da "AURORA" n° 41 (Maggio - Giugno 1997)

EDITORIALE

L'inganno della Bicamerale

A. De Ambris

 

L'Italia è un paese nel quale l'emergenza, la drammatizzazione delle scelte, anche banali, è parte integrante della vita nazionale. Qualsivoglia decisione politica diviene oggetto di estenuanti dibattiti, attraverso i quali le diverse fazioni politiche, a seconda delle convenienze, esaltano oltremisura o dipingono a tinte esageratamente fosche le banalità quotidiane con le quali si misurano.

La costituzione della «Commissione Bicamerale» è stato uno dei momenti nel quale lo scontro, tra quanti individuavano in essa la via meno tortuosa e più agevole per riformare la Carta Costituzionale e quanti viceversa ritenevano più acconcia allo scopo l'elezione di una «Assemblea Costituente» e accusavano la bicamerale di essere un mezzuccio per eludere la volontà popolare, ha conosciuto toni da tregenda.

Ora il tormentone si avvia al prevedibile epilogo: entro il 30 giugno la Commissione dei Settanta dovrà presentare al Parlamento la sua ipotesi di riforma, anche se il colpo di mano leghista sulla forma di governo ha annullato, in parte, il compromesso faticosamente raggiunto. Che la Commissione presieduta da Massimo D'Alema alfine partorisca il solito topolino, come era logico attendersi, è ben più di una sensazione, anzi il pasticciaccio che si profila va ben aldilà delle più negative previsioni.

Sconfitta l'ipotesi del «premierato», grazie all'apporto determinante dei sei commissari leghisti, la proposta presidenzialista risultata vincente è già sottoposta ad una lunga serie di correzioni da parte dei propri stessi sostenitori. Si da il caso infatti che l'elezione diretta del Capo dello Stato -diversamente da quanto avviene per l'elezione diretta del Presidente del Consiglio- sia, nella stragrande maggioranza dei sistemi presidenziali o semi-presidenziali operanti, sempre accompagnata da una legge elettorale a doppio turno -come ad esempio nel sistema francese- allo scopo di garantire al Capo dello Stato, i cui poteri, specie in politica estera e difesa sono quasi assoluti, un governo «amico» sostenuto da una solida maggioranza. La conseguenza pratica di una simile revisione Costituzionale è che lo spazio per i partiti medio-piccoli diviene praticamente nullo; basti rilevare che in Francia il Fronte Nazionale rischia, pur avendo ottenuto oltre il 15% del suffragio elettorale, di non essere rappresentato nella Assemblea Nazionale.

Una prospettiva, come facilmente si può arguire, allarmante per i partiti minori, che non sono poca cosa nel panorama politico nazionale, tra i quali si prospetta una sorta di «santa alleanza» allo scopo di adeguare il semi-presidenzialismo alla peculiarità della situazione italiana. In sintesi si tratterebbe, secondo l'opinione di Casini e Mastella, di Bertinotti e Dini, di Buttiglione e Marini di allargare la quota proporzionale o, come invece sostengono Umberto Bossi e lo stesso Berlusconi, di mantenere inalterata l'attuale legge elettorale conservando al Capo dello Stato, eletto direttamente dal popolo, le attuali funzioni di garanzia e rappresentanza. Una folle ipotesi che autorizza persino Antonio Di Pietro, anche se non è ben chiaro a quale titolo e proposito, ad intervenire nella polemica accusando, senza mezzi termini la Bicamerale di lavorare contro di lui.

Le premesse per l'ennesimo pastrocchio ci sono tutte. Si delinea un disonorevole compromesso nel quale i «cavoli» del semi-presidenzialismo saranno salvati unitamente alla «capra» di una legge elettorale che garantirà i «cespugli» di destra e sinistra dalla minaccia di estinzione.

Per noi che siamo proporzionalisti puri, in quanto convinti della necessità di garantire rappresentanza politica a tutte le legittime componenti economiche, culturali e ideali della Nazione, quanto accade in Bicamerale si configura come l'ennesima riprova di malcostume politico e di quanto sia flebile nell'animo dei settanta aspiranti «padri della patria» -e non solo- il richiamo dell'interesse collettivo. Paradossalmente, ma non più di tanto, tenuto conto della «linearità» della strategia leghista, l'unica prova di coerenza l'ha offerta Umberto Bossi il quale non ha mai nascosto, avendolo sempre proclamato urbi et orbi, di lavorare per il massimo indebolimento del governo nazionale, unica speranza, a suo dire, per frantumare in modo incruento l'unità nazionale e rendere possibile la realizzazione dell'entità padana.

Tra gli effetti secondari del fallimento della Bicamerale va enumerata anche quella che solo qualche mese fa era considerata dai politici, sedicenti nazionali, e dai tanti opinionisti che si dilettavano nell'illustrare gli aspetti più pittoreschi delle «camicie verdi», una delirante ipotesi che ora entra nel novero degli sbocchi possibili in virtù della stupidità e della malafede di una classe dirigente che alla «strategia di rottura», al logorante progredire della delegittimazione dello Stato Nazionale posta in essere dalla Lega Nord nulla ha saputo opporre se non inconcludente, superficiale, vuoto e retorico chiacchiericcio su un'unità nazionale che conserva intatti i suoi valori e le sue ragioni di essere.

Ma i guasti ai quali si andrà incontro se il Parlamento, in un soprassalto di dignità, non troverà il coraggio di emendare radicalmente i risultati della Commissione di revisione costituzionale, non sono limitati a quelli pur gravissimi conseguenti ad una forma di governo incoerente con una legge elettorale pensata solo per preservare al meglio gli interessi delle consorterie partitiche. Il più ed il peggio si raggiungono con la «bozza Boato» sulla giustizia e con la «ipotesi D'Onofrio» in tema di federalismo.

