da "AURORA" n° 40 (Aprile 1997)

QUESTIONI DELLA SINISTRA

Contraddizioni o sindrome di Stoccolma?

Giovanni Mariani

 

Se si guarda alla Sinistra italiana di fine millennio attraverso la lente d'ingrandimento si nota subito un crescendo di contraddizioni, fra loro antagoniste, tali da minarne l'identità. Anche se sarebbe opportuno, viste le differenziazioni, non parlare di Sinistra ma di varie Sinistre; quella neo-comunista di Rifondazione, quella ambientalista dei Verdi, quella cattolica dei Popolari e, per finire, quella del PDS, a metà guado tra socialdemocrazia di destra e partito liberale di sinistra. Comunque sia ogni singola componente, in qualche misura, tradisce i suoi elettori operando nella quotidianità politica in contrasto con quelli che sostengono essere i loro riferimenti politici, ideologici, culturali ed economici.

Nel caso di Rifondazione Comunista, ad esempio, le contraddizioni sono particolarmente evidenti; il suo stesso simbolo (voluto da Nicolino Bombacci al congresso di Livorno del '21), ereditato dalla Terza Internazionale, ha poco senso alle soglie del Terzo Millennio. In effetti stiamo parlando di un Partito comunista che non ha il coraggio di sconfessare apertamente Marx, Engels e Lenin pur mettendo in ombra Stalin, Ceausescu, Hoxha, Pol Pot, Mao e via elencando. Ciò già rappresenta una profonda contraddizione in termini. Ma la dicotomia tra la teoria e la prassi nel Partito di Bertinotti (ex-socialista lombardiano, convertitosi al marxismo in tempi relativamente recenti) e Cossutta si fa particolarmente evidente qualora la si confronti con i testi «sacri» del marxismo-leninismo che al momento Rifondazione non ha ancora messo all'indice.

Come ben si sa, la fiducia riposta nel suffragio universale da Lenin è ben nota ed Engels definisce categoricamente il suffragio universale «strumento di dominio della borghesia». La rivoluzione violenta era per Lenin un dovere al quale non ci si poteva sottrarre: «La sostituzione dello Stato proletario allo Stato borghese non è possibile senza rivoluzione violenta» ("Stato e Rivoluzione"). Ma le aporie più evidenti tra la linea politica dei Rifondaroli ed il dogma marxista non si limitano a questo. Ricordiamo, sempre a proposito di democrazia, alcuni concetti espressi da Vladimir Ulianov: «La democrazia è uno Stato che riconosce la sottomissione della minoranza alla maggioranza, cioè l'organizzazione della violenza sistematicamente esercitata da una classe contro l'altra, da una parte della popolazione contro l'altra». E Carlo Marx ha sostenuto: «Agli oppressi è permesso di decidere una volta ogni qualche anno quale tra i rappresentanti della classe dominante li rappresenterà e li opprimerà in parlamento». È evidente che la bontà della democrazia borghese riconosciuta da Rifondazione Comunista è letteralmente antitetica con le opinioni espresse dai «sacri maestri», i quali non facevano mistero della loro volontà di sopprimerla definitivamente.

A ciò vi è da aggiungere il bonario atteggiamento sul federalismo (anche se in una visuale molto, molto ridotta) che è fortemente antagonista con l'insegnamento di Lenin, il quale predicava «Marx è centralista» e nelle sue opere teoriche non vi è la minima traccia di rinuncia alla centralità dello Stato: «Soltanto gente imbevuta di una volgare fede superstiziosa dello Stato può scambiare la distruzione della macchina borghese con la distruzione dello Stato». Ci si potrebbe obiettare che questa è storia ormai antica, che comunque il Partito Comunista Italiano, come quello francese, aveva già preso le distanze dal marxismo-leninismo negli Anni Settanta e più in particolare nel 1976 allorquando rigettava la teoria della dittatura del proletariato (fin dal 1968 aveva ammesso il principio della pluralità dei partiti). Il PCI di quei tempi teorizzava che «attraverso la sempre più ampia partecipazione della classe operaia alla vita della società si sarebbe resa possibile la partecipazione dello Stato ai bisogni delle masse e quindi della loro organizzazione». Questa teoria propria alla strategia belingueriana enunciata nel celebre "Introduzione degli elementi di socialismo" era perfettamente conseguente all'idea togliattiana dell'allargamento dello spazio politico propugnata fin dalla famosa «svolta di Salerno». E pur non negando la necessità di prendere le distanze dal marxismo ortodosso non ha mai risolto quelle contraddizioni per le quali Rifondazione Comunista ha operato lo strappo dalla casa madre in seguito alla svolta occhettiana della Bolognina.

