da "AURORA" n° 40 (Aprile 1997)

APPROFONDIMENTO

Giovanni Nicotera e le origini del «Trasformismo»

Francesco Moricca


«Le camicie nere, che seppero lottare e morire negli anni dell'umiliazione, sono anche politicamente sulla linea ideale delle camicie rosse e del loro condottiero»

Benito Mussolini, "Discorso ai vecchi garibaldini", 1932


«Si può sostenere che la democrazia ancora immatura del Risorgimento verrebbe elevata solo col fascismo a democrazia effettiva (...), e affermare (come riteneva Mussolini) che il Risorgimento non ha in verità nulla a che fare colla democrazia e col liberalismo»

E. Nolte, "I tre volti del Fascismo"


 

Giovanni Nicotera nacque a Sambiase (oggi Lamezia Terme) il 9 settembre 1828 dal patriota Felice Nicotera e da Giuseppina Musolino, originaria della vicina Pizzo Calabro e sorella di Benedetto Musolino, mazziniano «eretico» piuttosto celebre al tempo per aver fondato in Calabria la setta dei Figli della Giovane Italia, nonché autore di un notevole saggio, "Giuseppe Mazzini e i rivoluzionari italiani", ripubblicato anni fa con una ponderosa introduzione di Paolo Alatri. Non è escluso che lo zio materno abbia avuto una influenza decisiva nella formazione del piccolo Nicotera, persino superiore a quella paterna e dello stesso Luigi Settembrini, suo maestro nel Convitto di Catanzaro.

Ad appena quattordici anni fu accolto nella Giovane Italia su presentazione del Settembrini che ne aveva notato le doti naturali già ben definite e l'ingegno ugualmente avverso al sentimentalismo romantico quanto alle astrattezze dottrinarie illuministiche. Fece appena a tempo ad apprendere i rudimenti della «letteratura» e della «giurisprudenza», che lo troviamo implicato nel tentativo rivoluzionario del 1846-47. Si dà alla macchia nelle campagne fra Sambiase e Pizzo fino al 1848, quando è fra i «più facinorosi» membri del Comitato rivoluzionario locale. Messo al comando di una compagnia di patrioti, arresta sul fiume Angitola le truppe del Generale Nunziante inviate da Napoli, dando prova di istintive doti militari contro un esercito di professionisti agguerrito e ben guidato. L'azione d'arresto realizzata con pieno successo dà il tempo al Generale Francesco Stocco d'accorrere con i suoi in forze e quindi sconfiggere i governativi. Ciò nonostante la rivoluzione calabrese viene soffocata ben presto, e il Nicotera, assieme agli zii Benedetto e Pasquale Musolino, si rifugia nell'isola greca di Corfù. Da qui si imbarca per Ancona e si arruola come semplice nella Legione Italiana di Garibaldi impegnata a difendere la Repubblica romana. Il 29 aprile 1849 -Nicotera deve ancora compiere il ventunesimo anno di età- si ha lo scontro di Villa Pamphili, dove si è asserragliato un forte contingente francese che minaccia le linee italiane all'altezza di Porta San Pancrazio. Con cento fra i migliori, Garibaldi assalta la Villa il cui accesso è sbarrato da un robusto cancello sotto il fuoco incrociato del nemico. Molti cadono nel tentativo di scavalcarlo. Solo il Nicotera vi riesce, introducendosi poi nel locale in cui è alloggiato il comandante francese. Lo immobilizza e sotto la minaccia del pugnale lo obbliga a impartire l'ordine di resa. Per questo atto in cui il coraggio fisico si sposa a una notevole capacità di pensiero, viene nominato Luogotenente da Garibaldi. Il 3 gennaio, al Casino dei Quattro venti, riceve una brutta ferita alla testa e in un primo momento lo si crede morto. Trasferito in ospedale, appena riavutosi, apprende di essere stato promosso Capitano.

Caduta la Repubblica Romana, si reca esule nel Regno di Sardegna assieme allo zio Musolino. Lavora come aiutante presso lo studio legale di Pasquale Stanislao Mancini e, a Torino, conosce il conterraneo Generale Raffaele Poerio, amico di famiglia, che vi si era trasferito nel '51. Nasce una grande amicizia e il Generale spirerà fra le braccia di Nicotera «come fra quelle di un figlio». Poco dopo si fidanza con la di lui figlia Gaetanina che in seguito diventerà sua moglie.

Nel 1853 partecipa ai moti di Milano e tre anni dopo si ha il primo atto concreto della sua «eresia» mazziniana, «eresia» in cui era già incappato Garibaldi nel '48, all'epoca della prima fase della guerra d'Indipendenza: riceve e accetta l'incarico da parte di Cavour di recarsi in Sicilia per sondare le potenzialità del movimento rivoluzionario insulare, incurante del fatto che sul suo capo penda una condanna in contumacia a 28 anni di ferri inflittagli per i fatti del '46-'48. Quando sta per imbarcarsi da Genova, riceve un contrordine: la missione è sospesa perché le trame rivoluzionarie del barone Bentivegna sono state scoperte e lo stesso barone è stato giustiziato.