La «bozza Boato», una vera e propria aggressione all'autonomia della Magistratura, è il concretarsi, -nonostante il progressivo annacquamento in virtù della violenta opposizione dei giudici- con la fattiva complicità del PDS e di Alleanza Nazionale, della strategia berlusconiana tesa a ridimensionare il potere discrezionale dei Pubblici Ministeri cancellando l'obbligatorietà dell'azione penale e a questa sostituendo l'indicazione politica dei reati preferibilmente perseguibili. D'altro canto la Magistratura è da anni il «Nemico», l'obiettivo da annientare per il «piduista di Arcore» che contro i giudici ha schierato tutta la potenza persuasiva delle sue televisioni, delle sue riviste, dei suoi quotidiani con risultati per ora, ad onor del vero, tutt'altro che entusiasmanti, considerando i numerosi atti giudiziari del quale è destinatario; la condanna di suo fratello Paolo e il rinvio a giudizio, per reati di associazione mafiosa, del suo più importante e fido collaboratore Marcello Dell'Utri.

Ma è manifesta, oltre a quella del «cavaliere azzurro», la più ampia volontà della politica e delle oligarchie economiche di limitare ciò che viene definito il «trasbordare della Magistratura» dalla propria sfera istituzionale invadendo il terreno proprio della politica.

A noi pare -e il recente documento di solidarietà, firmato da un centinaio di «intellettuali» ed «imprenditori» in seguito alla condanna del presidente della FIAT, Cesare Romiti, per alcuni reati valutari connessi col finanziamento illecito dei partiti- che la «bozza Boato» persegua fini del tutto impropri ad una pur necessaria regolamentazione delle carriere dei magistrati e della limitazione del loro potere in tema di restrizione della libertà personale e dei diritti della difesa. Quello a cui scopertamente si mira, e lo confermano le proposte, solo in parte accolte, dei commissari di destra sulla separazione delle carriere tra magistratura giudicante e magistratura inquirente; sulla obbligatorietà dell'azione penale e sulla riforma del Consiglio Superiore della Magistratura con una prevalenza dei membri laici (di nomina politica) su quelli togati, è il ripristino di uno stretto controllo politico sulle iniziative della magistratura inquirente. Vale a dire il ritorno allo status pre-Tangentopoli allorquando i giudici subivano supinamente i diktat di democristiani e socialisti e le tante inchieste scottanti venivano trasferite, senza eccessivo scandalo, in Procure compiacenti o erano avocate, per essere tranquillamente insabbiate, dal romano «porto delle nebbie».

Riportare la Magistratura alla condizione pre-Tangentopoli ha la valenza di riattribuire alla classe politica «licenza di furto». Un pericolo che va tenuto presente allorquando le proposte della Bicamerale, dopo l'iter parlamentare, saranno sottoposte al vaglio della volontà popolare tramite referendum.

Per quanto riguarda il federalismo è opportuno premettere che si tratta di una forma di «decentramento» sulla quale, negli ultimi anni, si è andato progressivamente condensando un largo consenso. «Consenso», a nostro parere, largamente sollecitato dalla massiccia e benevola attenzione dei mass-media i quali, da destra e sinistra, ad esso attribuiscono la capacità di erodere spazio alla derive secessioniste della Lega Nord.

Attribuire al decentramento politico-amministrativo dello Stato unitario la capacità di ovviare alle carenze sin qui mostrate dal governo centrale è una delle tante fughe dalla realtà nelle quali in questi anni ci siamo, come popolo, cimentati. Moltiplicare i Centri di irradiazione del potere avrebbe un senso se questa scelta fosse supportata da una tradizione, non solo amministrativa ma anche culturale e storica, di autogoverno di realtà territoriali tra loro tanto diverse da giustificare la necessità di un diversificazione legislativa. In Italia non esiste nulla di simile. La memoria storica nazionale più che alla entità territoriale regionale si richiama al comune, al «campanile», ossia a particolari microrealtà territoriali che hanno, con pochissime eccezioni, caratterizzato la nostra vicende pre-unitaria.

Non solo la «padania» del delirio bossiano è una costruzione virtuale e folle ma persino il regionalismo realizzato negli Anni Settanta è stato una forzatura che ha appalesato con il passare del tempo tutti i suoi limiti. La soluzione regionalista, propagandata come soluzione a tutte le degradazioni civili e le marginalità economica conseguenti al tumultuoso e disorganico sviluppo dal dopoguerra, era stata presentata come la soluzione ideale a tutte le storture cui lo Stato eccessivamente centralizzato era ritenuto responsabile. Il risultato è stato la micidiale espansione della spesa pubblica, il moltiplicarsi delle pastoie burocratiche per tutti i cittadini, l'espandersi della corruzione anche a livello locale ove i partiti hanno costituito dei veri e propri feudi, il controllo asfissiante, che si aggiungeva a quello già esercitato dallo Stato centrale, nei confronti dei Comuni. Una Caporetto, sottostimata dagli organi d'informazione che omettono, allorché disquisiscono di federalismo e decentramento, di sottolineare il costo in termini economici e di degradazione della vita civile delle Giunte regionali calabresi e lombarde rette dai socialisti, quelle siciliane, campane, venete e pugliesi rette dai democristiani. I Mancini, i Lima, i Gava, i Prandini, veri e propri deus ex machina della degenerazione tangentizia e sprecona che, attraverso il controllo delle giunte regionali hanno esercitato un potere politico-mafioso sull'intera Nazione, sembrano passati invano. I loro eredi con il plauso di un popolo dalla memoria troppo corta si sono incamminati lungo una strada non certo migliore.

A. De Ambris

 

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