da "AURORA" n° 41 (Maggio - Giugno 1997)

APPROFONDIMENTO

Marx contra Marx

Francesco Moricca

 

La chiave di volta del sistema marxiano, che resta comunque filosofico persino negli approdi economicistici finali, è da ricercarsi nella funzione dialettica esistente fra «struttura» e «sovrastruttura»: la prima essendo costituita dai rapporti vigenti in un'organizzazione economica storicamente determinata, la seconda dalle forme «ideologiche» corrispondenti (religione, arte, filosofia, scienza ecc.). Il rapporto «struttura»-«sovrastruttura», variamente evidenziato ed approfondito ma sempre presente e sempre presentato con coerenza concettuale invariata, è alla base di opere fondamentali come la "Critica dell'economia politica" (soprattutto nella Prefazione), "L'ideologia tedesca", la "Miseria della Filosofia", i molto studiati e discussi "Grundrisse" nonché "Il Capitale".

Onde chiarire al Lettore la definizione marxiana del nesso di «struttura» e «sovrastruttura» secondo il cosiddetto «materialismo storico», trascriviamo il passo seguente della "Miseria della Filosofia": «Quegli stessi uomini che stabiliscono i rapporti sociali conformemente alla loro produttività materiale, producono anche i princìpi, le idee, le categorie, conformemente ai loro rapporti sociali. Così queste idee, queste categorie sono tanto poco eterne quanto le relazioni che esse esprimono. Sono prodotti storici e transitori» (cors. dell'Autore).

Per capire correttamente il significato del passo e la sua forte caratterizzazione «dialettica», metafisica in senso positivo nonostante tutto, come meglio vedremo in prosieguo, bisogna ricordare che Marx concepisce la dialettica reale, quale essa effettivamente si dispiega nella storia, come la causa prima, di una duplice contraddizione fisica e in pari tempo metafisica: «primordiale e irriducibile» nel senso in cui i filosofi greci intendono la «natura», di cui, come «ananke», partecipano gli stessi «dei». La duplice «contraddizione» in parola è quella che oppone l'umanità alla «natura» («lotta contra la natura»), e quella che oppone, all'interno del «genere» umano, individuo a individuo, ovvero, storicamente, una «classe» di individui a una altra «classe» («lotta di classe»). Quindi la interazione ai «struttura» e «sovrastruttura» è sempre condizionata da questi due aspetti della «dialettica»: la «lotta contro la natura» e la «lotta di classe».

Di più, la «dialettica» può essere intesa come trascendente l'intero divenire storico, la sua «immanenza» materialisticamente concepita e vivente, in quanto, secondo l'insegnamento hegeliano da Marx ed Engels mai rinnegato, trapassa da una fase bruta, irriflessa, crudamente naturale, ad una fase in cui viene progressivamente controllata e dominata dall'uomo; per cui essa si «umanizza», come se la sua «necessità» tendesse al limite a coincidere con la sua «libertà» che è quella stessa dell'uomo, senza però mai coincidervi -è da osservare- perfettamente, nemmeno nel «comunismo» escatologicamente realizzato, perché in tal caso si verificherebbe «ad litteram» la fine di tutto, il collasso e per così dire l'implosione parallela dell'essente e dell'esistente. Tuttavia per Marx il comunismo come prospettiva escatologica è l'unica possibilità di superamento dei limiti riconosciuti come sostanzialmente insuperabili dal contrattualismo più serio che per lui si situa «dialetticamente» fra Hobbes e Kant e la cui condizione di realizzazione è uno sviluppo della scienza e della tecnica tale da consentire al «genere» umano di vincere la «lotta contro la natura», quella «penuria di beni» atti a soddisfare i «bisogni» di tutti gli individui che costituiscono il «genere» umano, la quale è all'origine del «bellum omnium contra omnes», dell'«insocievole socievolezza» e del «male radicale» individuati da Kant, della «lotta di classe». Grazie tuttavia al suo hegelismo di fondo, Marx si guarda bene dal fare della scienza un feticcio. Alla scienza illuministicamente e positivisticamente intesa contrappone ancora e sempre, e soprattutto nel "Capitale", la «filosofia», epperò nella sua veste «pratica» che, è la politica. Così la politica «fa vendetta» della scienza per conto della filosofia, potremmo azzardare chiosando Marx dal nostro personale punto di vista.