Comunque una domanda rimane senza risposta: perché il partito della Rifondazione non ha operato alcuna riflessione ideologica, non si è proposto in una nuova veste come, ad esempio, il Partito comunista russo di Ghennadi Ziuganov?

In questo caso, infatti, abbiamo assistito alla rinascita di un comunismo completamente rinnovato, immune dallo sclerotismo insito nel dogmatismo ideologico, arricchito di sentimenti religiosi e dal sentimento nazionale e da un anti-capitalismo che è, prima di ogni altra cosa, decisa opposizione alla mondializzazione, conscio della necessità di salvaguardare lo Stato nazionale e di liberarsi del pesante fardello del materialismo storico. Un comunismo, in sintesi, che storicizza l'esperienza sovietica, criticandola ben aldilà di quanto comunemente si creda, al solo fine di salvaguardarne alcuni princìpi di fondo.

Uno sforzo sul quale Rifondazione non si è impegnata; essa mantiene viva di fatto l'idea internazionalista con tutti i limiti in essa presenti e continua a screditare il concetto d'indipendenza e interesse nazionale (che fra l'altro risulta essere uno strumento ben più valido dell'internazionalismo in specie se ci si intende opporre non solo con le chiacchiere all'affermarsi della globalizzazione mondialista) ancora qualificati come strumenti del capitalismo o peggio della reazione nazionalistico-borghese.

Né, per altro, Rifondazione ha operato degli sforzi per riappropriarsi delle esperienze pre-marxiste e non-marxiste del socialismo europeo. Si potrebbe affermare che i neo-comunisti pur non rinunciando all'esperienza marxista-leninista ne rinnegano sistematicamente la prospettiva economica, essendo un'entità politica priva di una specifica strategia antagonista in questo campo. Per comunismo si intende anche «comunità dei beni», ossia un sistema in cui le risorse sono di proprietà comune ed equamente suddivise. E come ben si sa per raggiungere questo obiettivo vi sono solo due strumenti: l'economia di piano e l'autogestione. L'economia di piano è stata storicamente un fallimento e non solo rispetto all'economia di mercato ma anche perché essa ha mancato tutti gli obiettivi, sempre resi impossibili da fattori imponderabili ai quali l'economia pianificata non ha saputo far fronte efficacemente. L'autogestione, invece, ha rappresentato la grande utopia del comunismo «realizzato». Sempre reclamata, quasi mai applicata. In teoria avrebbe dovuto essere il raggiungimento della «piena democrazia» in tutti i campi dell'attività sociale: dall'insegnamento all'urbanistica, dall'economia alla cultura. In pratica essa è una democrazia diretta ostile all'impresa privata in regime capitalistico quanto alla gestione statalista dei mezzi di produzione.

Non sono poche le similitudini tra cogestione ed autogestione, anche se quest'ultima si differenzia in quanto propugna la soppressione del sistema capitalista, della proprietà privata e del profitto individuale.

La cogestione invece non implica assolutamente l'eliminazione della proprietà privata dei mezzi di produzione ma la allarga al più vasto insieme dei produttori. Questo sistema non ha mai trovato nella realtà una adeguata realizzazione, perché se è vero che fra i padri dell'autogestione possiamo citare Proudhon e Marx, i suoi realizzatori si divisero tra quanti ritenevano possibile attuarla all'interno del sistema capitalista (i «Kibbutz» israeliani) e coloro che ritenevano indispensabile una cornice statuale socialista (Algeria ed Jugoslavia) infinciandone in parte le potenzialità originarie.