Durante il soggiorno piemontese, frattanto, il Nicotera era entrato in contatto con Carlo Pisacane e col cosiddetto «partito militare» dei Napoletani: il che ci da l'esatta misura della sua «eresia» mazziniana e la ragione per cui essa deve distinguersi dalla «eresia» di Garibaldi, in ordine a una consapevolezza politica tattico-strategica certamente più raffinata e articolata che non quella del Generale, come si avrà modo di constatare dal comportamento che i due terranno come deputati nel futuro Parlamento italiano.

Ed eccoci al fatidico 1857, anno della spedizione di Sapri a cui il Nostro vuole partecipare senz'altro, pur essendo consapevole, quanto il Pisacane, delle quasi nulle possibilità di successo. Secondo un'analisi di largo respiro, tuttavia, si è convinti che a prescindere dai riscontri immediati la spedizione abbia un incalcolabile valore dimostrativo, attestando agli occhi dell'Europa tutta che esiste in Italia una minoranza preparata politicamente quanto decisa a dar seguito ai suoi disegni attraverso l'azione di guerra, e nonostante la relativamente scarsa disponibilità di armamenti. La spedizione è anche, a ben guardare, un banco di prova delle teorie sulla guerriglia esposte nelle opere dottrinarie del Generale Pisacane, teorie che superano l'orizzonte meramente tecnico-militare per investire quello politico, anche in una prospettiva di «guerra psicologica», in quanto i mezzi speciali della «guerra per bande», per il loro carattere inusitato, possedevano capacità di «disorientare» l'avversario se non valenze propriamente «terroristiche», come mostrerà di aver inteso lo stesso Cavour quando, per giustificare il suo intervento nelle Due Sicilie dopo la battaglia del Volturno, agiterà davanti agli occhi delle Potenze europee, tutte a loro modo «conservatrici e nemiche della causa italiana» (compresa l'Inghilterra), lo spauracchio di quella operazione di guerriglia in grande stile che era stata l'impresa dei Mille, e che avrebbe potuto avere degli imitatori quando non fosse stata addirittura esportata dai rivoluzionari italiani. Significativo in tale senso, nel corso della Spedizione di Sapri, come sottolinea Carlo Rosselli nel suo "Pisacane", il sequestro del piroscafo Cagliari destinato al trasporto di un carico d'armi a Tunisi, e soprattutto significativa l'incursione nel penitenziario di Ponza e la liberazione dei detenuti (anche comuni) che costituiranno la maggior parte dei Trecento. L'azione di Ponza ha tutte le caratteristiche di una moderna operazione di «commandos», e non senza spargimento di sangue riesce ad aver ragione della tutt'altro che impreparata guarnigione borbonica.

Il 28 giugno si ha lo sbarco a Sapri, ove Pisacane non trova ad attenderlo -e se ne era quasi certi- il contingente promesso dal Comitato insurrezionale napoletano. Vi trova invece una forza nemica di mille uomini in assetto di guerra. Pisacane decide un ripiegamento su Padula che viene effettuato coi borbonici alle calcagna. Durante il ripiegamento, molti si danno prigionieri e non è malignità sospettare che siano stati proprio i delinquenti comuni liberati a Ponza. I rimanenti giungono a Sanza dove sono aggrediti dai regolari e da una massa numerosa di contadini aizzati dal clero locale. Piovono, più che pallottole, colpi di zappa, di roncola, di scure. Nicotera riceve prima una fucilata alla mano destra, poi due colpi di scure in testa. Anche questa volta lo si ritiene morto, è derubato e letteralmente spogliato nudo dalla plebaglia. Ma ecco che dà segni di vita, cosicché viene sistemato su una barella improvvisata e trasportato, «coperto solo dal suo sangue», in un vicino convento. Durante il percorso viene imbrattato di fango forse per la «pruderie» di qualche «cattolicissimo» contadino, un altro gli infligge una larga ferita all'addome per cui giunge a destinazione con le budella esposte. Una «pia donna» incartapecorita e brutta come una befana lo vorrebbe costringere a gridare «Viva il Re», Nicotera risponde con un fil di voce «Morte al tiranno». Ricevute al convento le prime cure, viene caricato su una carretta e trasportato, sotto il sole cocente e fra i soliti insulti della plebaglia, prima a Sapri e poi a Salerno, dove per direttissima si celebrerà il processo contro i «sovversivi».

Su di esso occorre soffermarsi per fare alcune osservazioni circa le critiche mosse alla linea difensiva del Nicotera e del suo legale Diego Tajani da parte della pubblicistica più accreditata, che è, ovviamente, quella di orientamento marxista, la quale ha insinuato dubbi non di poco conto sulla correttezza morale oltre che politica del Nostro.

Il Tajani avrebbe infatti cercato di «distrarre» l'oggetto dell'imputazione dal suo vero significato «patriottico-rivoluzionario», affermano per esempio Antonio Bagnato e Giuseppe Masi in un articolo scritto a due mani e pubblicato sul giornale locale "Radio Lamezia" del luglio-agosto '94. In detto articolo si riporta il seguente stralcio dell'arringa conclusiva dell'avvocato Tajani:

«Chi può provare che (Nicotera) prese parte a tale cospirazione? Non a lui si rivolse Pisacane per organizzare la spedizione (di Sapri), ma a Luigi Barberi, e quando il progetto fu pronto, il piano accettato, i mezzi di esecuzione disposti, rivolse invito a Nicotera, e costui, dapprima tentennante, si risolse ad offrire la sua partecipazione solo quando fu chiaro in lui che l'unico mezzo per salvare l'indipendenza della patria (napoletana) contro gli occulti maneggi di un principe straniero (Luciano Murat) che ne aveva già meditato l'invasione ed era in procinto di attuarla».