Da questa rapida sintesi del sistema marxiano dovrebbe con passabile chiarezza emergere il fatto essenziale su cui verte il nostro discorso: che cioè, nonostante il suo materialismo e il suo economicismo, Marx non ignora affatto il concetto di trascendenza nel suo significato meno accademico, che non è soltanto «problematico» nel senso del problematicismo di marxisti dello spessore di Antonio Banfi, ma è estremo, il che vuol dire estremistico e qualcosa di più. La «dialettica» marxiana, cioè, è la trascendenza stessa nell'atto di «immanentizzarsi», prima come «spontaneità» delle forze «naturali» agenti fino a quando non viene «superata» senza residui la «lotta di classe» nella utopica società «comunista», poi come consapevolezza umana che umanizza quella spontaneità, non tanto nel senso che la rende meno feroce ma che la domina con l'intenzione -a nostro avviso «utopistica» secondo l'accezione riduttiva del termine- di distruggerne la ferocia nel finale approdo «comunistico» della storia. Epperò, quella che per noi è la cattiva utopia comunistica, denota positivamente il carattere estremo della trascendenza marxiana, in quanto prospetta che, grazie all'azione della «natura umanizzatasi», attraverso la scienza e la tecnica umane, la natura finisce inconsapevolmente con l'auto-distruggersi. Il che significa che Marx riesce anche a superare il suo stesso «materialismo storico», affermando la sostanziale negatività della «natura», in ciò pervenendo alle medesime conclusioni del Pensiero Tradizionale. Dal quale tuttavia diverge radicalmente, quest'ultimo negando la credenza e anzi la fede, che la natura possa autodistruggersi attraverso la naturalità dell'uomo, l'uomo essendo per il Pensiero Tradizionale anti-natura in quanto si vuole libero fino a pensare se stesso, del tutto arbitrariamente, «come un Dio». Dunque, per il Pensiero Tradizionale, è l'uomo che distrugge la natura, non certo nel senso denunciato dal cosiddetto «ambientalismo», ma nel senso che si emancipa, attraverso la disciplina ascetica, da tutti i condizionamenti naturali fino al punto di «spegnere il desiderio», di ignorare la «penuria», dominandoli e controllandoli razionalmente piuttosto che ridursi alla stregua di loro passivo agente e «marionetta». Secondo questo punto di vista, il cosiddetto «socialismo utopistico» osteggiato fieramente da Marx, presenta un incomparabile verità a fronte della «menzogna» marxiana, e la proudhoniana "Filosofia della miseria" vale assai più, nonostante tutto, della marxiana "Miseria della Filosofia". Lo stesso dicasi dell'anarchismo del conte Bakunin e del principe Kropotkin, del socialismo nazionale europeista e anzi romano e imperiale del borghese Mazzini, sprezzantemente definito dal borghese Marx «teopompo».

Ciò diciamo allo scopo di rivalutare quei Maestri del giovane come dell'ultimo Mussolini i quali controbilanciano, per la loro influenza forte, il debito che Mussolini certamente ha nei confronti di Marx e che è stato lumeggiato magistralmente e comunque parecchio sopravvalutato dal Nolte. Il «comunisteggiare» di Mussolini nel periodo salodino, a noi non pare affatto un ritorno «alle origini marxiste» e un indiretto rinnegamento, forse anche di natura inconscia, della peculiarità del suo fascismo, che degli Autori prima nominati si sostanzia (e precisamente proprio del Mazzini) assai più che di Marx, Mussolini fino all'ultimo ribadendo la sua recisa opposizione di principio al marxismo. Se nella «corrusca» tregenda e tragedia di Salò l'anziano ma indomito leone di Predappio (ché tale restava interiormente contro ogni apparenza) «ritornò alle origini», vi ritornò nel senso del giovanile spirito rivoluzionario anarchico, temperato dalla saggezza e dall'amor patrio mazziniano, nonché temprato dalla scaltrezza e spregiudicatezza politica di ascendenza marxista, rinnovata dalla «dimestichezza» col Bombacci e da quelle «mine sociali disseminate nella Val Padana» che ben altro sono, tuttavia, che un mero espediente di «realismo politico», come ha messo in luce in maniera difficilmente contestabile il Landolfi nel suo ultimo libro. Valgano da supporto alla nostra personale opinione le seguenti citazioni. La prima è tratta da un articolo mussoliniano del 1909 apparso su "Il Popolo" di Cesare Battisti, quasi coevo degli articoli pubblicati su "La Lima" e animati da una accentuata ortodossia marxista. Vi è detto che «l'operaio che si preoccupa esclusivamente dei suoi interessi materiali, che fa la pura questione del ventre non è l'operaio capace di rovesciare l'attuale società e costruirne una nuova». Subito dopo, offrendo una prova indubbia che del Marx egli rifiuta un certo economicismo e determinismo come componenti sia pure «dialettiche» del «materialismo storico», il giovane Mussolini afferma: «Il fattore economico, ci insegna Carlo Marx, è il preponderante, il fondamentale, ma non il solo; ve n'ha altri dei quali bisogna tener conto e contro ai quali bisogna egualmente dirigere i nostri sforzi. L'esclusivismo. L'esclusivismo (ovvero l'egoismo proletario, N.d.R.) che limita alla sola lotta economica la funzione delle organizzazioni operaie»: dove è chiaro che l'«esclusivismo» può essere contrastato solo educando gli operai all'altruismo rivoluzionario, secondo valori anche anarchici e proudhoniani (proprio secondo la «filosofia della miseria», dell'anticonsumismo e dello «sviluppo economico» razionalmente programmato da spirito ascetico), in direzione, appunto, del «sindacalismo rivoluzionario» sorelliano.

Ed ora due brani del periodo salodino, uno dello stesso Mussolini, l'altro di Bombacci.

«Per quanto riguarda la parola (...) socialismo, essa potrà liberamente circolare, ma a un patto: che essa non serva a far passare merce di contrabbando e non indulga a nostalgie marxiste. Parliamo un linguaggio socialista nostro, cioè fascista» (Mussolini ad Ugo Manunta, febbraio 1944).

«Socializzazione (socialismo fascista) è altruismo, è dignità di lavoro, è dirittura morale e politica del lavoratore. Se sarete egoisti sarete peggio dei vostri padroni» (Bombacci, dal Comizio genovese del Marzo '45).

