da "AURORA" n° 40 (Aprile 1997)

UNA CERTA IDEA DELLA SINISTRA

Dimenticare Berlinguer?
E perché mai, signora Mafai?

Enrico Landolfi

Donzelli è uno dei vari e cosiddetti «piccoli editori» guardati dall'alto in basso dai mammasantissima della grande industria culturale ma non certamente dai veri alimentatori delle patrie lettere, dagli intellettuali autentici, da coloro che usano la penna solo se e in quanto hanno davvero qualcosa da comunicare. Tutti costoro, infatti, trovano rifugio, e non di rado, nella minuta editoria allorché i vari Mondadori, Rizzoli, Feltrinelli, Bompiani, Laterza, Rusconi e via via elencando decidono spesso e soprattutto volentieri di far gemere i torchi solo per diffondere urbi et orbi i giganti della vendita in edicola e in vetrina, resi tali, magari, dalla furia pubblicitaria della complessa, variegata e sterminata macchina medianica.

Gloria, dunque, e riconoscenza eterna ai «piccoli editori» diffusori di novità pure antiche, ma indefessi rivelatori di talenti, segnalatori di produzioni letterarie di eccellente conio, indicatori di opere dell'area della saggistica, cui il capitalismo culturale ha creduto di dover sbattere le porte in faccia solo ed esclusivamente perché non avendo santi nel paradiso mass medianico non danno adeguato livello di profitti ai Ras della carta stampata.

Gloria anche, pertanto, alla Editrice Donzelli, che ci offre letture gradevoli, gratificanti, ed a prezzi accessibili, fra cui ultima -ma solo in ordine cronologico- quella di un saggio di Miriam Mafai recante il titolo "Dimenticare Berlinguer. La sinistra italiana e la tradizione comunista".

Trattasi di un libro breve (96 pagine numerate, in realtà una ottantina) dai contenuti provocatori come e forse più del titolo; con un taglio di rottura ideologica e storica epperò velate da un linguaggio rispettoso ad onta della decisa franchezza tipica di chi ha divisato di vuotare, e fino in fondo, il sacco di riserve, critiche, obiezioni, resistenze psicologiche accumulate in anni di «culto della personalità», di mitizzazione (vera o presunta); con una palese volontà di cancellazione di una esperienza di direzione partitica fondata su di una creatività strategica e dottrinaria che, comunque la si voglia giudicare anche in rapporto all'epoca nella quale si è esplicata, è alla radice del partito nuovo di Occhetto e di D'Alema non tanto di come in parte è ma di come in parte dovrebbe essere.

Un libro, comunque, interessante, fortemente rievocativo, colmo di cultura politica, di accattivante lettura anche per chi, come noi, non ne condivide l'assunto centrale. Un libro, dunque, che consigliamo con due suggerimenti: goderne, insieme alla tessitura critico-rammentativa, la valenza stilistica scorrevole e brillante; non abbassare mai la guardia rispetto alla chiave argomentativa dell'Autrice, ponendosi nei suoi confronti in una controllata, non settaria posizione ideologica e psicologica antagonista.

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Mentre ci accingiamo a contrastare le tesi mafaiane su Enrico Berlinguer inopinamente ci troviamo al fianco in qualità di «alleato» un nostro nemico di antica data: l'on. Achille Occhetto, già segretario del PCI prima e del PDS, di cui è stato il fondatore, poi. Attualmente è il Presidente della Commissione Parlamentare Affari Esteri e, con azione politica intermittente, leader di qualcosa abbastanza consistente che assomiglia a una corrente di partito. Perché nostro «nemico»? Perché a suo tempo attribuimmo a suoi errori di direzione politica la responsabilità della conquista del potere da parte delle destre di Berlusconi, Fini e loro sodali di varia tinta. Dunque, in uno dei recenti numeri de "l'Unità" -quotidiano autodefinentesi «fondato da Antonio Gramsci», ma di cui con l'illustre Sardo sembra entrarci come i cavoli a merenda, pur nell'ambito di un apprezzabile sforzo di modernizzazione in buona misura riuscita- ci è capitato di imbatterci in un breve brano dell'Occhetto in cui cogliamo alcune affermazioni che senza esitazione alcuna affermiamo di condividere toto corde.

