da "AURORA" n° 40 (Aprile 1997)

INTERVENTO

Il colore dell'Aurora

Giovanni Luigi Manco

 

Detesto il tricolore, il suo contenuto semantico, la sua origine. Nella divisione della bandiera in bande si ripetono visibilmente le divisioni sociali inaugurate dalla rivoluzione francese e portate in trionfo dalla borghesia. Per Carlo Pisacane l'idea del tricolore evoca la borghesia in agguato, determinata a sacrificare l'universalità ed onnilateralità dell'uomo, ovvero la sua natura di ente sociale, sull'ara del liberismo economico.

Difficile dargli torto.

In un mondo abbandonato alle ragioni dell'accumulazione capitalistica, lo Stato è fondamentalmente il gendarme della proprietà privata e l'uomo un frammento della disintegrazione della totalità, una monade asociale ed egoistica in conflitto con tutti. Dagli spalti e le torri di un mondo siffatto può sventolare solo un emblema di distruttività, la bandiera «arlecchina» appunto, non l'insegna del popolo nel suo complesso.

La sua prima apparizione, nel 1796, non è certo un evento da solenne rievocazione. La inalbera la legione lombarda al seguito delle truppe di Napoleone che approfitta delle ingenue, quanto mal riposte, speranze dei patrioti italiani per creare nella penisola più Stati fantocci, asserviti agli interessi francesi.

Le repubblichette Cispadana e Cisalpina, successivamente unificate, non rappresentano un momento di liberazione ma di dominio semi-coloniale, una pagina infausta di storia nazionale. Aggiogato al carro francese questo novello Stato non avrà neppure la possibilità di fondersi con le repubbliche democratiche di Roma, Venezia, Napoli e Genova.

Napoleone intuisce nell'unità politica italiana una minaccia, un pericolo per l'egemonia francese e la contrasta intenzionalmente, ma non solo, per assicurare quanto veramente gli interessa (il consolidamento del suo dominio), non esita a cedere la gloriosa repubblica veneziana all'Austria. La condizione politica dell'Italia è efficacemente illustrata nel 1799 da Carlo Botta: «Spezzettata in numerose piccole repubbliche, l'Italia, questa bella contrada un tempo grande e fiorente, offre oggi soltanto l'aspetto squallido di membra sparse e prive di anima. Il pomo della discordia, questa volta, è stato diviso: la politica dei tiranni d'Europa ha suggerito loro questo salutare atteggiamento: la politica dei Triumviri di Francia ha conservato questa divisione funesta, per meglio dominare».

Sempre nel 1799 Eleonora de Fonseca Pimentel si prodiga di fugare l'ingenua fiducia di tanti patrioti italiani nella protezione francese, una fiducia talmente cieca da sconfinare nella servile imitazione della bandiera francese (unica variante l'azzurro con il verde della simbologia massonica), quella stessa che accompagna il dittatore straniero nelle depredazioni sul suolo patrio: «La Francia, dopo avervi conquistati e spogliati di tutte le vostre ricchezze senz'altra ragione che quella del più forte, non ha mancato di abbagliarvi con magnifiche e pompose parole, dicendo che, ben lungi dal volere assoggettarvi al suo gioco, ella vi faceva il generoso dono della libertà, e vi ha in seguito proclamati altamente popoli sovrani, indipendenti e liberi, e voi avete creduto di esserlo. Ma sarebbero estinti in voi tutti i lumi della ragione se non apriste gli occhi all'inganno e non conosceste che altro non avete ottenuto di sovranità e di governo repubblicano, che il vano nome e l'illusione delle forme e delle apparenze esteriori. Vedete i trattati che siete stati sforzati a sottoscrivere, e che vi legano servilmente al carro del dispotismo francese, e considerate lo stato di servaggio in cui dovete ora gemere. (...) Voi dovete ricevere ed eseguire ciecamente tutti i comandi della Francia e quelli de' suoi agenti e generali, che vi signoreggiano e vi spogliano a loro talento. Il Direttorio francese è quello che vi ha dato le vostre costituzioni, le vostre leggi, e ve ne ha ordinata imperiosamente l'esecuzione (...). Nelle vostre Repubbliche l'occhio non vede, anche dopo la pace, che un lutto universale, una asta desolazione, tutti i cittadini lacerati dall'incertezza e dal terrore, sempre soggetti ai capricci e al dispotismo del Direttorio francese, sempre alla vigilia di essere spogliati con nuove imposte degli avanzi delle loro fortune, ed i funzionari pubblici sempre in timore d'essere rimossi dai loro impieghi, scacciati arbitrariamente dai loro posti, perseguitati e proscritti».

