovremmo ancora chiamarla così?- ideologia borghese. In tal modo il «socialismo di mercato» finisce per diventare il mercato del socialismo; l’estensione praticamente illimitata e incontrollata del dominio capitalistico -domestico ed esteriore- sul Paese e sulle sue istituzioni diviene liberalismo fondato sulla razionalità privatizzatrice; la sinistra fa concorrenza alla destra sul terreno non della moderazione bensì del moderatismo; alla sinistra non è sufficiente la giusta, ineludibile alleanza contro il centro, ma deve diventare essa stessa centro; la caccia spasmodica e non di rado infruttuosa al voto dell’«uomo d’ordine» si risolve spesso nella fuga talvolta dalla stessa urna elettorale del suffragio popolare; la stessa parola «riformismo» va incontro alla sventura di smarrire il suo contenuto originario per diventare alibistico sinonimo di «non socialismo». Così come, del resto, i termini «liberal-socialismo», «socialismo liberale», «socialità», «socialdemocrazia». A proposito di quest’ultima: in una interessante intervista rilasciata al quotidiano del suo partito, "l’Unità", il leader della Quercia, nel trattare delle tematiche congressuali pidiessine, afferma che obiettivo del Partito Democratico della Sinistra è un «andare oltre la socialdemocrazia», così come, a suo dire, sarebbero orientati a fare i partiti europei, anzi mondiali, raggruppati nella Internazionale Socialista dove legittimamente Massimo D’Alema è deciso a collocare il PDS. Prospettiva, questa, obiettivamente seducente; a patto, tuttavia, che ci si informi con molta chiarezza su cosa si punta per sostituire il saragattismo ormai da più lustri essiccato. Perché se si trattasse di contrabbandare il solito spostamento a destra con l’ennesimo discorso relativo alla necessità della cosiddetta «modernizzazione» francamente non ce la sentiremmo di consentire con il Segretario pidiessino, nei confronti del quale mai abbiamo celato una stima e una simpatia destinate a durare ad onta di serie perplessità da noi nutrite rispetto a certi punti della sua strategia e dei suoi programmi.

Chiudiamo con un saluto e un ringraziamento a Napoleone Colajanni per avere egli, con il sasso gettato nella addormentatissima piccionaia socialista internazionale, rimesso sul tappeto le carte vincenti della partita nella quale sono ormai impegnati da quasi due secoli coloro che un tempo erano definiti paladini del movimento operaio e popolare.

Enrico Landolfi

 

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