Concludono pertanto il Bagnato e il Masi che «diversamente dai fratelli Bandiera che, interrogati, dettero sempre risposte secche e taglienti, Nicotera, senza sevizie e senza torture, disse cose che poteva tacere (in relazione alla cospirazione murattiana) accusò uomini di un partito avverso, quando si trattava semplicemente di difendere il proprio ideale». Così, già all'epoca del processo, il Nicotera avrebbe rivelato la molto discutibile propensione «a quella condotta e a quel costume, in parte negativi, della politica che ha nel Machiavelli il riferimento obbligato» e per cui «l'uomo Nicotera non ha goduto di buona stampa nella storia d'Italia», mostrando, accanto a «momenti di alta tensione etico-civile (...), manifestazioni di cinico pragmatismo obbediente all'imperativo prioritario della sopravvivenza politica a tutti i costi».

Anzitutto stupisce che dei marxista muovano al Machiavelli e a suoi presunti «allievi» appunti di natura «morale» per non dire moralistica, quasi novelli Boccalini e in uno spirito di «cattolicesimo controriformistico» rinnovantesi ad onta dell'incessante «progredire della coscienza laica verso il socialismo e il comunismo».

Stupisce di più ancora, il fatto che il Bagnato e il Masi giudichino politicamente ed eticamente negativa la denuncia da parte del Nicotera del carattere anti-nazionale della congiura murattiana: e anti-nazionale non solo nei confronti della nazione napoletana, ma anche rispetto a quella italiana da costruirsi, la quale non si sarebbe potuta realizzare con una presenza francese nelle Due Sicilie oltre che nello Stato Pontificio. Senza contare che un Napoleonide sul trono di Napoli, e sostenuto da un «campione di democrazia» come Napoleone III, era tutt'altro che un vantaggio nell'ottica internazionalista di un Carlo Marx. Il quale, ne "Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850", sostiene infatti: «Il restaurato dominio borghese in Francia (ad opera di Luigi Napoleone, futuro Napoleone III) esigeva la restaurazione del dominio papale in Roma. (...) Nei rivoluzionari romani (guidati da Mazzini, Garibaldi, Pisacane) si colpivano gli alleati dei rivoluzionari francesi; l'alleanza delle classi controrivoluzionarie nella repubblica francese costituita, trovava il suo necessario coronamento nell'alleanza della repubblica francese con la Santa Alleanza, con Napoli e con l'Austria». Considerato che la Spedizione di Sapri avviene nel 1857, un anno prima degli accordi di Plombières coi quali Napoleone III assume una posizione favorevole alla rivoluzione italiana posta sotto la direzione di Cavour, diventano allora comprensibilissime le preoccupazioni di Nicotera e di tutto il cosiddetto «partito militare» dei Napoletani con in testa Pisacane, questa volta in pieno sostenuto dallo stesso Mazzini, nei confronti della cospirazione murattiana, per scongiurare il cui incombente pericolo un personaggio molto vicino a Pisacane si era apertamente dichiarato pronto a «correre in difesa dei gigli borbonici», senza suscitare scandalo e anzi interpretando il comune sentire degli esuli partenopei.

In quest'ottica, allora, non solo la spedizione di Sapri è qualcosa di più di una azione «dimostrativa» mazziniana (non «romanticamente» intesa, come si è prima spiegato, quanto piuttosto «machiavellianamente» intesa), ma rivela una tale dimensione politica per cui ad essa si attagliano giudizi che possono essere solamente etici, di natura assoluta, ben al di sopra di quale che sia «morale positiva», di una morale «laica» come di una morale «confessionale».