Il lucido appello della napoletana de Fonseca ai patrioti dell'Italia settentrionale lacera impietosamente il velo delle interessate mistificazioni, ma resta purtroppo inascoltato.

E la borghesia ha vinto, e la bandiera arlecchina, serva prima dello straniero poi dei borghesi, ha garrito alla sconfitta del sogno repubblicano dei più grandi patrioti; all'immiserimento dell'ex-Regno delle Due Sicilie prostrato, per dirla con Gramsci, al rango di colonia interna.

Una sola parentesi positiva, la dittatura progressiva di Mussolini, ma una breve parentesi, amaramente scontata con un ripugnante sodalizio (alleanza italo-tedesca del '38) e una guerra che ha devastato corpi e anime, seguita a ruota dalla grande rivincita della triade del potere borghese (parlamentarismo come ricettacolo di corruzione, affarismo contra legem, criminalità organizzata) che imperversa ancor oggi.

La bandiera non è semplicemente un ritaglio di tela, essa raccoglie e magnifica le più elevate istanze del gruppo o movimento di riferimento, quelle che muovono alla conquista. I princìpi si incarnano e vivono nei simboli.

Un progetto è credibile quanto più chiaro, coerente, perseguito senza infingimenti, compromessi, tale da esternarsi, proiettarsi potremmo quasi dire, dall'intimo sentire in simboli, figure capaci di esercitare un formidabile potere evocativo, attrattivo, nel gruppo e oltre il gruppo. Il motto latino «In hoc signo vinces», dovrebbe far riflettere.

Un movimento incapace di sciogliersi dai simboli di un passato d'oppressione non può essere rivoluzionario, sufficientemente maturo nelle sue motivazioni. Questa è già una spia di valutazione. Ora, la causa dell'unità di tutto il popolo, nel superamento delle divisioni borghesi, non può essere portata avanti che da una bandiera di un sol colore, il rosso, inseparabile ormai, per uso inveterato, dal processo di liberazione collettiva. Ma il rosso porpora dei vessilli di Roma, colore della civiltà per antonomasia, sotto la cui egida tutti i popoli del mondo antico si sono affrancati dalla condizione di barbari; sono crollate le mura tra il popolo e tra i popoli, nella portata, evidentemente, della fattibilità storica. Significativamente la causa del popolo è, come già l'espansionismo dell'antica Roma, più che una rivendicazione, una missione, un impegno di fede nel progresso.

La valenza simbolica è magnificante. Il rosso porpora nasce nei paesi mediterranei come colore sacro associato al potere del sole e allo splendore della vita. L'aurora e il tramonto del sole «imporporano» il cielo. Porpora è parimenti il sangue, simbolo della vita che sgorga e fugge insieme ad esso.

Lo stesso concetto di imperialità come successo, gloria della politica, trova nel rosso porpora, specialmente a Roma, la sua manifestazione visibile. A Bisanzio, per esprimere più chiaramente il significato della porpora, si impreziosivano i tessuti imperiali con filettature d'oro che attiravano e rimandavano, in radioso fulgore, i raggi del sole.

La forza simbolica del rosso porpora, che tanta fortuna ha dato a Roma, è il più adatto alla causa del popolo. Oggi la vita avrebbe poco senso, valore, funestata com'è dalla lunga, luttuosa notte dell'idra plutocratica, se negli animi non operasse la certezza dell'aurora.

Giovanni Luigi Manco

 

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