Ciò premesso, il rapporto di Mussolini con Marx potrebbe intendersi nel senso di una ripresa, da parte di Mussolini, di quei pensatori da Marx definiti inappellabilmente «socialisti utopisti», i quali, stante la crisi della IIª Internazionale esplosa al principio del primo Conflitto mondiale, vengono contrapposti «dialetticamente» a Marx, epperò secondo una concezione della dialettica che utilizza in profondità quelle potenzialità estreme in direzione della trascendenza che erano state molto chiaramente enucleate da Marx stesso, e per cui, come detto più sopra, si realizza «paradossalmente» una convergenza di vedute, suscettibile di diventare convergenza di atti politici al limite d'una vera e propria alleanza o patto d'azione, col Pensiero Tradizionale, con la Reazione intesa come «rivoluzione conservatrice» e più correttamente come «rivoluzione restauratrice». Probante in merito il seguente brano mussoliniano del 1915:

«C'è molta parte di verità nella critica marxista, ma ve n'è anche nell'ideologia mazziniana. Proudhon ha qualcosa (o molto) di vivo, come gran parte dell'opera bakuniana è ancora salda come granito di roccia».

Il brano prosegue immediatamente dopo ponendo in vivido risalto l'aver colto Mussolini le potenzialità estreme della «dialettica» marxiana:

«Vogliamo noi, spiriti spregiudicati, credere in un solo vangelo (quello marxiano, N.d.R.), giurare su un solo maestro? O non vale la pena, in quelle che sono epoche di liquidazione, di gettare nella grande fucina ardente della storia i nostri valori politici e morali, per sceverare in essi l'eterno (sic!) dal transitorio, ciò che passa da ciò che non muore? È mai possibile, nel campo sconfinato dello spirito (sic!), la monogamia delle idee? Non è ciò un autonegarsi alla più diretta e profonda comprensione della vita e dell'universo? La vita è varia, complessa, multiforme: ricca di possibilità (sic!), fertile di sorprese, prodiga (sic!!!) di contraddizioni. Chi è lo stolto che pretende di violentarla nel breve capestro di una formula, nella schematica proposizione di un dogma? Libertà dunque, libertà infinita!» (cfr. «Dopo l'adunata», da "Il Popolo d'Italia", 28/1/1915).

* * *

È ora il momento di scandagliare le profondità estreme della «dialettica» marxiana.

Partiamo dalla constatazione che, tanto in Marx quanto in Engels, il luogo della dialettica (la «trascendenza» del Pensiero Tradizionale) è in un primo momento entro la natura, potremmo dire come una potenza che la trascende in quanto sconvolge e trasforma il suo assetto statico, immanente, secondo ciò che i Greci definivano «divenire», passaggio dialettico dall'Uno originario al Molteplice naturalisticamente e storicamente inteso. Antropologicamente, poi, il luogo della dialettica è al principio entro la natura in quanto l'uomo vive nello «stato di natura», non è ancora «civilizzato» secondo le modalità descritte nel roussoiano "Discorso sull'ineguaglianza". Successivamente, attraverso la rivoluzione del neolitico, la divisione del lavoro, l'introduzione della proprietà privata e la «civilizzazione», il luogo della dialettica si trasferisce dalla natura alla coscienza dell'uomo e «si spiritualizza», per usare il linguaggio proprio alla Tradizione. Accade ciò per effetto della «lotta contro la natura», afferma con incontrovertibile chiarezza Marx. Nella coscienza dell'uomo si verifica allora questo: che l'uomo percepisce la propria soggettività «individua» e per meglio dire individualizzatasi nel «nemico», l'altro uomo a cui deve contrapporsi per affermare la propria soggettività «individua» (l'hobbesiano «bellum omnium contra omnes»). Il fine di questa contrapposizione è il possesso delle cose, per cui l'uomo «civilizzato» finisce col perdere totalmente la propria «libertà originaria», sia perché riceve la certificazione del proprio io dalla contrapposizione ad un altro io e non da se stesso (Sartre parlerà giustamente di un «cogito masochista»), sia perché questa certificazione ha bisogno della prova tangibile e materiale del possesso delle cose e anzi della «proprietà», per cui, afferma Marx, l'«alienazione» è immediatamente anche «reificazione». In un simile contesto fenomenico che Marx interpreta non alla maniera di Hobbes ma alla maniera di Hegel (segnatamente, a nostro modo di vedere, dello Hegel della "Fenomenologia dello Spirito", in particolare della sezione dedicata alla «dialettica di servo e padrone»), «spiritualizzazione» equivale a depotenziamento dell'io, e proprio di quell'io che aveva prima «umanizzato la dialettica della natura», distinguendo al suo interno la «lotta contro la natura» dalla «lotta di classe», imponendo un «diritto» che non è altro che il «diritto del più forte» in senso molto lato e perfino nobile, in quanto coincide con quel «diritto heroico» di cui aveva già trattato il Vico, implicante il «diritto di schiavitù» riconosciuto dalla «civile e democratica» Atene periclea e non solo dalla crudele e militarista Sparta. La quale ultima, è bene rimarcarlo con forza, in ragione della sua costituzione politica perfettamente organicistica, riscuote le simpatie del precursore di Marx, Gian Giacomo Rousseau, e quelle dello stesso Marx che nella sua patria prussiana, giunse a ravvisare la nuova Sparta. Si tenga inoltre conto che Marx ed Engels mostrano sempre la massima considerazione e stima per l'età classica e per il medioevo, che vengono presentati come modelli di organizzazione sociale in cui la vita dell'individuo, del popolo, dello stato non presentano «contraddizioni» e vera «alienazione» nonostante la presenza degli istituti giuridici della schiavitù e della servitù della gleba. Le società antiche vengono apprezzate per il loro carattere totalitario e opposte alla moderna società borghese con le sue pretese «libertà». È questo il motivo per cui l'ultimo Engels studia le costituzioni preistoriche dei popoli dell'antichità (i «Gentili» e cioè i «nobili» per antonomasia), fino ad interessarsi alle opere del Morgan sui costumi dei Pellerossa ravvisando in essi significative analogie coi costumi degli antichi Greci e Romani (cfr. "L'origine della famiglia"), e in ciò Engels, a nostro modo di vedere, evitando gli errori di quella che poi sarà la «antropologia culturale», e muovendosi con una cautela e un acume di giudizio che è superato solo da autori della Tradizione quali il Vico, Mircea Eliade, René Guénon.