Anzi tutto questa: «... in questa vicenda ho avuto l'immagine di una sinistra mutante, che invece di dialogare con il centro, vuole essa stessa farsi centro assumendone i modi di dire, i comportamenti e le posizioni politiche. Investita nel profondo di un tale spirito di travestimento, provoca continui cambiamenti delle parti in scena. Travestimenti plurimi e annunciati che dovrebbero provocare stupore e ammirazione per la raffinata cultura e fantasia politica di chi li concepisce ed esibisce, ma che nella realtà provocano ormai solo delusione, fastidio, sfiducia e tristezza. Inseguendo i simulacri di un vuoto pragmatismo, tutto puntato al conseguimento di risultati immediati, la sinistra italiana rischia di perdere la sua funzione etica, intellettuale e storica. Il patrimonio morale che la definisce. Ha ragione Delors. Abbiamo mancato di cuore e di attenzione.

Incalza ancora l'Akèl (così familiarmente chiamato da amici e seguaci): «Oggi, la sinistra non ha avuto il coraggio e la lungimiranza di andare controcorrente. Sembra che il compito principale sia diventato la lotta alla retorica solidaristica e alle facilonerie e approssimazioni terzomondiste del passato. Vedo che le più viete espressioni di moderatismo da benpensanti sono diventate quasi un obbligo. Non si tratta, temo, solo di una quasi naturale propensione al compromesso e al moderatismo d'una classe politica che raggiunge le responsabilità di governo. Sono piuttosto le conseguenze dello spirito del travestimento, vale a dire della tecnica politica che solitamente usa chi, per deficit di politica e di capacità specifiche di reali innovazioni, tenta di occupare gli spazi e le idee dell'avversario».

Estrapoliamo, infine, il capoverso conclusivo: « Abbiamo soprattutto il grande compito di riconquistare la fiducia. Della sinistra in sé stessa, del nostro paese nel ruolo internazionale che può ancora svolgere, dell'Europa per la grandezza del progetto politico del quale è portatrice».

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Sarà bene fare subito presente al lettore che l'adesione a questi brani dello scritto del presidente Occhetto non fa di noi degli occhettiani (e, del resto, come potremmo esserlo se non militiamo nel Partito della Quercia e ci sentiamo solo dei cani sciolti gravitanti nella orbita della Sinistra intesa nel suo insieme, provenienti dalle macerie di quello che in un tempo non remotissimo fu il Partito Socialista Italiano?). Non ci risulta, infatti, che l'ideatore del Partito Democratico della Sinistra abbia dismesso la non vietata ma vieta ed astrattissima intenzione di agire nel senso della trasformazione del post-comunismo in una sinistra di stampo azionista, in un «azionismo di massa», quasi come una formazione, la massima, del movimento operaio e popolare possa essere illuministicamente modellato su di uno specime culturale elaborato lungo l'asse ideologico del progressismo borghese. Tale escogitazione, come già annotato, fu alla base della strepitosa avanzata di Berlusconi e del suo scudiero Fini verso Palazzo Ghigi, anche perché essendo componente decisiva dell'azionismo l'antifascismo acritico, la sinistra risultò sfasata relativamente ad un clima nuovo qualificato dal passaggio, nel campo dei reali e supposti eredi del Ventennio littorio, dal momento del neofascismo a quello del post-fascismo, mentre Berlusconi, pur digiuno di politica, non si lasciava sfuggire l'occasione di guadagnarsi l'alleanza della Fiamma Tricolore, il cui quadro intermedio, la cui struttura militante, il cui elettorato erano erroneamente ritenuti da Occhetto e dai suoi irrimediabilmente e permanentemente guadagnati alle suggestioni di destra.

Di più: la nostra adesione alle richiamate tesi occhettiane -sicuramente motivabile con la loro evidente propinquità alle posizioni anche psicologiche berlingueriane- non può e non deve affatto suonare come meccanicamente oppositoria al complessivo discorso dalemiano. Certo, non tutto pienamente ci convince della strategia e della tattica dell'attuale titolare delle Botteghe Oscure; la furia privatizzatrice e liberista che ha investito l'Italia, non meno delle altre democrazie occidentali, avrebbe dovuto trovare nel PDS piuttosto un oppugnatore indomabile che un favoreggiatore fin troppo accondiscente; la moderazione pidiessina spesso, se non volentieri, si converte in moderatismo; a Berlusconi si fa troppo credito di disinteressata passione liberal-democratica e si concedono troppi salamelecchi; la partecipazione «legittimatrice» di una delegazione del PDS a quella autentica buffonata del congresso fondativo di Alleanza Nazionale in chiave «antifascista» è tutta da dimenticare. E tuttavia mai e poi mai potremo dimenticare che nel giro di un biennio Massimo D'Alema ha capovolto radicalmente una situazione pressoché tragica connotata dalla presenza al vertice dello Stato di un governo da operetta capeggiato da un novizio della politica del tutto sprovvisto di cultura politica. E come negare al leader del PDS il merito di avere, per la prima volta nella storia d'Italia, portato tutta la Sinistra nell'area di governo sia pure in alleanza con un Centro talvolta troppo incline a pensamenti e pratiche moderatiste.