E pertanto Nicotera non poteva né doveva tacere sul fatto che la Spedizione di Sapri era diretta contro Napoleone III piuttosto che contro Ferdinando II delle Due Sicilie; il quale aveva avuto modo negli anni Trenta, all'epoca della disastrosa «querelle» con l'Inghilterra sul monopolio dello zolfo siciliano, di sperimentare quanto infida fosse quella borghesia francese che aveva appoggiato Luigi Filippo d'Orleans per i medesimi motivi per cui adesso appoggiava Napoleone III: e la «querelle» sullo zolfo siciliano non poteva certo essere ignorata dai rivoluzionari italiani, tanto meno da quelli napoletani come il Nicotera. Questo è lapalissiano. Altrettanto dovrebbe esserlo il fatto che Ferdinando II non poteva restare indifferente davanti alle tutt'altro che interessate dichiarazioni di Nicotera al processo di Salerno, tanto più che esse provenivano da un uomo che, pendendo sul suo capo la quasi certezza di una condanna capitale, conservava davanti ai giudici un atteggiamento altezzoso e sprezzante quasi a voler aggravare ulteriormente la propria già gravissima imputazione. Si continua poi a far torto all'intelligenza politica e al patriottismo italiano di Ferdinando, sorvolando su documenti storici attendibili come quelli riportati dal De Cesare nel suo "La fine di un Regno" -e che il Croce non contesta limitandosi a non parlarne-, documenti dai quali si deduce che il Borbone, in ciò peraltro suffragato dal suo consigliere Carlo Filangieri (il cui «liberalismo» non era stato affatto un'infatuazione di gioventù), era ben conscio che, a partire dal '48, erano effettivamente in gioco non solo i destini della dinastia ma la forma stessa del futuro Stato unitario italiano, forma che avrebbe potuto essere federale, conservando la dinastia (sia pure in un contesto neo-ghibellino piuttosto che neo-guelfo come era ancora possibile nel '48), e con ciò meglio tutelando gli interessi dei popoli delle Due Sicilie. La considerazione dei documenti in parola in funzione di una valutazione del regno di Ferdinando II e della stessa Spedizione di Sapri che sia diversa da quella corrente, consentirebbe allora di comprendere il motivo per cui Ferdinando commutò la pena di morte, inflitta dai giudici di Salerno al Nicotera, in ergastolo a vita: volle «risparmiare» Nicotera per utilizzarlo con reciproco vantaggio delle rispettive concezioni politiche, quando fosse giunto il momento opportuno; e d'altra parte un atteggiamento identico egli aveva tenuto con Carlo Filangieri e coi «liberi spiriti» che avevano insegnato e continuavano a insegnare nel Collegio militare della Nunziatella, Collegio dal quale era uscito Pisacane e tutti gli esponenti del cosiddetto «partito militare» dei Napoletani.

Questi, dunque, i motivi per cui le tesi del Bagnato e del Masi mi paiono insostenibili. Si tratta di motivi molto precisi, che però si possono ricondurre a un motivo più generale, consistente nella incapacità di un certo marxismo di comprendere il significato non solo «storico» della rivoluzione nazionale nel contesto più vasto ed «escatologico» della rivoluzione internazionale proletaria. Questo «certo marxismo» che fa torto a Marx, identifica la rivoluzione nazionale con la «rivoluzione borghese» e anzi col suo «compimento» che dev’essere di necessità «fascista». «Fascista e borghese» è pertanto Stalin, e lo è anche Mao sorprendentemente, perché contro il «revisionismo» si richiama a Stalin, pur restando fermo nella sua «visione del mondo» contadina, feudale, neo-confuciana, sostanzialmente taoista. È da ribattere a codesto «certo marxismo» chi sia allora il proletario. Se non sia per caso il figlio peggiore della borghesia, il cui movente ultimo si rivela essere nient'altro che l'interesse materiale e, «spiritualmente», nient'altro che il nietzschiano «risentimento» esprimentesi in taluni momenti di «congiuntura storica» in moraleggianti geremiadi di manifesta ascendenza giudaico-cristiana, quando non possa o non si trovi il nerbo necessario per incanalarsi nella violenza rivoluzionaria, la quale, pur nella mia «metafisica incomprensione» del materialismo storico, giudico sempre positive, se non altro per la «imperscrutabile» legge dell'eterogenesi dei fini.

Cade a questo punto opportuna una citazione marxiana sul modo corretto e cioè rivoluzionario di porsi di fronte alla sconfitta della «rivoluzione proletaria», e -si potrebbe aggiungere- di qualsivoglia rivoluzione, brano tratto ancora da "Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850":

«Il progresso rivoluzionario non si fece strada con le sue tragicomiche conquiste immediate (dal '48-'49), ma, al contrario, facendo sorgere una contro-rivoluzione serrata, potente (quella guidata da Luigi Napoleone), facendo sorgere un avversario, combattendo il quale soltanto il partito della insurrezione raggiunse la maturità di un vero partito rivoluzionario».

Ciò vale «ad hoc» nel caso della strategia adottata dal «partito militare» dei Napoletani in occasione della Spedizione di Sapri, e rende pienamente il significato politico della linea difensiva assunta dal Nicotera al processo di Salerno.

