da "AURORA" n° 42 (Luglio 1997)

ECONOMIA E SOCIETÀ

Sinistra europea e suggestioni liberali

Giovanni Mariani

 

I primi mesi del 1989 non portarono nessun reale sintomo del crollo autunnale del blocco comunista Est europeo e anche la «primavera cinese» sembrava appartenere alla categoria delle periodiche e sanguinose rivolte dell'impero comunista. La storia insegna nei fatti, al pari degli esempi (Berlino '53, Budapest '56, Praga '68, Danzica '70/'81), che esse furono molto rumorose e non poco sanguinose ma, tutto sommato, si rivelavano l'effimera valvola di sfogo della opposizione, per poi ritornare ai vecchi metodi di sempre. Neppure gli esperti cremlinologi statunitensi azzardavano ipotesi di caduta del gigante comunista prima della fine del secolo, ma la realtà ha sconfessato la totalità degli osservatori occidentali dimostrando loro che il comunismo era relativamente finito e che il futuro prossimo avrebbe riservato loro un'altra novità difficilmente accettabile. In effetti l'entrata dei comunisti al governo in Paesi quali Italia e Francia ha indubbiamente lasciato di stucco molti «politologi» più che convinti, a dire il vero, che la caduta del Muro di Berlino sancisse automaticamente il trionfo del centrodestra in tutta l'Europa.

Indubbiamente se questa novità è da ritenersi, a nostro giudizio, più che positiva, non possiamo che mantenerci critici in merito alla frettolosa storicizzazione, bonaria vorremmo aggiungere, del comunismo quanto dei suoi crimini, e alle allucinanti dichiarazioni di Veltroni «non ero comunista neanche quando ero comunista» o peggio ancora della parlamentare pidiessina Mancina, che testualmente ammette di non sentirsi a disagio nell'essere definita liberale «in quanto l'ex-partito comunista italiano non ha mai lavorato né creduto al comunismo ...».

Ma a prescindere da questa cornice storica e dal frettoloso colpo di spugna operato sul passato dai post-comunisti alla ricerca di nuovi consensi, e volendo addentrarci un po' più a fondo nella nuova stagione sociale dell'Europa contemporanea ci si trova a dover fare i conti con una serie di ostacoli sia di natura politica che economica. Le recenti elezioni in Italia, Francia e Inghilterra hanno mostrato ampiamente come per certi versi l'eredità della tradizione socialista non sia così facile da obliterare una volta per tutte. Pure se, a dire il vero, sarebbe opportuno fare dei doverosi distinguo per non rischiare di lasciarsi sedurre dal grande inganno socialista o socialdemocratico, quale quello della sinistra britannica che è tale solo per modo di dire; inoltre, in qualche misura, inaugura una pericolosa frattura in ciò che resta della comune casa socialdemocratica, in particolare nel modo stesso di organizzarsi politicamente, fra chi rimane, o almeno cerca di rimanere, ancorato alla socialdemocrazia, come Austria e Paesi nordici. O chi cerca di inaugurare un nuovo frontismo con la presenza dei comunisti come nel caso francese, o chi, come l'Inghilterra, che ha oramai abbandonato ogni residuo di socialismo in nome del «mercato» e dell'efficienza o chi come la sinistra italiana, è simile, a parole, al frontismo francese, ma persegue nei fatti una politica decisamente liberale al punto di organizzare pubblicamente incontri sul liberalismo e il suo divenire.

 

Quale sinistra dunque per l'Europa?

Dal nostro punto di vista è augurabile che prevalga il modello socialdemocratico, anche se è molto più probabile che la sinistra contemporanea debba o voglia incamminarsi sulla via liberale. Senza dimenticare che, presto o tardi, la sinistra europea dovrà fare i conti con i Paesi ex-comunisti, per i quali almeno fino alla fine del '96 si prospettava ben altro scenario rispetto all'attuale. Si paventava il ritorno dei comunisti e a quel tempo il baricentro dell'Est pendeva ancora fortemente a sinistra: in Polonia, Ungheria, Jugoslavia, Romania, Bulgaria e Lituania governavano ex o post-comunisti che dir si voglia. Persino la liberale Slovacchia era governata da un ex-comunista proscritto negli anni Settanta dal partito e, al pari di Franjo Tudjman, illuminato sulla via del nazionalismo. Nel giro di pochi mesi, come ad Ovest ma in senso opposto, alle presidenziali in Bulgaria e Romania si sono affermati i candidati del centrodestra. La Russia è rimasta ben salda nelle mani di Elstin e la Lituania rossa con al comando l'ex-comunista Brazauskas ha cambiato nuovamente bandiera dopo l'autunno del '96 con l'affermazione dell'anticomunista Landsberghis. In quanto alla Federazione Jugoslava, l'ambigua alleanza fra l'ex-comunista serbo, convertito al nazionalismo, Milosevic e il partitino comunista di sua moglie pare, almeno al momento, resistere nonostante le oceaniche manifestazioni di quest'inverno ed il supporto profetico dell'oppositore iper-nazionalista Draskovic. Ma è più che evidente che la coppia Milosevic abbia molto da temere per il futuro, sempre che «Slobo» non conti sull'aiuto di organismi internazionali sotto la malcelata minaccia di una insurrezione nel Kossovo albanese, magari fomentata da lui medesimo al solo fine di ritrovarsi ad essere l'unico garante di un equilibrio stabile, ben più che l'anti-musulmano per eccellenza Draskovic.