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Ma torniamo all'ottimo ancorché contestabile saggio critico di Miriam Mafai su Enrico Berlinguer. Fra i non pochi bersagli sui quali l'autorevole giornalista e saggista fa lavorare la sua penna, quello della «diversità comunista» è di certo uno dei preferiti. In un capitolo, l'ottavo, significativamente intitolato "Nella ridotta della diversità" leggiamo, per esempio, quanto segue: «Ma per poter assumere un atteggiamento di critica alla degenerazione altrui, andava riconcepita e riscritta la diversità del proprio partito», evitando ogni possibile omologazione, rafforzando la propria identità, alimentando l'orgoglio della propria storia e delle proprie scelte, nella lotta intransigente al privilegio, dando voce «soprattutto ai poveri, agli emarginati, agli svantaggiati», con l'obiettivo di superare, nel rispetto della democrazia, il meccanismo capitalistico. Anche nel PCI doveva quindi avviarsi un processo in virtù del quale, depurandosi dell'esperienza del compromesso e della unità con la DC, fosse possibile riscoprire la propria più autentica vocazione, nel rapporto con tutti i movimenti sociali che esprimessero i problemi reali del paese. Qui c'è un andare oltre la tradizione politica di alleanze del PCI, la scoperta o meglio un tentativo di recuperare, dopo le diffidenze del decennio precedente, un rapporto con i movimenti, quale che ne fosse l'origine e la cultura (primo fra tutti il femminismo, ma anche i movimenti ecologisti, pacifisti, non-violenti, anche se e forse proprio in virtù del loro alto livello di «incompatibilità» con il modello di produzione e di società vigente).

Non possiamo essere berlingueriani oltre che occhettiani soprattutto perché non siamo stati, non siamo e con ogni probabilità mai saremo, comunisti. Tuttavia, come non essere d'accordo con quanto descritto dalla bella penna della Mafai a proposito della concezione del partito e delle sue linee fondamentali elaborate dal mitico «Re Enrico», come veniva chiamato anche in ragione delle opzioni solitarie e della forte autorevolezza, soprattutto morale, con le quali procedeva alla loro applicazione? Peraltro, una analisi attenta e non prevenuta degli elementi offerti in questo brano al nostro giudizio sbocca nella seguente conclusione: quello vagheggiato da Berlinguer è non soltanto un partito numeroso ma anche -e anzitutto e soprattutto- un partito popolare nell'accezione più piena del termine. Un partito, cioè composto dalle classi, dai ceti, dalle categorie, dai gruppi sociali, dalle donne e dagli uomini naturaliter destinatari del messaggio della sinistra, di una sinistra degna del nome e spiace davvero che una personalità militante dal non comune spessore intellettuale quale senza dubbio è Miriam Mafai palesemente mostri di non condividere queste valutazioni.

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Ma forse è bene che sia lo stesso Enrico Berlinguer a replicare a questa ennesima critica mafaiana. Lo farà subito, con parole tratte da una intervista concessa alla rivista "Critica Marxista" nel numero di marzo-aprile del '81.