La cogestione risulta invece indigesta alla Sinistra in virtù della sua matrice storica fascista. Quindi i neo-comunisti si trovano nella impossibilità di proporre le prime due in quanto questo significherebbe pretendere la soppressione della proprietà privata e non sono in grado, per chiusura mentale e limiti culturali, di andare oltre lo sterile anti-fascismo, di stampo «ennesima contraddizione azionista-borghese», aprendosi alla cogestione dei mezzi di produzione. La «confusione» delle strategie economiche dei rifondaroli è palese (basti la considerazione che il responsabile economico del Partito di Bertinotti e Cossutta è l'ex-banchiere socialista Nerio Nesi, presidente della Banca Nazionale del Lavoro all'epoca dello scandalo della filiale di Atlanta): i neo-comunisti hanno da tempo rinunciato ad un progetto economico antagonista al libero mercato. Da questo punto di vista risulta perfino arduo qualificarli come comunisti. A nostro parere si tratta di una frangia della sinistra socialdemocratica e in questo senso la falce e il martello sono inadeguate e pretenziose. Considerando anche che i «comunismi» esistenti: cubano, cinese, vietnamita, nord-coreano (un po' meno quest'ultimo) procedono a passo di carica sulla strada dell'accettazione del libero mercato e della globalizzazione economica.

I problemi della sinistra neo-comunista non sono esclusivamente ideologici, ma anche sostanziali, in quantochè essi si limitano a contestare gli assetti oggi esistenti con azioni di tipo para-sindacale incentrate su correttivi e sulla difesa ad oltranza dello status socio-economico di alcune categorie ed in ciò non possono nemmeno dirsi progressisti. Tutti sanno che le sedicenti lotte sociali di Rifondazione vanno in tre direzioni:

a) la salvaguardia delle garanzie acquisite del mondo del lavoro (salario, scala mobile);

b) difesa dello Stato sociale, in concreto schierandosi a difesa del modello statuale affermatosi grazie al regime fascista;

c) mantenimento dell'economia pubblica e della capacità di intervento in questo settore vitale dello Stato (con questo difendendo un modello economico che mosse i primi passi con Giolitti e che fu realizzato da Mussolini).

Pur concordando sulla sostanziale bontà di queste battaglie vi è da rimarcare che il tutto si limita alla difesa dell'esistente. Insomma, Rifondazione non ha, come si diceva, un progetto dinamico da opporre al trionfante capitalismo e si limita ad una battaglia di retroguardia difendendo realizzazioni economico-sociali altrui (Fascismo, e governi DC del dopoguerra) spacciandoli per proprie conquiste.

Nulla di radicalmente contrapposto, né di comunista. Per cui si può affermare che i neo-comunisti, ideologicamente, si nutrono essenzialmente del mito resistenziale e del conseguente anti-fascismo (pur difendendo le realizzazioni sociali del Ventennio). Rifondazione maschera queste pesantissime contraddizioni attraverso l'esaltazione delle tematiche terzomondiste che hanno buona presa su una larga frangia di giovani e nel variegato magma dei centri sociali. Ovviamente anche questo mito è del tutto relativo.

Il terzomondismo comunista che mosse i suoi primi passi con la nascita del policentrismo in seno al comunismo internazionale con l'avvento della Cina al rango di grande potenza, nella migliore delle ipotesi è stata una finzione propagandistica e nella peggiore uno strumento della politica di potenza dell'Unione Sovietica e della Cina stessa. Inutile qui sottolineare che l'internazionalismo aveva già dichiarato bancarotta fin dal '14 (allorquando i partiti aderenti alla Seconda Internazionale mancarono all'impegno solennemente e reciprocamente preso d'opporsi con tutti i mezzi allo scatenarsi del Grande Conflitto e finendo invece con l'appoggiare lo sforzo bellico dei singoli Stati nazionali) e che nel '43 lo scioglimento del Cominter altro non fu che la pietra tombale del super-nazionalismo staliniano sulle velleità internazionaliste delle ormai marginali frange leniniste. I partiti comunisti, per la verità, non sono mai riusciti a mantenere saldo e vitale un organismo centralizzato che riuscisse a coordinare il movimento internazionalista. Del resto, lo stesso Togliatti fu sostenitore, nelle tesi sul Policentrismo, nel celeberrimo "Memorandum di Yalta" della necessità di articolarsi in diversi assiemi regionali determinati dall'analogia delle situazioni nelle quali i singoli partiti comunisti si trovavano ad operare. Ma anche il Policentrismo fallì i propri obiettivi divenendo col tempo una semplice linea di demarcazione tra interessi filo-russi e filo-cinesi, con conseguenze drammatiche allorquando (1979) il Vietnam filo-sovietico invase la Cambogia di Pol Pot filo-cinese. E a ben analizzarne i risultati fallì anche l'euro-comunismo di Enrico Berlinguer in quantochè i partiti comunisti occidentali più importanti, italiano, francese, spagnolo e portoghese non furono mai d'accordo tra loro e finirono col minare il progetto sul quale tutti sostenevano di credere.