Di più, volendo estendere il significato del testo marxiano alla questione di cosa trasformi l'«agitazione» e al limite l'«insurrezione» proletaria in un fatto rivoluzionario, si è forzati a rispondere, con piena aderenza al testo, che altro non è che la capacità, per nulla spontanea nel proletario come dell'uomo in generale, di imparare dalla sconfitta sopportandola e quasi cinicamente compiacendosene. Il che è possibile al proletariato in un ben determinato momento storico e a patto non solo che il suo «sfruttamento» tocchi e superi la soglia della sopportabilità, ma che il proletariato acquisti coscienza e scienza della rivoluzione. Questa, per Marx, gli deriva dalla borghesia stessa, tanto nel senso delle «contraddizioni economiche» che essa genera sviluppandosi, quanto nel senso della coscienza che gli intellettuali -che non possono non essere per Marx che di estrazione borghese anche quando provengano dal proletariato, appartengano cioè all'«aristocrazia operaia»- intellettuali i quali, per così dire, negano la propria origine borghese, sicché danno origine, affermando e comunicando questa negazione, alla «coscienza proletaria». Ciò non significa affatto nullificare la coscienza proletaria ovvero ipostatizzarla in una prospettiva escatologica, sebbene ciò appartenga indubbiamente alla storicità della speculazione marxiana e del marxismo in generale nella fase ascendente della sua parabola, il cui punto di flesso coincide con la fine del secondo Conflitto mondiale; significa, piuttosto, sottolineare il fatto che Marx, andando ben oltre la mera storicità del suo pensiero (il suo «materialismo storico»), ha compreso che l'intellettualità vera (la «coscienza proletaria» come «prassi rivoluzionaria») non appartiene per definizione né al proletariato (che infatti la «eredita» dalla borghesia), né alla stessa borghesia (che gliela «trasmette» in qualche modo «suicidandosi» come borghesia, facendo alcunché di inconcepibile alla luce del puro e semplice «determinismo socio-economico»). Se ciò non fosse, si dovrebbe negare il carattere storicamente ed effettivamente rivoluzionario del pensiero di Marx, il che è con ogni evidenza impossibile. Ma poiché è vero come altrettanto vere sono le origini borghesi di Marx e della sua filosofia, si può comprendere come il marxismo sia legittimamente suscettibile di una interpretazione sia rivoluzionaria, bolscevica, che d'una interpretazione riformistica, socialdemocratica. Non solo, se è vero che Marx ha individuato la funzione positiva della rivoluzione nazionale ai fini della rivoluzione internazionale del proletariato, deve essere altresì vero che, nel quadro del suo pensiero, il mazzinianesimo sia «ortodosso» che «eretico» è da interpretarsi come una forma estrema della socialdemocrazia, la quale, attraverso una serie di operazioni «trasformistiche» in senso politico positivo e senza alcuna considerazione piattamente e farisaicamente moralistica, avrebbe generato il fascismo. In tal modo va intesa secondo me la definizione data dal Nolte del fascismo come «reazione rivoluzionaria». Ciò significa che lo stesso fascismo (e non solo lo stalinismo, il maoismo e il castrismo) può rientrare nel quadro del marxismo. La cosiddetta «eresia» e il cosiddetto «tradimento» di Mussolini consistono nell'avere egli saputo sviluppare questa possibilità, con una genialità che la storia prima o poi si incaricherà di dimostrare con la più grande evidenza, soprattutto ai detrattori in buona fede, i quali già, nella parte più avveduta della sinistra, cominciano a nutrire «sospetti», riflettendo sulle cause profonde della crisi mondiale del comunismo e sulla «realtà» del trionfo del sistema capitalistico «tornato alle sue origini settecentesche» dopo la morte prematura del «mastino sovietico». Se il proletariato e la borghesia come erano nell'Ottocento e nella prima metà del Novecento non esistono più, il marxismo dovrebbe dichiarare bancarotta, e per di più fraudolenta, se non salvasse di se stesso il nucleo rivoluzionario. Marx sorriderebbe delle pretese rivoluzionarie dell'On. Bertinotti; della «difesa dei deboli» si interessa già fin troppo la Chiesa cattolica, e non è dato dire con quali intenti «rivoluzionari». Prima o poi ci si dovrà convincere che una riforma rivoluzionaria della società italiana si potrà attuare solo col consenso di tutte le forze politiche, cioè sulla base di una ripresa dell'idea di nazione e di socialismo nazionale quali si espressero nel Risorgimento e sotto quel regime fascista che il comunista Amedeo Bordiga non a caso definì una «democrazia autoritaria». I metodi non potranno essere che quelli «trasformistici» di allora, «mutatis mutandis». Ed è chiaro che il mutamento potrebbe anche avvenire in peggio, quanto più tempo si verrà sprecando in «tergiversazioni» anche di intonazione moraleggiante, cattolico-conciliaristica, «buonista» a ogni costo e al limite del suicidio nazionale e «collettivo».

 

Possiamo ora riprendere il discorso su Nicotera nel punto in cui lo avevamo interrotto. Riporteremo anche degli episodi che potrebbero sembrare agiografici e storicamente irrilevanti se, avulsi dalle considerazioni della nostra lunga digressione, servissero a evidenziare la «singolarità di un personaggio pittoresco quanto assai discutibile» e solo questa, con la più o meno confessata intenzione di mettere in guardia il Lettore contro le «tentazioni di trasformismo reazionario degli anni Novanta». A noi, invece, il Nicotera sembra un personaggio tutt'altro che «discutibile», perfino nelle sue manifestazioni comportamentali che alla «smagata» coscienza contemporanea suonano «datate e di cattivo gusto», quasi espressioni di esibizionismo d'una macchietta italica e anzi «napolitana».

Per esempio, si racconta che durante il processo di Salerno uno dei giudici mise in dubbio una testimonianza del Nostro accusandolo d'essere un volgare «mentitore». Come risposta s'ebbe l'epiteto di «vile» accompagnato dal lancio di un pesante calamaio di bronzo scagliatogli contro dal Patriota inviperito. Ma questo «pittoresco italiota» rimarrà invece imperturbabile ascoltando la sentenza che lo condannava a morte, e quando apprenderà di essere stato graziato dal Sovrano, commenterà con suprema ironia: «Sarà per un'altra volta». Rinchiuso nell'ergastolo della Favignana, il magistrato del luogo stese «di sua iniziativa» una supplica al Re perché fosse rilasciato per la sua «buona condotta». Nicotera si rifiutò di controfirmarla. «Morrete in questo luogo», rispose allora stizzito il magistrato, che molto probabilmente agiva su istruzioni superiori. «Mi fate pietà», ribattè Nicotera. E tanto si concilia assai male sia con un certo «italici stile» quanto col «machiavellismo», a meno che non si supponga possibile un uso «machiavellico» del «fanatismo», un «fanatismo» e un «machiavellismo» spinti fino al punto di escludersi a vicenda.