In questa prospettiva di analisi, allora, la stessa critica dell'«alienazione religiosa» in Marx ed Engels verrebbe ad acquistare una propria specificità che in parte la emancipa dai pesanti condizionamenti della critica materialistica di un Feuerbach, anche qui potendosi riscontrare una curiosa consonanza con la critica della religione in generale e del cristianesimo in particolare di un autore come Evola, tutto teso a riscoprire e riproporre i valori religiosi della più arcaica paganità, ben oltre l'esegesi platonica e neo-platonica da Plotino al Rinascimento. Nel capitolo dedicato a Feuerbach de "L'Ideologia Tedesca", Marx fa addirittura una acuta (e sorprendentemente compromettente nell'ottica «materialistica») distinzione tra «coscienza dell'ambiente» in cui vive l'uomo primitivo, e la coscienza che egli avrebbe del «mondo» che esiste oltre la linea del suo orizzonte. Marx conclude che da questa seconda consapevolezza di una ipotetica esistenza al di là della sua immediata percezione sensoriale, il «primitivo» trarrebbe una «coscienza pura» (quella che per noi è l'«idea della trascendenza» evocata nella sua «potenza magica») da cui principia un «processo di autonomia» non alienata, la storia del dispiegarsi di una volontà di emancipazione che, per così dire, corre parallelamente e più o meno in maniera sotterranea alla storia «reale» del «cogito masochista» dell'«alienazione» vera e della vera «reificazione» più o meno mistificata dalle religioni positive, sia politeistiche che monoteistiche. Nella Introduzione alla "Critica dell'economia politica", facendo alcune osservazioni sulla mitologia greca, Marx ribadisce il carattere non «sovrastrutturalmente» determinato e determinabile della trascendenza teoretica. Infine, ne "Il Capitale" è detto che lo sviluppo e il perfezionamento delle forze produttive è causato anche dalla «evoluzione del lavoro spirituale» (cfr. III, I, Roma, 1952, p. 117).

Se dunque per Marx la «spiritualizzazione» della grezza «dialettica naturale» deve ritenersi insieme positiva e negativa, su due piani paralleli e suscettibili di incontrarsi per motivi «storici» in cui è legittimo sospettare un intervento della volontà dell'uomo, del «dio» o meglio ancora dell'uomo analogicamente proteso a identificarsi con Dio, invece, riferita allo sviluppo della scienza e della tecnologia, questa «spiritualizzazione» è sempre e del tutto positiva, nonostante il suo carico di «alienazione umana» che investe parimenti il capitalista e il proletario al limite e oltre il limite delle naturali capacità di sopportazione. È questa «spiritualizzazione», infatti, ciò che renderebbe possibile realmente l'emancipazione dalla tirannia «residua» della dialettica naturale e del «regno della necessità». E usiamo qui il corsivo per sottolineare le nostre ovvie obiezioni circa la necessità inderogabile che lo sviluppo della «scienza della natura» e della tecnica non sfuggano mai al controllo di quell'Uomo che non è né può essere il capitalista e il proletario in quanto tali. Verissimo è che Marx ha sempre sottolineato con la massima energia la politicizzazione della tecno-scienza. Epperò non ha mai chiarito a sufficienza, se non in termini troppo realistici, il rapporto dialettico che vi è fra politica e trascendenza; soprattutto non ha chiarito come potenziare l'influenza del trascendente sul politico quando il trascendente venga progressivamente e ineluttabilmente «oscurandosi» proprio per effetto dello sviluppo delle «forze produttive» ivi compresa la tecno-scienza. Egli crede «realisticamente» che sarà alla fine la sterminata massa degli «espropriati» a espropriare gli «espropriatori». Ma non è forse questo un ricadere nella «filosofia della miseria» che egli aveva rimproverato a Proudhon, peraltro interpretandone il discorso in modo poco obiettivo? Non è forse questo il «residuo», ancora vivo e operante in Marx, di una spocchia «da classe dirigente» che nega al popolo, assai «realisticamente», di riuscire a determinarsi per l'azione risolutiva se non per l'inderogabile impellenza d'un bisogno «materiale fisiologico», donde l'indiscutibilità dogmatica della teoria della «dittatura del proletariato», che poi, per necessità storiche si trasformerà nella dittatura del partito sul proletariato? Se Pareto ha avuto un precursore, questi pare essere stato proprio Marx. Se in una situazione di «oscuramento» della trascendenza nella coscienza rivoluzionaria proletaria quale si verificò presso il socialismo riformistico e «domenicale» italiano, Mussolini riprende la lezione dell'associazionismo proudhoniano e anarchico e contemporaneamente Pareto, non va egli forse oltre quella segnalata spocchia marxiana, in direzione di una tecnica di potenziamento della trascendenza rivoluzionaria aperta in ogni direzione e non solo in direzione proletaria, come è detto con chiarezza e spregiudicatezza nel passo più sopra citato del "Dopo l'adunata", del 28/1/1915? Non sono privi di significati i giudizi molto positivi che su Mussolini e il suo spirito rivoluzionario esprimeranno qualche anno dopo il «fatale» 1915 un Lenin e un Trotskij, anche se essi non avrebbero mai potuto comprendere e accettare, come del resto il loro maestro Marx se fosse stato vivo, in cosa effettivamente consisteva quella tecnica di potenziamento della trascendenza rivoluzionaria che Mussolini proponeva nel '15 e sperimentava con successo nel '22 e dopo il '25. L'incapacità strutturale del marxismo a comprendere Mussolini sarà poi sintetizzata da Stalin nella celebre, e assai controversa da parte marxista, formula del «social-fascismo». Secondo noi che dal marxismo siamo approdati al mussolinismo, che è anche il «fascismo reale» e insieme qualcosa di più facendo valere dialetticamente Proudhon e Bakunin contro Pareto, il cosiddetto «social-fascismo» non è altro che il totale rinnegamento delle radici materialistiche e scientistiche del marxismo stesso, grazie ad un atto di volontà teso al recupero integrale dei valori non conservatori della Tradizione, ma rivoluzionari e cioè «heroici», i quali partecipati, anche coercitivamente, al proletariato, o meglio alla Nazione-Stato (non etnia) attraverso il legionarismo, dovrebbero valere, subito dopo la rivoluzione, ad elevare spiritualmente prima che «culturalmente» e «materialmente» il proletariato, responsabilizzandolo politicamente-economicamente, prima attraverso la realizzazione del corporativismo, e poi attraverso la socializzazione, secondo un processo di parallela estinzione della dittatura del partito fascista la quale, come che sia, fu effettivamente avviata nel periodo della RSI, e non del tutto «strumentalmente» ove si pensi alla recisa e per niente «teorica» opposizione delle truppe di occupazione germaniche sia nei confronti della socializzazione che della «democratizzazione».