L'internazionalismo comunista, per parafrasare Mao, è stato solo una «tigre di carta» che, di questi tempi si regge unicamente (e strumentalmente) solo sulla situazione cubana e di qualche partito semi-clandestino del Centro e Sud America e sul mito, strumentalizzato, di un Che Guevara. Per quanto concerne Cuba è noto che la trasformazione della lotta d'indipendenza nazionale dei Barbudos di Castro in lotta comunista avvenne in un contesto geopolitico molto particolare e la necessità di appoggiarsi al gigante sovietico non fu dettata da considerazioni ideologiche ma dall'urgenza di contrastare le pretese egemoniche statunitensi. Che poi Rifondazione voglia mantenere accesa la fiaccola internazionalista, esaltando anche oltre gli indubbi meriti la lotta virtuale del Comandante Marcos, evidenzia l'inconsistenza dell'internazionalismo comunista in un quadro nel quale esso è relegato a rapporti tra entità politiche marginali al massimo capaci di sporadici atti di terrorismo e di guerriglia nelle più remote regioni dell'impero statunitense.

Rifondazione è in realtà rivoluzionaria a parole e socialdemocratica nei fatti ed attua una prassi politica conservatrice legata ad un mondo che non esiste più, con l'aggravante di non riuscire a colmare il vuoto prodottosi con la cadute delle certezze ideologiche attraverso una nuova e convincente politica antagonista. La stupidità politica di Bertinotti si è mostrata in luce solare in occasione della crisi albanese ed il suo atteggiamento anti-italiano ed anti-europeo finisce col fare l'interesse non solo di quelle forze di destra nazionali che sostiene di voler contrastare, ma anche quelli degli Stati Uniti ai quali il fallimento dell'iniziativa italiana aprirebbe la possibilità di intervenire in Albania stabilizzandola in funzione dei suoi interessi che non sono certo quelli degli italiani, a qualsiasi ceto sociale appartengano.

Il PDS, al contrario è, come già si diceva, una forza politica a metà del guado ed il Congresso di febbraio l'ha ampiamente dimostrato. Semplificando, si possono individuare all'interno del Partito post-comunista tre differenti anime: i «veltroniani», detti anche «ulivisti»; una scuola di pensiero a sé stante, piuttosto che una corrente tradizionalmente intesa. La quale si manifesta come una riproposizione, per certi versi obsoleta, del pensiero progressista anglosassone e precisamente della sua versione kennedyana. Riteniamo che la sintesi kennedyano-blayriana del quale è portabandiera l'attuale vice-Prodi può essere il cancro mortifero della Sinistra tutta. La concezione «liberal», oltre a non aver nulla, tradizionalmente, da spartire con le sinistre europee, è lontana anni luce dalla forma mentis che ha storicamente informato sia il socialismo che la socialdemocrazia. Non può non identificarsi in questa «scuola di pensiero» la corrente di destra del PDS in particolare nel versante economico dei suoi enunciati. E se al momento la deriva «anglosassone» sembra contenuta dalla lucida iniziativa di D'Alema abbiamo ragione di temere che così non sarà nell'immediato futuro. Tanto più che un partito com’è il PDS, prodotto diretto e indiretto del marxismo, avverte l'urgenza di colmare il vuoto ideologico prodotto dal frantumarsi della illusione comunista, senza che questo, nell'ultimo lustro, abbia pensato e prodotto nuovi modelli, solo prospettando una serie infinita di giustificazioni sociali e storiche sul fallimento marxista, ma non spingendo l'«autocritica» sino a rivalutare le anime della sinistra diverse e contrapposte al marxismo-leninismo che pure hanno un loro non indifferente peso nella storia italiana ed europea dell'Otto-Novecento.

Nulla meglio dell'ideologia «liberal» può essere assunta in dosi massicce, per «clonazione», senza la necessità di alcuna critica preventiva anche, o proprio, in virtù del fatto che essa è uno dei mezzi di penetrazione ideologica della Superpotenza americana.