Vediamo: «La verità è che ciò che ci si rimprovera oggi, come sempre, è che un partito del movimento operaio quale è il PCI non ha rinunciato a perseguire l'obiettivo e a lottare per un mutamento radicale della Società. Si vorrebbero partiti di sinistra che di fatto si accontenteranno di limitare la loro azione a introdurre qualche correzione marginale all'assetto sociale esistente, senza porre mai in discussione e prospettare una diversa definizione dei rapporti che stanno alla base della struttura economica e sociale attuale». E ancora: « La principale diversità del nostro partito rispetto agli altri partiti italiani, oltre ai requisiti morali e ai titoli politici che noi possediamo è che gli altri stanno sempre più perdendo, sta proprio in ciò: che noi comunisti non rinunciamo a lavorare e a combattere per un cambiamento della classe dirigente e per una radicale trasformazione degli attuali rapporti tra le classi e tra gli uomini ...». Inoltre: «La nostra principale anomalia rispetto a diversi altri partiti comunisti e operai è che noi siamo convinti che nel processo verso questa meta bisogna rimanere -e noi rimarremo- fedeli al metodo della democrazia». Quindi: «L'assalto al cielo -questa bellissima immagine di Marx- non è per noi comunisti italiani un progetto d'irrazionalistica scalata all'assoluto. Da storicisti, quale era lo stesso Marx (e i nostri Labriola, Gramsci, Togliatti), non ci muoviamo sul piano di un esaurimento della storia: tendiamo invece tutte le energie di cui siamo e saremo capaci per rendere concreto e attuale ciò che matura dentro la storia, ce ne facciamo levatrici, favorendo con il lavoro e con la lotta la processuale fuoriuscita della società dall'assetto capitalistico ...». Va da sé che questo scampolo di prosa berlingueriana va rapportato all'epoca in cui vide la luce. Anni in cui certi riferimenti un tantino «dogmatici» a Marx, piuttosto «retrò» a Labriola, ed eccessivamente «rispettosi» a Togliatti erano di rigore. Da rilevare, inoltre, che il prestigioso leader del PCI, esagerando davvero con la assolutizzazione del ruolo del suo partito, omette di segnalare che anche altre forze esterne al PCI vanno nella stessa giusta, sacrosanta direzione da lui indicata. E non sempre muovendo da Marx e dal marxismo, bensì da elaborazioni culturali, esperienze di vita, vicende storiche le più disparate. Pensiamo, per esempio, alle varie correnti di sinistra del PSI non fagogitate dal craxismo. Ma anche a quelle sinistre -cattoliche, sindacali, intellettuali, politiche- dentro e fuori la DC che resistettero alla sirena del moderatismo centrista del CAF et similia. Né esitiamo a citare quei nuclei attivi e gli uomini che li rappresentarono che pur non essendo di destra entro la vecchia destra missina combattevano coraggiose, difficilissime battaglie «sociali» di minoranza; riuscendo, talvolta, ad ottenere risultati, come la partecipazione fortemente creativa al primo governo Milazzo.

Berlinguer, inoltre, non dice -non può dirlo, per più che ovvi motivi- che l'opposizione alla sua filosofia politica, alla sua concezione del partito, alla sua visione storica, non matura per quindi vigoreggiare solo fuori del PCI ma anche dentro di esso. E a livelli di autorevolezza e in dimensioni quantitative niente affatto trascurabili. Su di essa la Mafai astutamente si diffonde per convincere il Partito Democratico della Sinistra -da lei interpretato in una chiave estremamente moderatista, e non soltanto nelle pagine del suo peraltro interessantissimo saggio- che per andare avanti occorre, giustappunto, «dimenticare Berlinguer». Purtroppo, la sensazione che talvolta si ha è che comincino ad essere troppe le orecchie proclivi all'ascolto delle sue requisizioni.

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Gli è che l'onorevole Mafai avrebbe volentieri aderito illo tempore, al berlinguerismo se «Re Enrico» si fosse deciso ad indossare i panni socialdemocratici. Scrive: «Anche dopo lo strappo Berlinguer si impegna dunque a non scivolare sul terreno della socialdemocrazia, ad evitare una Bad Godesberg che collocherebbe in modo definitivo il PCI a fianco di quelle socialdemocrazie con le quali pure lo stesso Berlinguer andava tessendo da anni una fitta rete di rapporti politici. Il richiamo alla fedeltà agli ideali socialisti, all'impegno concreto per una fuoriuscita dal capitalismo è costante, appassionata e, in sostanza, non rituale. Poi l'Autrice screma dalle analisi berlingueriane questo pezzo che così apostrofa quei partiti socialisti e socialdemocratici che «hanno messo tra parentesi l'impegno al cambiamento dell'assetto dato, portandoli all'offuscamento ed alla perdita della propria autonomia ideale e politica. La nostra diversità rispetto alla socialdemocrazia sta nel fatto che a quell'impegno trasformatore noi comunisti non rinunceremo mai». A questo punto niente altro ci resta da sperare che nel sepolcro dove riposa dall'ormai remoto '84 non venga raggiunto dalle giaculatorie privatizzatrici e liberiste ormai in libera uscita anche su "l'Unità" e dintorni.