Ma la decisa negazione del materialismo filosofico marxista, non significò affatto, per Mussolini, che esso non potesse sempre utilizzarsi metodologicamente, come filosofia della spregiudicatezza ideale da applicarsi a fini rivoluzionari, e non «ad usum delphini» come accadrà presso tanti «marxisti metodologici», intellettuali e politici, dal secondo dopoguerra a tutt'oggi. D'altronde, dal punto di vista della Tradizione, il marxismo metodologico mussoliniano è perfettamente compatibile, altro non essendo che la «Via della Mano Sinistra» che il vero «Kshatriya» deve praticare fino alle estreme conseguenze, e «idealmente» solo nel senso che deve usare la debita prudenza per non compromettere l'esito finale dell'azione, soprattutto sotto la specie della giustizia e dell'onore, «sub specie aeternitatis». Su questo dovrebbero meditare tutti quei comunisti che oggi si sentono sconfitti. In effetti, dovrebbero imparare che nessuna sconfitta è irrimediabile, se si sa rimanere interiormente forti, se non si gettano via le armi dello spirito che sono e saranno sempre quelle decisive, oso dire più decisive dell'arma nucleare. Il comunismo, io dico, è crollato proprio per difetto di quell'«idealismo» che esso ha, a torto, messo troppo da parte, utilizzandolo al massimo machiavellicamente. Ma ciò non può del tutto imputarsi a colpa di Marx, per la sottolineatura di certi aspetti del suo pensiero che fin qui si son fatte e per quelle che stiamo per fare ancora. Le quali, tuttavia, non faranno che rilevare ulteriori «limiti» materialistici e scientistici della sua speculazione e parimenti anche la loro fecondità, nella situazione contemporanea della crisi mondiale di tutta la sinistra e non solo di quella marxista (più o meno «cripticamente»), ove vengano esaminati secondo quella che per noi è la lettura mussoliniana di Marx, una lettura che, per l'analisi documentata che stiamo svolgendo, non può ritenersi «formata» a meno che non si voglia sostenere, come si è sostenuto, che Mussolini non sia mai stato marxista, nemmeno in gioventù, ma sia invece stato una sorta di Dühring camuffatosi da marxista ultra-ortodosso allo scopo di meglio colpire il proletariato, animato da livore piccolo borghese proveniente da «un mondo vibrante di sotterranea vendetta», come ebbe a rilevare Nietzsche a proposito di Dühring. Ma trattasi di argomentazioni inconsistenti, provenienti da gente che nulla ha capito del marxismo e che essa proprio del marxismo si è servita solo ai fini della propria «promozione sociale». A costoro si potrebbe ribattere, con malignità di segno uguale e contrario, che molti dirigenti di spicco del comunismo internazionale erano di estrazione «piccolo borghese», a cominciare dallo stesso Marx, se non altro per essere egli figlio di un ebreo convertito, e per avere egli sposato, anche per «elevarsi socialmente», la baronessa Jenny von Westphalen, sorella di un Ministro degli Interni prussiano, fatto che gli attirò contro il sospetto d'essere addirittura una spia prezzolata di una delle principali potenze «reazionarie» d'Europa. Ma è da dire, però, a difesa di Marx, che il Nolte vede alla base del pensiero marxiano, una così grande considerazione per le civiltà classica e medioevale, col loro organicismo statuale, da scorgervi un non equivoco «lato radical-reazionario»: e si noti che il «revisionismo» noltiano muove da posizioni liberali, tanto antifasciste quanto anticomuniste (cfr. "Il Fascismo nella sua epoca", Gallarate, 1993, p. 710 e pp. 731-737).