Alla Favignana il Nicotera resterà fino allo sbarco dei Mille, da Marsala Garibaldi gli farà sapere che «fra pochi giorni o voi sarete libero o io sarò morto». Riacquistata la libertà, si incontra a Palermo col Generale per subito ripartire per la Toscana, incaricato di reclutarvi volontari e con questi marciare sulla Umbria e le Marche. Durante la missione trova il tempo per andare a Milano e ricongiungersi con Nina Poerio che diventa sua sposa. Subito dopo è in Sicilia e riceve i gradi di Colonnello Brigadiere. Come tale combatte sul Volturno, a Capua e a Caserta. Nel '62 è ancora con Garibaldi in Aspromonte, per risolvere la questione romana senza appoggi stranieri, cioè per l'Italia e contro Napoleone III. Durante la terza Guerra d'Indipendenza, è ancora con Garibaldi in Tirolo guadagnando sul campo i gradi di Maggiore Generale e la Croce dell'Ordine di Savoia. L'anno dopo è posto da Garibaldi al comando di mille volontari per l'ultimo sfortunato tentativo di liberare Roma.

Frattanto, Nicotera aveva iniziato la sua carriera parlamentare. Nel '61 era stato eletto deputato del primo parlamento nazionale nel Collegio di Salerno. Si collocò a sinistra e sempre vi rimase, ovviamente nel senso della sinistra risorgimentale mazziniana, in contrasto, tuttavia non cieco e pregiudizievole, con l'«altra» sinistra che andava sempre più assumendo caratteri internazionalistici, fino a sacrificare, spesso inconsapevolmente e per motivi perfino nobilissimi, l'interesse del proletariato italiano considerato in una prospettiva non «di classe» e principalmente in direzione di benefici immediati e tangibili.

La politica di Nicotera fu incentrata, su tre punti essenziali:

1) risolvere il problema del brigantaggio politico, di cui non volle distinguere l'aspetto puramente delinquenziale da quello che tale non poteva certo dirsi e per cui non di rado accadeva che garibaldini delusi andassero a ingrossare le bande che combattevano per il ritorno di Francesco II, che era a Roma ospite del Papa;

2) fronteggiare la Questione romana che diventava sempre più difficile per la stretta connessione col brigantaggio meridionale e per i riflessi che essa rivestiva in rapporto al debito che la rivoluzione italiana aveva nei confronti di Napoleone III, che la aveva posta «sotto tutela» e strumentalizzata ai fini imperialistici del II Impero, in funzione anti-austriaca e parimenti anti-prussiana, col ricatto di dividere ancora l'Italia anche solo sostenendo Francesco II di Borbone, oltre che «proteggendo» il Papa, e potendo ora anche rinunciare all'antico progetto di mettere sul trono di Napoli un Napoleonide: una circostanza, questa, che dovrebbe essere valutata molto attentamente non solo dai socialisti nazionali (per distinguerli da quelli nazionalisti tedeschi dell'Ottocento e del primo Novecento), ma anche dai socialisti internazionalisti, e sulla scorta delle inequivocabili indicazioni di Marx;

3) impostare ex-novo una politica culturale che onorasse il pesante lascito cavouriano di «doversi fare gli Italiani», il che Nicotera fece battendosi per la riforma delle Università italiane che dovevano forgiare con univoci criteri la futura classe dirigente.

La cultura del Nostro fu qualche volta oggetto di scherno e derisione, ed effettivamente non poteva non avere tutti i limiti dovuti al fatto che troppo poco tempo ebbe il Nicotera per dedicarsi allo studio, specie nella giovinezza quando esso è più proficuo. Ma ebbe naturali e indubbie capacità oratorie. Dice il Rinonapoli in uno scritto del 1894: «Ha la parola insinuante che ricerca la corda sensibile di colui al quale si rivolge e la tocca; ha grande facoltà persuasiva; discorso aperto, sentito, diffuso, continuo»: quel che appunto -è da dire- non nasce da fredda erudizione o da calcolato artificio di «pennarulo napolitano», ma dalla profonda e vera convinzione di chi ha imparato direttamente dalle cose e mettendo a repentaglio la vita sul campo di battaglia, per una conoscenza che è attività creatrice in atto. Suscitò pertanto immediata simpatia nel Re Galantuomo nonostante l'aspra lotta subito ingaggiata con la Destra, lotta che lo fece emergere fra i parlamentari più cospicui dello schieramento opposto. Una volta, a un ballo al Quirinale, il Re gli si avvicinò e con un fare fra l'amichevole e il provocatorio gli disse: «Eh, Nicotera, qui ci riesci a far ballare i miei Ministri, ma alla Camera no!». «Chi lo sa, Sire ...» rispose il Nicotera. Due mesi dopo cadeva il Ministero Minghetti. Avendo il Nostro per caso incontrato il Sovrano, gli disse: «Sire, vedete che so far ballare anche il Parlamento».