Secondo noi Enrico Berlinguer vedeva giusto sostenendo che non l'infiacchimento dello spirito rivoluzionario dovesse seguire ad una rude resa dei conti con l'URSS e con le sue degenerazioni autoritarie e imperialiste, bensì esattamente l'opposto. In proposito, così annota la Mafai: «Questa posizione non muta; anzi si rafforza dopo lo strappo e la critica e opposizione di Cossutta ... C'era anche in Berlinguer il convincimento che alla rottura del legame di ferro con l'URSS dovesse accompagnarsi una sempre più forte iniziativa a una sempre più esplicita azione critica nei confronti del centralismo, quasi questa servisse a compensare quel deficit di identità che sarebbe stato provocato dalla rottura con il paese del socialismo reale». La verità è che all'illanguidimento dei contenuti socialisti della esperienza sovietica si doveva rispondere -e Berlinguer rispose- non con meno ma con più socialismo. Ma la Miriam -forse compagna di tradizione amendoliana, ossia legata alla destra del PCI allora e ora alla destra del PDS- non è sicuramente di questo parere. Afferma: «Abbiamo qui una sorta di rovesciamento della tradizionale posizione di Giorgio Amendola: sostenitore d'una politica che potremo definire di destra, e riformista in Italia, ma altrettanto fermo sostenitore della necessità di mantenere intatto il legame con l'URSS (anche dopo il colpo di Stato in Polonia, anche dopo l'invasione dell'Afghanistan), un legame che avrebbe garantito l'identità dei militanti e irrobustito la loro fiducia nell'avvenire. Un paradosso, dunque, ma che induce a riflettere proprio sulla insufficiente autonomia culturale di un partito che rischia di dover sempre definire le sue scelte e disegnare o conformare la identità dei suoi militanti nel rapporto con Mosca.

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Ma, piaccia o meno, il rapporto con Mosca esiste già da quando non esisteva ancora il PCI e, pertanto, è con esso che occorre fare i conti per concretamente avanzare sul terreno della autonomia e della democrazia socialista. Non manca di rendersene conto l'autorevole scrittrice, la quale, proprio mentre sottopone a critica rispettosa ma senza indulgenze l'ideologia berlingueriana, finisce per coonestare un aspetto essenziale del successore di Luigi Longo alla segreteria del partito. Ecco: «E dunque nel momento in cui può venir meno il ruolo del mito sovietico, nel momento in cui sente i rischi di una omologazione ai valori correnti, Berlinguer rilancia il valore della sua diversità. Per questo, deve ridisegnare, rafforzare, irrobustire una identità di sinistra che troverà il suo ancoraggio nella critica radicale alla società in cui si vive, nella ricerca di valori che la trascendano, e, nell'immediato, nella polemica contro la socialdemocrazia che a quei valori e a quella società si è adattata». E ancora, via via sottraendo valenza e consenso in quote sempre più ampie all'ordito teorico-politico del berlinguerismo: «Fa parte allora di questa rafforzata identità di sinistra non solo il rapporto più stretto con movimenti femministi o ecologici (movimenti non omologabili e incompatibili con la società capitalista), ma anche con i movimenti cattolici ex-pacifisti, che, con parole d'ordine non sempre condivisibili, si stanno mobilitando per impedire la installazione dei Pershing in Italia. Quello che con lo strappo si rischia di perdere nel rapporto con il mondo socialista si recupera così nel rafforzamento della lotta per la pace, attraverso manifestazioni che rappresentano nei fatti anche se non nelle intenzioni dei promotori, l'ultimo sostegno di massa che viene offerto alla politica imperialista dell'URSS».

Ripetiamo: il saggio antiberlingueriano di Miriam Mafai è, secondo noi, da valutare criticamente. Tuttavia esso, a parte altri e già segnalati meriti, offre quello di riaprire il discorso sul grande leader scomparso tredici anni or sono. Lo riapre, questo il suo limite, in una chiave decisamente ancorché non decisivamente polemica e liquidatrice, a malgrado della politezza del linguaggio e della moderazione nell'argomentare moderatista. L'oppugnazione della linea interpretativa mafaiana è stata da parte nostra parziale perché di necessità racchiusa nel giro relativamente breve -breve, cioè, in rapporto alla vastità e profondità della materia e delle tematiche in cui essa si articola da trattare- di un contributo pubblicistico da rivista. Tuttavia la molta carne messa al fuoco dalla eccellente saggista nel suo pur non sesquipedale volume, impone a noi di ritornare sui contenuti della sua complessa e talvolta avventata riflessione sull'era berlingueriana della Sinistra e, più in generale, della democrazia italiana. Lo faremo, al più presto, in questa e in altra sede.

Enrico Landolfi

 

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