In definitiva il rapporto «struttura»-«sovrastruttura» è in Marx suscettibile di svilupparsi in senso rivoluzionario, non positivisticamente meccanicistico come presso il «riformismo» di una certa socialdemocrazia conservatrice, solo ponendosi in primo piano la funzione che nel rapporto possiede l'elemento della «volontà», da intendersi non alla maniera kantiana, «trascendentalmente», come «cosa» che viene prima dell'esperienza ma è irreale senza la esperienza, tanto da necessitare la fondazione della «ragion pratica» di speciali «postulati» che ne tolgano il carattere arbitrario, ma da intendersi, invece, come luogo in cui la trascendenza si attua e per così dire si immanentizza.

Ora, questo primato della volontà, che Marx non poteva negare del tutto e che Lenin affermò recisamente (perché in caso contrario non ci sarebbe stata la rivoluzione d'Ottobre), nonostante il fatto che venga circoscritto nell'ambito comunque determinante del rapporto «struttura»-«sovrastruttura», è compatibile nella sostanza con l'insegnamento della Tradizione, e viene a costituire -giusto il rilievo noltiano- il «lato radical-reazionario» del comunismo marxista preso nell'insieme della sua funzione storica: donde l'attenta riflessione, marx-engelsiana sulle civiltà classiche e i loro «primordi», che sta a significare l'intento di conoscere ciò che è inconoscibile, la «volontà» noumenicamente identificata da Schopenhauer, col metodo della scienza sperimentale (applicabile alla natura ma solo assai impropriamente alla storia e soprattutto alla preistoria), ovvero col metodo del «materialismo storico» positivisticamente oppure neo-kantianamente auto-limitantesi come avviene nel problematicismo del Banfi.

Così -e secondo un significato che non coincide proprio con la gramsciana istanza di un «ottimismo della volontà» da farsi valere «in extremis» contro il «pessimismo della ragione-, Marx giunge al punto di volere la controrivoluzione per accelerare la «presa di coscienza» del proletariato e quindi la rivoluzione. Senza mezzi termini egli lo dichiara nell'Introduzione a "Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850: «Il progresso rivoluzionario non si fece strada (dopo il '48) con le sue tragicomiche conquiste immediate, ma, al contrario, facendo sorgere una controrivoluzione serrata, potente, facendo sorgere un avversario (Luigi Napoleone), combattendo il quale il partito dell'insurrezione raggiunse la maturità di un vero partito rivoluzionario». Che sarà poi quello che darà vita alla prima rivoluzione proletaria della storia e alla Comune parigina del 1871. Nell'Introduzione a "La guerra civile in Francia", Engels scrive: «Il 28 gennaio 1871, Parigi, sfinita dalla fame, capitolò; ma con onore senza precedenti nella storia delle guerre. I forti furono consegnati, le trincee di circonvallazione disarmate, le armi dei reggimenti di linea e della Guardia mobile consegnate, e i soldati e i miliziani furono considerati prigionieri di guerra. Ma la Guardia nazionale mantenne le sue armi e i suoi cannoni, e di fronte ai vincitori si considerò solo in stato di armistizio, mentre questi non osavano entrare trionfalmente in Parigi. Essi osarono occupare solo un piccolo angolo di Parigi, che per giunta consisteva in parte di parchi pubblici; e anche questo solo per pochi giorni! E durante questo tempo essi, che avevano stretto d'assedio Parigi per centotrentun giorni, erano a loro volta assediati dagli operai parigini armati, i quali vigilavano accuratamente perché nessun prussiano varcasse i ristretti confini di quel pezzo di terreno ceduto ad conquistatore straniero. Tale era il rispetto che gli operai parigini ispiravano all'esercito davanti al quale tutte le truppe dell'Impero (francese) avevano deposto le armi; e i Junker prussiani, che erano venuti per prendersi la loro vendetta contro il focolaio della rivoluzione, dovettero fermarsi riverenti e fare il saluto proprio alla rivoluzione armata».

Di questo grande evento che fu la Comune parigina, sconvolgente «ab imis» ciò che restava delle fondamenta etico-religiose «tradizionali» della più avanzata società borghese d'Europa (si pensi alla sodomizzazione consensuale del giovane poeta Rimbaud e alle violenze contro i luoghi sacri ad opera dei nuovi Sanculotti), Marx, in pieno accordo con Engels, individuò subito il significato «patriottico», identificando nel proletariato parigino il vero portatore della idea nazionale rivoluzionaria. Se dal nostro punto di vista, sotto certi aspetti, la cosa è assai discutibile, non è invece discutibile che, come sostiene Marx, il proletariato parigino si era opposto coscientemente e giustamente alla «totale dipendenza reciproca delle nazioni» determinata dal «traffico universale» del capitalismo trionfante «che ha scalzato la vecchia autarchia e chiusura locali e nazionali», come molto prima egli aveva affermato nel "Manifesto dei Comunisti" del 1848. Talché la dichiarazione qui contenuta che «i proletari non hanno patria», non è in contraddizione con le asserzioni marx-engelsiane di vent'anni dopo, in quanto i proletari del '71 hanno difeso strenuamente la patria e combattuto quella borghese che li escludeva e che non era stata capace di difendersi con onore dopo Sédan. Tornando al testo del "Manifesto", bisogna ricordare che la famosa affermazione che «i proletari non hanno patria», è seguita immediatamente da quella secondo cui il proletariato, prima di affermarsi come forma «internazionale», deve costituirsi in «nazione». Il che attenua di parecchio la distanza che Marx ha voluto interporre fra sé e Mazzini: e va ricordato che il mazziniano «eretico» Garibaldi accorse subito in difesa della Comune e colse a Digione l'unica vittoria contro i Prussiani in battaglia campale. Ma non basta. Negli articoli della celebre "Nuova Gazzetta Renana", quasi coevi del "Manifesto", si evince senza forzature che Marx ed Engels propendevano per un nazionalismo tedesco acceso e radicale, quasi -preghiamo il Lettore di non scandalizzarsi- anticipatore di quello nazista, ove si tenga conto dei seguenti pensieri privatamente esternati da Marx ad Engels in una lettera datata 23 maggio 1851: «Togliere ai Polacchi dell'Occidente tutto quello che si può (!); (...) gettarli nel fuoco (!!), saccheggiare il loro paese (!!!)» (cfr. "Mega", sez. III, vol. I).