Si giungeva così, nel 1876, all'avvento della Sinistra al potere. In questo evento Nicotera ebbe una parte decisiva e sotto Depretis assunse per la prima volta il dicastero degli Interni, cominciando immediatamente a colpire con misure draconiane mafia e camorra «fino a distruggerle o quasi» secondo alcuni storici. Certo è, tuttavia, che con un uomo come Nicotera non vi era spazio per i «giochi» che saranno possibili con Giolitti e dopo di lui: per «machiavellismi» dettati o da «avvedutezza politica» (nel caso del Giolitti) o da pressoché totale debolezza di uno Stato in mani di gente di troppi ovvero alcuno scrupolo, come accadrà dal secondo dopoguerra in poi. Il Nicotera univa infatti a una concezione dello Stato precorritrice di quella gentiliana un eccezionale coraggio fisico che traspariva da ogni espressione della sua personalità, naturalmente e senza veruna ostentazione. La sua «deprecata irruenza» doveva incutere pertanto «rispetto» nell'«uomo d'onore» di quei tempi, ottenendo effetti che andavano ben oltre quanto si potesse ottenere con la mera azione repressiva e con metodi terroristici, secondo sistemi ben sperimentati dalla non proprio «pessima» polizia borbonica. Si diceva non per caso che Nicotera fosse il «lioncello» di Mazzini. Lo abbiamo visto scagliare un calamaio addosso al giudice durante il processo di Salerno, in una condizione di assoluta inferiorità fisica. Come Ministro degli Interni, venuto a diverbio su certe convenzioni ferroviarie col Ministro dei Lavori Pubblici Zanardelli, lo afferrò per la vita e sollevatolo da terra come un fuscello lo avrebbe letteralmente «scaraventato dalla finestra», se non fossero intervenuti a fermarlo i deputati Bodio, Bonini e Martini. L'episodio è raccontato nei particolari nelle "Confessioni e ricordi" di quest'ultimo. Quanto alla estrema facilità con cui sfidava a duello gli avversari politici che osassero abusare della sua buonafede, che a volte sfiorava l'ingenuità (celebre il duello sostenuto contro il Lovito, Segretario generale del Depretis) è da dire che il ricorso al duello era ancora una consuetudine presso i gentiluomini dell'epoca, discutibile finché si vuole, ma che pure aveva una sua positiva funzione sociale e morale nel senso più alto della parola. Sta di fatto che la «deprecata irruenza» del Nostro nasceva da una radicale insofferenza per certe pratiche della «democrazia parlamentare» che nascondevano, dietro un ineccepibile formalismo giuridico, intrallazzi della peggior specie e loschi interessi che verranno in luce con lo scandalo della Banca Romana, e non certo per moventi di moralizzazione del costume politico. Questo scandalo sarà la tomba della gloriosa Sinistra Risorgimentale.

Dunque vi erano motivi molto seri alla base delle «escandescenze» del Nostro. Non si trattava, come si volle e si vuole far credere ancora, di mera rozzezza, della «bestiale irascibilità» di uno «squadrista ante litteram» affatto chiuso alla «filosofia» e al «bene incommensurabile della cultura». Se il Nicotera appoggiò il Depretis, lo fece con tutte le riserve che provenivano dal suo irriducibile mazzinianesimo, e anzi proprio dalla cosiddetta «eresia mazziniana», in uno spirito di potenziale opposizione che diverrà operante non solo nei citati e «inqualificabili episodi» della tentata defenestrazione dello Zanardelli e del duello col Lovito, ma quando il Nicotera rassegnerà le dimissioni dal Ministero dopo la apparentemente persino comica vicenda della «gamba di Vladimiro», per cui un banale equivoco venne a configurarsi, grazie ai maneggi degli avversari politici, come una vera e propria violazione del segreto d'ufficio. La sua permanenza nella carica di Ministro degli Interni era durata appena un anno, dal '76 al '77.

Passato all'opposizione, il Nicotera continuerà nella sostanza e con estrema coerenza la politica precedente tanto «discutibile» per i suoi contenuti «repressivi e reazionari», aggiungendovi adesso una intonazione «antioperaia e antisocialista», epperò nel senso del «socialismo internazionalista», secondo una linea che ricalcava la ormai consolidata e irriducibile opposizione fra i seguaci di Marx e quelli di Mazzini, fra il «socialismo internazionalista» e quello nazionale, che non aveva nulla di «nazionalista» e cioè «imperialista» non essendosi ancora manifestato il fenomeno del nazionalismo italiano, ed essendo, il socialismo nazionale mazziniano, a suo modo internazionalista e per di più europeista, così come, non solo all'epoca della guerra franco-prussiana, sia Marx che Engels non erano del tutto contrari alla possibilità del socialismo nazionale, e anzi avevano addirittura manifestato delle «strane» propensioni per il nazionalismo prussiano, per il bismarckiano «blut und boden» (e sull'argomento speriamo di poter dedicare in seguito un articolo specifico). Preoccupato della grave debolezza del Paese, causata principalmente dalla questione morale e dalle speculazioni di una «usurocrazia» autoctona collegata tramite la massoneria con l'estero, e alla quale infine tornavano utili le sacrosante rivendicazioni del proletariato in quanto l'internazionalismo proletario era un potente fattore di destabilizzazione interna degli stati nazionali, il Nicotera non esiterà a votare con la destra, nel '79, contro la abolizione dell'odiosa tassa sul macinato. Così, con Cairoli, Crispi, Beccarini e Zanardelli darà vita alla cosiddetta «pentarchia», che, se ottenne irrisori risultati concreti come osservò il Croce, dette tuttavia filo da torcere al Depretis (1). La «pentarchia» si sciolse nel '87 allorché Crispi e Zanardelli accettarono di entrare nel governo Depretis, con grave dolore più che disappunto del Nostro. Quando nello stesso anno il Crispi diverrà capo del Governo, Nicotera attaccherà come avventuristica la sua politica di espansione coloniale, forse sbagliando, epperò coerentemente, temendo che essa potesse aggravare la crisi finanziaria dello Stato e rivelare al mondo la debolezza del Paese, inducendo ad approfittarne tutti i suoi nemici internazionalisti di destra e di sinistra. In ogni caso, la sconfitta di Adua (peraltro non catastrofica come pretese la stampa di allora, precorritrice di un costume caratteristico di quella «libera» odierna) e lo scandalo della Banca Romana sembrarono dare ragione al Nostro. E bisogna qui riconoscere che solo l'«abilità e spregiudicatezza» del Giolitti riusciranno a venir a capo di una situazione intricata e quanto mai pericolosa per la sicurezza sia interna che esterna dello Stato: e sia detto con buona pace del Salvemini.