E se D'Alema è costantemente impegnato a «frenare» la riottosa sinistra e i nuovisti «veltroniani» attraverso un «centrismo» di marca togliattiana mantenendo un certo equilibrio tra «liberal» e «socialdemocratici» ci pare che ciò gli riesca grazie alle sue doti carismatiche che in virtù di un consenso alla sua linea politica ragionato e digerito.

L'ala socialdemocratica, organizzatasi quale sinistra dell'Ulivo altro non è se non l'ennesimo ponte tra PDS e Rifondazione Comunista. Essa contesta, seppure «civilmente», le scelte congressuali. Più precisamente dissente dall'eccessivo verticismo burocratico dello staff dalemiano (che porterebbe alla soppressione della democrazia interna) e dalla sterzata «realista» del Segretario nazionale sullo Stato sociale e su temi «spinosi», per la sensibilità degli ex-comunisti, come la flessibilità del lavoro. E se da un lato la sinistra spera in D'Alema per tenere a bada la componente liberal, dall'altra, bontà delle contraddizioni «secondarie» di leninista memoria, gli oppone un frazionismo interno dichiarato. Lo scontro in atto nel PDS è, al di là dei toni, molto acceso. Da una parte il «vecchio» modo di essere del PCI-PDS fino al '92/'93 informato ad un flebile e formale modo di essere socialisti, dall'altro il nuovismo veltroniano che intende proiettare il maggior partito della Sinistra in prospettive liberal. Il pericolo che deriva da questo scontro coinvolge il futuro di tutta la sinistra italiana. Un mutamento radicale della prospettiva politica pidiessina non mancherà di influenzare le altre forze che, seppure tra mille contraddizioni, alla sinistra fanno riferimento. Del resto, proprio il Congresso dell'EUR ha messo in mostra alcune non comprensibili titubanze della segreteria. Fino a pochi mesi or sono, infatti, la nota dominante del dibattito a sinistra era il varo della cosiddetta «Cosa 2», che altro non era che il tentativo di unificare le varie anime della sinistra socialista associandole in un unico raggruppamento col PDS.

Tentativo che se coronato da successo avrebbe sancito un'inversione di tendenza in una Sinistra la cui litigiosità ha lungo tutto il Ventesimo secolo prodotto una serie infinita e sanguinosa di drammi. La riunificazione della tradizione socialista a quella di derivazione marxista-leninista è purtroppo abortita anche grazie alla deriva moderata di larga parte dei microcosmi socialisti più impegnati a tutelare i propri cadreghini parlamentari che a ridare vitalità e slancio al socialismo. E pur rimarcando le responsabilità, in questo fallimento, dei vari Boselli, Del Turco, Martelli non va sottovalutato l'ostracismo sarcastico di Veltroni (: È un'operazione che andava fatta nel '56! Oggi è anacronistica!) e comunque la volontà dei «moderati» dell'Ulivo di fare tabula rasa di ogni precetto economico non in linea col più mostruoso e becero individualismo. Il duro intervento della polizia contro i disoccupati napoletani e le giustificazioni a questo grave episodio contenute nell'intervento alla Camera dei Deputati dell'ex-migliorista Napolitano riflettono molto bene quale sia il grado di confusione della Sinistra. Le contraddizioni emerse al Congresso dell'EUR sono macroscopiche e si può tranquillamente affermare che persino di socialdemocratico, nell'attuale comportamento di frange consistenti del PDS, vi sia ben poco. Al contrario si può, in questi atteggiamenti, individuare una vera e propria «Sindrome di Stoccolma» che attraversa il partito di D'Alema, ostaggio dei moderati dell'Ulivo, che lo costringe ad abbracciare coscientemente o meno la causa liberale e liberista.

Per quanto riguarda lo Stato sociale, ci pare, le premesse per un suo progressivo smantellamento ci sono tutte e il PDS le ha in buona misura fatte proprie, anche se l'assise congressuale ha frenato su questi temi, ipotizzando una «riforma del Welfare» onde adeguarlo alle mutate condizioni sociali ed economiche. Ma quali sono queste riforme, qual'è il limite invalicabile, oltrepassare il quale per una forza di sinistra significherebbe qualcosa di più e di peggio che tradire i suoi referenti elettorali? Può D'Alema rinunciare, a cuor leggero, in nome della «governabilità» dei «parametri di Maastricht», allo «spirito» della sinistra nel quale la tutela dei ceti sociali più deboli è il punto fondante? Certo alcune considerazioni espresse da non secondari uomini della Quercia sulla proposta di riforma della Commissione Onofri (: tagli alle pensioni, all'assistenza, alla sanità, alla cassa integrazione) fanno sorgere più di un dubbio!