Meditino i comunisti che vogliono a tutti i costi salvare Marx gettando la croce su Giuseppe Stalin... Meditino, soprattutto, i comunisti «buonisti»... E, fra i «non-marxisti» che condannano il «peccato» ma non il «peccatore», meditino certi cattolici «ultra-buonisti».

Noi qui ci limitiamo a segnalare che la lettura mussoliniana di Marx, con la sua rivalutazione del socialismo utopistico, «umanitario» ma tutt'altro che «buonista», non consente che dal marxismo emerga e si esprima la componente «radical-reazionaria» evidenziata dal Nolte, e per la quale, attraverso gli «eccessi» dello stalinismo, si attuò una per niente paradossale convergenza, anche di «metodi», fra marxismo e hitlerismo (questa considerazione potrebbe valere a problematizzare se non proprio a contestare la tesi noltiana per cui l'hitlerismo sarebbe una conseguenza e una «comprensibile risposta» al Terrore inaugurato dall'Ottobre Rosso e culminato con Stalin).

Quanto all'«umanitarismo» mussoliniano, a prescindere dalle sue radici storiche che non si possono certo minimizzare, siamo costretti, in forza del nostro personale orientamento «tradizionale», a ridimensionarle, valutandole dialetticamente in direzione di un più originario retaggio: quello della classicità greco-romana, per la quale ciò che la moderna volgare ristrettezza di vedute definisce «umanitarismo» e «umanesimo», non è che una parte, per di più di ordine assai elementare e scontato, del più alto concetto di «pietas», d'una giustizia mai paga di se stessa, che sempre si protende verso più alte conquiste e più alti significati, fino ad attingere, attraverso l'imperativo della totale dedizione dell'io «umano», il Sé trascendente. L'essenza di questa «pietas» la coglie con molta lodevole efficacia Giovanni Luigi Manco quando così conclude la sua "Città Fiorita":

«A guardare oggi quelle terribili immagini (della «rossa primavera» del '45), la figura su piazzale Loreto, più che appesa, pare precipitata dalle vertigini del cielo, condividere il destino di Icaro, per aver osato troppo. E così, proteso sulla piazza gremita, le braccia allargate, sembra abbracciare, in un estremo saluto, tutto il popolo, incurante delle ingiurie e degli sputi. Follia omicida stronca la vicenda umana ed epica del più illustre dei moderni; ma ciò che di lui più importa, il sogno della città fiorita, non è affondato nel bianco sepolcro di Predappio».

* * *

Riassumiamo così di seguito le tesi fin qui sviluppate.

1) Il pensiero di Marx possiede una connotazione filosofica che trascende la sua vera o presunta «scientificità» consistente nella impostazione materialistico-economicistica, essa stessa determinata da una scelta di ordine filosofico, teoreticamente arbitraria in quanto postulata, e praticamente volontaristica, la quale è orientata sia in direzione «radical-progressiva» sia in direzione «radical-reazionaria».

2) Il «radicalismo reazionario» marxiano non può ritenersi sociologicamente causato dalla provenienza di classe dell'Autore, essendo egli un borghese (o piccolo borghese) assai critico e uno spietato analista dei termini obiettivi della «questione ebraica» nel contesto della rivoluzione capitalistica (si confronti "La questione ebraica"), fino al punto di non accettare il sionismo sebbene concepisca positivamente il «patriottismo nazionalistico», epperò nel quadro della rivoluzione proletaria internazionale finalizzata all'abbattimento del capitalismo, il «radicalismo reazionario», dialetticamente collegato col «radicalismo progressivo», esprimendosi in Marx una duttilità e intelligenza, politica che gli fa riconoscere come positiva la «controrivoluzione» bonapartista, allo scopo di elevare la «coscienza proletaria» liberandola dagli influssi narcotizzanti delle «utopie» del socialismo «slavo-latino» dei Bakunin, dei Proudhon, dei Mazzini, onde creare le premesse di quello che sarà il moto, «autenticamente rivoluzionario e proletario», della Comune parigina del 1871.

