da "AURORA" n° 40 (Aprile 1997)

L'OPINIONE

La speranza della libertà

G. L. M.


«L'umanità ha ancora molto più tempo davanti che dietro a sé -
come potrebbe quindi l'ideale restar prigioniero del passato?»
Nietzsche - Opere postume


Ecco un punto su cui riflettere. La nazione non è necessariamente e comunque un valore. Non lo è se le omogeneità culturali sono semplicemente abitudine, modalità espressive apprese e riflesse per assuefazione, avulse dal substrato fecondo, logico, che le informa e le predispone naturalmente a comprendere, tradurre in progettualità collettivamente condivisa, i problemi, le novità del presente.

Il popolo è solo apparentemente un'omogeneità se il «costume» ha lo stesso significato dell'esercizio integrativo dell'immigrato; sostanzialmente è una eterogeneità conflittuale, pronta a cavalcare irrazionalmente l'onda del malcontento, a scindersi in gruppi contrapposti. Se una contingenza occasionale può aggregare provvisoriamente volontà antagoniste, l'insorgere di una grave difficoltà torna a dissociarle. Quando la cultura nazionale è la manifestazione puramente esteriore, acritica, del continuum di esperienze storiche, risulta un peso, un ammaestramento che limita i movimenti, contrasta insopportabilmente la libera esplicazione del sé come un regolamento da penitenziario.

Riti, tradizioni, modalità comportamentali, divise dalla ragione informatrice, appaiono il ghigno pietrificato di una maschera nella mobilità della vita o, meglio, una rigida gabbia che limita pericolosamente la capacità conoscitiva e risolutrice dei problemi. La salvezza (se salvezza può esserci per un popolo «ammaestrato») può venire in questo caso solo dall'imitazione passiva delle soluzioni politiche escogitate da un popolo più sinceramente nazionale.

Il privilegiamento del passato in quanto tale, comune a tanti sclerotici nazionalisti, spegne la vita nazionale, inceppa le sue potenzialità propulsive. È sempre un abbraccio mortifero, la fideistica acquiescenza a muti segni del passato, ingombranti come un cumulo di detriti, di spazzatura, dal quale si leva un tanfo cadaverico di putrido, di muffa.

Poniamoci ora in una diversa prospettiva, guardiamo alla nazione come trama di esperienze interconnesse che si diramano dal nucleo primordiale di civiltà in un intreccio di posizioni dalle infinite possibilità di interazioni e combinazioni originali: scopriamo nella nazione una miniera di feconde potenzialità, predisposte a sbocciare, rispondere alle novità temporali, con la potenza di esperienze millenarie. La nazione non appare più un aggravio ma l'enorme lascito ereditario, il formidabile laboratorio culturale che moltiplica le possibilità, la crescita umana nei segni del tempo.

Ogni autentico meccanismo evolutivo, tanto di evoluzione biologica quanto di evoluzione sociale che a noi interessa, si deve basare sulla selezione positiva, critica, dei dati dell'esperienza storica, altrimenti non si ha né evoluzione né, tanto meno, progresso, ma soltanto un cammino cieco, un precipitare in uno stato di impotenza che assume il volto dell'asocialità, ora il volto della solitudine, ora quello della sconfitta, dove non si impara dall'esperienza.

Le strutture sono efficaci in quanto capaci di evolvere con la realtà. Per meglio intenderci diremo che la cultura nazionale non presuppone la conservazione di tutte le tradizioni. Una tradizione (o più) può essere abbandonata nonostante il successo registrato in passato ed, eventualmente, nonostante il potere economico sul quale fonda la vocazione egemonica, per quanto grande possa essere.

Nella cultura nazionale tutto è soggetto a modifica o superamento; di tutti i suoi caratteri nessuno è statico, neppure la lingua che in virtù delle esperienze dei movimenti sociali di base, dei mutamenti intellettuali, si arricchisce continuamente di parole ed espressioni nuove, adeguandosi alla crescita del popolo.

È un cammino, un andare avanti. A seconda dei casi può essere un cogliere, un mettere assieme, ma anche un lasciare, un abbandonare posizioni divenute anacronistiche, incapacitanti, e magari una riscoperta, un recupero di posizioni del passato più o meno remoto. Non si tratterà però di un recupero archeologico giacché la continua trasmissione di informazioni, sedimentazioni culturali, ne farà un prodotto nuovo.

Le esperienze degli avi vivono nelle nostre esperienze, le caratterizzano, vivono nel momento di consequenzialità. Valgono ancora per il nostro mondo percettivo benché vadano integrate con le acquisizioni successive. In un certo senso si potrebbe quasi parlare d'un DNA della nazione che la rende viva, suscettibile di imprevedibili sviluppi e conformazioni.

Condizione imprescindibile di socialità e libertà allora. Negare al popolo il suo specifico, le sue attitudini, cognizioni, la sua maniera di essere, significa negare innanzi tutto la libertà. Ed è vivendo la nazione che ha senso parlare di patria come dimora della libertà, bene prezioso da difendere anche con il sacrificio della vita.

Non accomuna il lascito ma il progetto di liberazione fondato sul lascito. La nazione ha il potere di liberare all'unisono, con la forza dell'entusiasmo, le energie creative, comunionistiche, della collettività. È sufficiente ricordare la struggente bellezza di una danza folcloristica per comprendere che lì non c'è semplicemente diversivo, simultaneità e coordinamento di movimenti, c'è soprattutto l'espressione visiva di una comunione religiosa ed è questa che affascina e commuove.

La patria unisce quando risulta elemento di creatività, germoglio e fioritura di semi piantati in passato. Dirò di più: il progetto creativo, collettivamente condiviso, può espandersi oltre i confini politici dello Stato, coinvolgere altri popoli per fascinazione, per deliberata scelta di compartecipare all'avverarsi di un sogno.

Una società non conflittuale, o che si avvia a divenire tale, è un modello ideale, fonte d'ispirazione per altri popoli. Il fallimento dell'internazionalismo proletario e la postulazione della via nazionale al socialismo assegnano al popolo che si autoemancipa il compito di aprire la strada alla rivoluzione globale sollecitando il rinnovamento istituzionale nelle altre nazioni, svolgendo un ruolo essenziale verso il superamento della logica del dominio. Se è vero che la libertà degli altri è condizione della libertà dell'uno, anche la libertà di tutti i popoli è condizione della effettiva e stabile libertà di un solo popolo. Un popolo autenticamente libero calamita naturalmente altri popoli, idealmente li ha già accolti.

Ogni nazione ha le potenzialità culturali per dare espressione alla più elevata organizzazione sociale possibile, relativamente alle conoscenze e tecniche produttive del momento, per cui il successo di un popolo è condivisibile con gli altri popoli. Il successo della nazione tanto più è grande tanto più può abbracciare il mondo intero. L'«Ubi bene, ibi patria» della saggezza stoica lascia intendere che la nazione nasce dalla aggregazione funzionale al soddisfacimento di primarie esigenze collettive. L'etnia è una forma spontanea di aggregazione ed è una nazione solo in potenza.

Ammettiamo allora, alla luce di queste considerazioni, che l'aver guardato a Mosca, nel recente passato, come alla nuova Roma, l'eletta patria di tutti i popoli oppressi, è stato un atteggiamento riprovevole in sé; sbagliato è stato l'aver persistito in una terribile illusione, l'aver sprecato formidabili potenzialità nazionali, ostacolando, di fatto, la speranza della libertà.

G. L. M.

 

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