È evidente che la riforma del Welfare, così come la prospetta, ad esempio, Walter Veltroni non si discosta molto da quanto sulla stessa materia sostiene biecamente la destra. Non si tratta di un organico piano di rinnovamento pensato all'interno di una logica sociale di sinistra, ma piuttosto di una serie di tagli indiscriminati alla spesa pubblica dettati da un rigorismo economico profondamente liberista, che comunque poco incide sul versante degli sprechi e delle regalie dello Stato assistenziale di democristiana memoria.

La sinistra si è convinta che il risanamento economico è possibile solo attraverso la rigida applicazione delle ricette liberiste. Questo emerge in luce meridiana nelle candidature alle amministrative del 27 aprile, con candidati come Fumagalli a sindaco di Milano, ove la deriva economicista di cui è preda la politica italiana arriva a contrapporre l'ex-presidente dei giovani industriali al presidente di Finmeccanica. Saranno ben contenti gli uomini di Confindustria di avere ammansito la Sinistra al punto che essa ritiene i suoi uomini i candidati naturali per post-comunisti ed ex-socialisti!

La «discesa in campo» di Silvio Berlusconi, alla lunga, sembra aver prodotto il micidiale effetto dell'imprenditore sempre e comunque preferibile al politico. La società civile, dunque, ormai vista come una normale azienda in cui conta solo un dato, quello economico!

Con questo non vogliamo negare il nostro positivo giudizio sull'evoluzione del PDS che si è finalmente disfatto del pesante e fallimentare fardello delle teorie economiche marxiane ed in questo i post-comunisti hanno avuto maggior coraggio del demagogo Bertinotti ancora arroccato su posizioni conservatrici. Ma il pericolo che corre il partito della Quercia è quello di avvitarsi su se stesso, dando una mano alla destra anarco-liberista che non fa mistero dell'obiettivo di riportare in economia modi di essere e rapporti di forza di inizio Novecento.

Accettare l'economia di mercato, non può significare privatizzare ad ogni costo, ne vuol dire sposare la tesi conservatrice della supremazia del privato sul pubblico. Ciò, caro D’Alema, non è neanche socialdemocratico se è vero che, per dirla con Bernstein, socialdemocrazia è «un partito di riforme sociali e democratiche in una pratica politica parlamentare e lontana da ogni obiettivo rivoluzionario». Rispetto a quanto sostiene Bernstein, il PDS può almeno ritenersi un partito socialdemocratico?

La linea anti-statalista del PDS non è già di per sé anti-socialdemocratica! Se è vero, come è vero, che il pensiero socialdemocratico ritiene che sia lo Stato il garante diretto della eticità delle riforme sociali e degli indirizzi economici intrapresi. È lo Stato che detiene l'amministrazione della cosa pubblica, organizza la scuola, la sanità, la previdenza sociale ed interviene per regolare i contrasti tra sindacati ed imprenditori fungendo da mediatore delle tensioni sociali. È lo Stato in un sistema socialdemocratico che mantiene nella sua sfera le attività economiche che rivestono carattere sociale e strategico per la vita della nazione e giunge ai suoi obiettivi attraverso riforme pensate dalla politica ma direttamente gestite dagli Enti statali. Ben diversamente dall'attuale sistema, nel quale i cambiamenti sono pensati nei santuari del capitalismo e vengono affidati a tecnocrati ed imprenditori prestati alla politica. Ed è difficilmente contestabile che nelle proposte economiche elaborate dal PDS poco vi sia di elaborato dalle «teste d'uovo» del partito e molto, o tutto, da esponenti dell'area liberista moderata assurti a consiglieri del «principe».

Il PDS va assumendo le caratteristiche di un partito liberale di sinistra, e ciò si evince con chiarezza sia dai programmi economici di orientamento liberale, sia dalla manifesta volontà di porre progressivamente lo Stato fuori dalle questioni economiche e, dulcis in fundo, dalla febbre privatizzatrice che lo pone tra i tardivi emuli dei Ronald Reagan e delle Margaret Thatcher. Non è una boutade affermare che oggi si può considerare più socialdemocratico il Sommo Pontefice che il partito di D'Alema; di questo partito la più congrua definizione ci pare questa: partito della sinistra liberale con al proprio interno una corrente socialdemocratica.