Ciò premesso, il pensiero marxiano non può essere messo da parte come «storicamente superato» dalla socialdemocrazia e dal revisionismo Ottocenteschi, ovvero, per venire alla più vicina contemporaneità, da parte di quegli ex-marxisti che ritengono oggi superata la stessa socialdemocrazia e inalberano bandiera bianca di fronte al «capitalismo trionfante» e al «neo-liberalismo», accompagnando la resa con reiterati e opportunistici omaggi al modello «americano» (leggere «antieuropeo») della cosiddetta «democrazia»; ciò che appunto rivela il carattere del marxismo (e «ab ovo» dello stesso pensiero marxiano) di essere quello che più sopra abbiamo definito «cattiva utopia», carattere che secondo Evola e Guénon è denunciato dalla cosiddetta «inversione dei simboli». Sicché, dire che il comunismo marxista ovvero il «socialismo scientifico» è una «cattiva utopia», equivale a dire che è una utopia invertita, in cui l'ideale poundiano della Città Fiorita, di un socialismo comunitario militante sempre contro le riviviscenze naturalistiche, edonistiche, materialistiche e individualistiche, antisociali prima che a-sociali, viene stravolto nella marxiana «società comunista» in cui la «ricchezza socialmente prodotta» consente a tutti di «soddisfare i propri bisogni», senza più alcuna distinzione di merito (che per noi significa esclusivamente «autorità spirituale» attestabile in concreto dalla totale rinuncia non solo alla «proprietà di beni materiali» ma allo stesso «principio del piacere»; rinuncia che peraltro, per essere veramente convincente, deve essere spontanea e non imposta, come avviene presso il clero cattolico). Già il Tocqueville aveva enucleato una certa «comunità di destini» fra Russia e America, quasi profetizzato cosa sarebbe accaduto in Russia dopo la fine dell'«impero del male» e che infatti si è verificato puntualmente. Il sogno di «universale emancipazione» dell'umanità che la Russia marxista ha fatto suo, non era altro che il «sogno americano» dello stesso Marx, il sogno di una Città che non poteva non sfiorire, come comprese molto presto il più grande e il più degno degli Americani, Ezra Pound. Non è quindi un paradosso dire che oggi in Italia vi è un unico vero marxista e che questi non è Fausto Bertinotti o Armando Cossutta, ma Walter Veltroni.

Dopo quanto si è andato dicendo, il tenore di queste ultime nostre affermazioni non può certo intendersi come una definitiva stroncatura del marxismo e di Marx in particolare, nello spirito della «più ottusa e bieca reazione».

Noi anzi stiamo difendendo Marx e il suo spirito rivoluzionario contro la storia, e se critichiamo Marx, lo facciamo per difenderlo dai suoi stessi «errori», che tali appaiono al momento a causa della sconfitta del comunismo e indipendentemente dalla nostra diversa concezione del comunismo e della vera rivoluzione. Ci fa tutt'altro che piacere la sconfitta dell'«impero del male», perché, se sconfitta avrebbe dovuto esserci, avrebbe dovuto verificarsi in altro modo (e non ci riferiamo affatto a un esito diverso del secondo conflitto mondiale). Come che sia, gli «errori» di Marx e l'«impero del male» hanno avuto storicamente una funzione positiva, hanno determinato una polarizzazione delle idee che ha fatto procedere il ciclo storico verso una direzione che era chiara per tutti e permetteva scelte altrettanto chiare, individualmente quanto socialmente. Hanno, di più, costretto il capitalismo a darsi una disciplina (lo «Stato sociale»), la quale oggi invece è venuta meno con conseguenze già abbastanza visibili; epperò non in tutta la loro dirompente gravità, secondo una prospettiva catastrofica che possono intuire nelle sue reali dimensioni solo coloro che della storia hanno una concezione «ciclica», e che Marx, cui questa concezione non appartiene in alcun modo nonostante il suo «radicalismo reazionario», non riesce a concepire che come il castigo biblico della «espropriazione degli espropriatori», con cui non un ciclo storico si compie ma la storia in quanto tale come storia della cacciata dall'Eden per il peccato «contro natura della proprietà», nel suo approdo finale e conclusivo della «riappropriazione», grazie al «comunismo», del «paradiso perduto», d'una incontaminata «condizione naturale» in cui non esiste più il divieto e dunque il presupposto della vera libertà, in cui, essendo lecito tutto ciò che piace, non vi è più posto per il Valore e cioè per il Dio incarnato perché trascendente.

Pertanto gli «errori» di Marx sono esclusivamente errori metafisici, i più gravi, e quelli che meno sono presagiti dalla moderna ottusità mentale. La quale invece s'ingegna in ogni modo, e con la risibile prosopopea dei «ragionieri della scienza delle finanze», a trovare e dimostrare gli «errori» che Marx avrebbe commesso nella sua critica dell'economia politica e nella descrizione dei processi dell'accumulazione capitalistica. Egli ha invece secondo noi visto giusto in tutto o quasi. Se ha sottovalutato le capacità di resistenza e la «vitalità» del capitalismo, ciò vero col senno dell'oggi, ed è tutto da dimostrare ancora che lo sia col senno di domani. Invece non è vero che Marx ignori o non comprenda a sufficienza in una prospettiva di largo respiro il fenomeno contemporaneo che suole definirsi «mondialismo» e «usurocrazia». Arche al riguardo non pare del tutto scontato che la attuale crisi del capitalismo (altro che «suo trionfo sul socialismo reale»!) non rientri in una delle solite «crisi cicliche» descritte a suo tempo da Marx, donde il capitalismo tenta di uscire producendo disoccupazione e favorendo una immigrazione volutamente sconsiderata dal Terzo e Quarto Mondo, allo scopo di aumentare a dismisura l'«esercito salariale di riserva» e di recuperare i costi, in senso lato, della sfrenata automazione dei processi produttivi.

È quest'ultimo fenomeno che secondo noi bisognerebbe regolare per uscire definitivamente dalla logica del capitalismo. E per noi la socializzazione dell'economia è anche questo. L'autarchia, trasferita dal contesto nazionale a quello internazionale e per così «mondializzata», non è solo la premessa della moralizzazione dell'economia, ma la condizione per cui la socializzazione non rimanga marginale e dunque dipendente dalla logica globale del capitalismo, la condizione per cui la socializzazione possa realmente diventare antagonista del capitalismo, rendere non necessaria la dittatura del partito della rivoluzione, ovvero inserire subito al suo interno dispositivi giuridici predisposti ad estinguerla, ove la dittatura fosse necessaria.

 

Francesco Moricca

 

 

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