Nel '91, caduto il Crispi, il Governo viene assunto da un uomo di destra, il siciliano Marchese di Rudinì, che nomina Nicotera Ministro, ancora una volta, agli Interni. Due anni dopo il «lioncello di Mazzini», alias il «Barone di Nicastro» (che aveva rifiutato, a differenza del Medici, il titolo nobiliare che intendeva conferirgli il Re Galantuomo), muore nella sua residenza di Vico Equense e viene sepolto a Napoli, nella capitale dell'ex-Regno delle Due Sicilie. (2)

Il Governo Rudinì e la nomina agli Interni di un radicale come Nicotera paiono rientrare il quel «trasformismo» che oggi suole definirsi negativamente «consociativismo» fino a diventarne sinonimo, in esso vedendosi un «male atavico», con accenti paranoici che rivelano più una specie di masochismo «culturale» che non una semplice conseguenza della italica esterofilia, un complesso di inferiorità nazionale dovuto alla relativamente breve storia dell'Italia unita. Questo masochismo «culturale» altro non è, a mio avviso, che il portato della sconfitta italiana nella seconda Guerra mondiale, una sconfitta che, purtroppo, è stata una sconfitta nazionale e non semplicemente la sconfitta del fascismo; in quanto il mito (in senso positivo) della Resistenza, per colpa di quel marxismo «che fa torto a Marx» e che si è lasciato sedurre dal modernismo ad ogni costo e dall'americanismo, è venuto a perdere assai presto, e contro la volontà del Togliatti, quel carattere spiccatamente nazionale che pure la Resistenza possedeva indiscutibilmente (come è documentato in tante lettere dei suoi Martiri) e che indiscutibilmente derivava dal fatto che gli uomini della Resistenza erano stati forgiati dal fascismo, soprattutto i più anziani che lo avevano sempre combattuto. Questo masochismo «culturale» è stato poi aggravato dal «sentimento della colpa» così come è avvertito da quel cattolicesimo controriformistico che può dirsi radicato nel DNA di ogni Italiano; e a ciò si è poi aggiunta l'azione della Chiesa «riformata» del Concilio Vaticano Secondo. Per colpa dell'«internazionalismo proletario» trescante «malgré lui» con l'americanismo, e per la colpa ben più grave dell'internazionalismo chiesastico e mezzano, il masochismo «culturale» ha trovato storica espressione nella forma peggiore del «giolittismo»: il consociativismo democristiano, cioè la forma peggiore del peggiore fascismo e del peggior comunismo, la forma che dell'uno e dell'altro rigetta l'idea di giustizia nella socialità, e la rigetta dietro la finzione liberale, radicalmente individualistica e antisociale, dello «Stato di diritto», d'una legge fatta dai furbi per i furbi, che favorisce i peggiori e mette le catene ai migliori, quando non li metta letteralmente in catene e non li uccida, benché, non a caso, abbia abolito la pena di morte, ovvero si proponga di abolirla in tutto il mondo.

E pertanto, in definitiva, occorre interiormente far «tabula rasa» da questo masochismo «culturale», recuperare il senso e l'orgoglio dell'appartenenza nazionale, persino l'orgoglio degli incontestabili mali nazionali, per non esser paralizzati nel correggerli da cattolici «sensi di colpa», cui seguono le immancabili «assoluzioni» ed auto-assoluzioni e ricadute, in un circolo vizioso di «troppo umana» impotenza.

Ciò, politicamente, significa allora distinguere il «trasformismo» risorgimentale (che è tutt'uno con quello post-risorgimentale) dal «consociativismo» postfascista. Significa agire di conseguenza, riprendendo il primo per battere il ritorno del secondo negli anni 2000, nella forma di un secondo post-fascismo, oppure del post-comunismo, oppure ancora di una sintesi di entrambi che altro non sarebbe se non la «nuova Atlantide» di un «anarco capitalismo» senza rivoluzione, senza «socialismo», senza «comunismo».

Francesco Moricca

 

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