Il Partito Popolare può, grosso modo, essere identificato come l'ala sinistra della vecchia DC, quindi di uno schieramento di centro. Può quindi il partito di Marini essere ritenuto di sinistra? Sicuramente no! Anche se al suo interno esiste una corrente della sinistra cattolica che per la sua specificità va analizzata.

Innanzitutto vi è da porsi un quesito: quanto della vecchia Democrazia Cristiana vi è nel Partito Popolare? Indubbiamente molto, a cominciare dagli uomini che la rappresentano; Mancini, Andreatta, Bianco, Marini, Rosi Bindi, per finire con le aree sociali e geografiche di riferimento; il basso Lazio, l'avellinese, il salernitano, il beneventino e alcune zone del Veneto. E nonostante gli sforzi devoluti per un rinnovamento generale delle formule politiche molto vi è di riconducibile alla onnivora ideologia della Balena Bianca.

Sotto l'aspetto economico essi sono gli eredi della lunga stagione caratterizzata dalla prassi economica neo-corporativa, assistenziale e clientelare che fu della DC. Eredità che non sembra creare eccessivi imbarazzi ai Popolari che a prima vista non sembrano risentire, più di altre forze politiche, dei cambiamenti socio-economici in atto. L'ascesa di Marini e il pensionamento di Bianco hanno comunque modificato la linea politica del Partito, tanto che a tratti sembra che gli eredi della DC abbiano sotto certi aspetti scavalcato a sinistra il PDS dando centralità politica all'inclinazione cattolica di non subire passivamente i diktat imprenditoriali. Per questo, e a più riprese, si è parlato di flirt tattico tra Bianco e Bertinotti; autorevoli editorialisti si spinsero al punto di definire la politica di Bianco di «sponda» a quella di Rifondazione.

Con l'elezione di Marini le cose sembrano mutare e l'asse della politica economica dei popolari riconverge al centro. Infatti, Marini con più vigore di Bianco tenta di collegare la sua politica a quella della Quercia e le sue più recenti dichiarazioni lo fanno capire con più evidenza: «la politica economica del PPI è in perfetta sintonia con quella del PDS, siamo uniti in tutto, anche sulle riforme e in particolare sulle privatizzazioni ...».

È quantomeno strano che questa decisa sterzata al centro sia capitanata da un ex-sindacalista, anche se va sottolineato che nell'attuale fase non vi è da stupirsi di nulla. Eppure, per certi versi, non ultime le frequenti prese di posizione di Giovanni Paolo II in tema di socialità e di condanna alla deriva liberista, la sinistra cattolica dovrebbe rappresentare una sorta di argine naturale alla deriva incombente del neo-liberismo anglosassone. In parte per ragioni, come si diceva, sociali e in parte per ragioni storiche di natura economico-religiosa (la diversa concezione del capitalismo e della proprietà nelle visioni protestante e cattolica) sedimentatesi nel tempo. Sotto questo profilo si può dire con sicurezza che l'ultima sinistra ad arrendersi all'avventurismo economicista e alla decadenza morale dello spirito liberal d'Oltreoceano sarà proprio quella cattolica. In ogni caso, la speranza che i cattolici siano l'ultima «ridotta» avversa alla globalizzazione dell'economia non ci esime dall'evidenziare la sostanziale continuità che lega il PPI alla sinistra democristiana entrambi essendo l'espressione dell'economia tecnocratica di Stato. Il partito di Marini, nella sostanza, non è portatore di un contributo innovativo e si accontenta di mantenere ben salda la sua posizione in alcuni feudi del vecchio apparato assistenziale e in quello dell'economia pubblica più devastata.

Per quanto attiene la Sinistra ambientalista, l'elezione dell'on. Manconi a portavoce dei Verdi ha appannato ancor più l'immagine, già gravemente compromessa, del movimento. Con ciò non intendiamo rivalutare la stagione di Vittorio e Marina Ripa di Meana, ma sicuramente Luigi Manconi è quanto di più lontano vi può essere dalle tematiche ambientaliste all'interno del parlamento italiano. L'uomo, in fondo, è rimasto quello che era ai tempi del «servizio d'ordine» di Lotta Continua e privilegia nei suoi discorsi, nelle sue interviste, nei suoi frequenti interventi da tuttologo, tematiche sociologiche radicaleggianti, nelle quali poco vi è di attinente sia alla salvaguardia dei beni ambientali e culturali che alle urgenze sociali. L'ex-articolista de "l'Espresso" continua a privilegiare argomenti concernenti i Centri Sociali e l'immigrazione e ci domandiamo fino a che punto questo «dualistico» e martellante tema del Manconi abbia attinenza con la linea politica del movimento ambientalista. Manconi appare sempre più un giocoliere che tenta di mantenere in equilibrio su due tavoli, quello di Rifondazione e quello del PDS, il vuoto incartato che oggi gli ambientalisti italiani si sono ridotti ad essere. La recente manifestazione anti-governativa di Brindisi alla quale ha partecipato il Ministro Ronchi, rende l'idea di quanta confusione alberghi in questa forza politica passata senza scossoni dalle nudità cadenti della Marina al nulla narcisistico del sociologo sassarese.

Una Sinistra preda della contraddizioni che si manifestano tra l'altro in termini chiaramente antagonisti sia all'interno di Rifondazione, dei Verdi che del PDS. Ciò è in parte dovuto alla repentina caduta delle certezze che seppure sempre in misura minore venivano dal blocco sovietico e in parte al coinvolgimento della sinistra nell'affaire Tangentopoli. Entrambi questi fattori hanno accelerato il processo di revisione già in atto nella sinistra portandola allo smarrimento. Logica dello «smarrimento» già innescata, a suo tempo dalla «Svolta di Salerno»; il Fronte Popolare e la scissione socialdemocratica che ne è seguita ma che l'equilibrio imposto dalla Guerra Fredda aveva in qualche modo congelato. Così il definitivo venir meno delle certezze marxiste ha portato allo smarrimento ideologico ed al precipitare nella «Sindrome di Stoccolma», ossia nella ossessiva esaltazione dei suoi nemici di ieri. L'addio a Marx ha voluto dire abbandono ad ogni riferimento storico e culturale della sinistra laica e non marxista se si esclude il pallido tentativo di Craxi di recuperare Proudhon, che d'altronde era solo una polemica alternativa socialista a Marx e ai comunisti. Secondo noi quella era la strada giusta, anche se le intenzioni di Craxi erano altre che non il recuperare all'attualità politica il pensiero del socialista francese. Una sinistra zoppa, come è stata qui recentemente definita, restia a recuperare la dimensione nazionale del divenire storico, frettolosamente patriottarda per esigenze «di copione» nella vicenda albanese. Una sinistra, soprattutto, in tutte le sue sfaccettature, conservatrice in quanto rinuncia a darsi obiettivi veri di cambiamento e si accontenta di proporre riforme che altro non sono che accorgimenti atti a far meglio funzionare il sistema eretto dai suoi nemici di sempre. Una sinistra zoppa perché rinunzia a portare avanti la democratizzazione dell'economia, lasciando le leve del potere economico, di conseguenza politico, interdette alle classi popolari anche per il futuro.

La corsa verso il centro si traduce in un vero e proprio passaggio dell'eredità socialista a quella liberale e ad un frettoloso e vile abbandono dei ceti sociali più deboli. Tutto ciò appare ancor più paradossale se si pensa ai milioni di disoccupati nell'Europa Occidentale che dovrebbero essere la cartina di tornasole dell'efficacia della deriva neo-liberista quanto i funesti risultati di una globalizzazione dei mercati svincolati da ogni regola destinati a favorire i ceti abbienti per questo motivo decisamente contrari a favorire qualsiasi forma di garanzia sociale e sindacale (basti pensare all'affluenza di imprenditori italiani nella Slovacchia dovuto a tre fattori essenziali: stipendio medio 250 mila lire, ore lavorative settimanali 42, indennità di disoccupazione 2 mesi).

L'ottimismo mercantilistico di cui è pervasa la Sinistra è infondato anche per altre ragioni: difficilmente le «bacchette magiche» dei tecnocrati liberisti potranno invertire l'attuale situazione; non vi sarà un repentino allargamento del ceto medio, al contrario tutto lascia supporre un progressivo e inesorabile depauperamento proprio di quei ceti per loro natura «moderati» e «centristi». La compagnia dell'Ulivo potrà vincere anche in futuro, ma solo finché non vi sarà nulla di meglio schierato in campo.

Giovanni Mariani

 

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