A questo punto gli unici referenti di sinistra ad Est della cortina rimarrebbero la Polonia, l'Ungheria e l'Albania. Si ribalterebbero così i vecchi equilibri: il centrodestra ad Est, la sinistra ad Ovest. La frettolosa caduta dell'equilibrio comunista Est-europeo aveva convinto gli uomini del centrodestra di poter fare tabula rasa, una volta per tutte, dei residui sociali presenti nell'Europa occidentale, ed in un certo senso lo smarrimento delle sinistre aveva favorito di non poco questa convinzione. Così non è stato: la tradizione politica dell'Europa trasuda socialismo al punto tale che persino i nemici più diretti delle socialdemocrazie, fascismo e comunismo provenivano entrambi da una costola del socialismo stesso.

In tale senso l'ipotesi caldeggiata da monetaristi e liberisti di ridurre il disavanzo dei conti pubblici infischiandosene totalmente degli oltre diciannove milioni di disoccupati, dei pensionati e delle fasce sociali più deboli, non ha convinto la maggioranza degli europei. Ovviamente, come abbiamo avuto modo di ribadire precedentemente, è necessario fare un doveroso distinguo fra la tradizione socialista e quello che rappresenta al momento la sinistra europea.

La componente più liberale della sinistra (Inghilterra, Italia) intende realizzare di fatto un sistema sociale non molto dissimile da quello auspicato dai partiti liberali europei, con «meno Stato e più Mercato»; in sintesi un progressivo alleggerimento dello Stato sia dal punto di vista economico che da quello sociale. Indi una veloce deregolamentazione del mercato del lavoro ed una progressiva contrazione del potere sindacale. Il tutto rinvigorito da inediti appelli alla legge, all'ordine, alla sicurezza. Sicuramente non si può negare che, al di là di quest'aspetto sicuramente «liberale», vi sono senza dubbio degli ammortizzatori sociali a protezione dei più deboli, ma è ben evidente che tutto ciò ha ben poco a che spartire con un programma socialdemocratico.

Del resto la ricetta «Blair» risente della influenza diretta dei passi politico-sociali dell'amministrazione Clinton che portano inevitabilmente a due conclusioni:

1) L'Inghilterra si presenta sempre aggiornata alle novità d'Oltreoceano, quasi ne rappresentasse una filiale politica destinata a giocare il ruolo di cassa di risonanza e di propaganda delle scelte politico-sociali statunitensi;

2) l'esempio americano cerca di spezzare definitivamente il binomio europeo «sinistra = socialismo», binomio che negli Stati Uniti non è mai esistito visto e considerato che la socialdemocrazia non ha mai trovato consensi da quelle parti.

Ma in Europa tale esempio trova una sinistra unanime e concorde?

Indubbiamente l'esperimento Clinton ha dalla propria parte dei successi che non si possono negare quali la crescita di nuovi posti di lavoro, la discesa del tasso inflattivo, della disoccupazione e del deficit pubblico (dimenticando volutamente gli oltre 40 milioni di poveri, in continua crescita), nonché un visibile aumento delle esportazioni. A fronte di ciò la sinistra europea può offrire un passato caratterizzato dal degrado, dalla inefficienza e dal collasso economico (quello comunista) e un presente socialdemocratico dal futuro incerto. È più che probabile che il miscuglio di elementi della destra liberista congiunta a residui sociali possa in qualche modo rappresentare non solo la innegabile novità del momento (almeno per degli ex-comunisti), ma una concreta possibilità di acquisire buona parte di quel ceto medio, tendenzialmente di centro, in disaccordo coi programmi liberisti più duri e intransigenti. Per cui vi sono buone possibilità che la sinistra «frontista» e quella socialdemocratica debbano ben presto fare i conti con le suggestioni liberali, lasciando così ai comunisti il monopolio di una sinistra antagonista a tutto ciò che il resto della sinistra propone, pur non disdegnando di allearsi con essa. La svolta liberale della sinistra è configurabile come un fiume in piena che, se non arginato presto, allagherà l'intero continente europeo travolgendo definitivamente ogni retaggio del passato.

La vittoria di Juppè in Francia parrebbe in qualche modo marciare in senso opposto alla deriva liberale, ma egualmente ripropone problemi e, perché no, anche speranze. Problemi in quanto la lotta condotta da subito, dal governo francese contro le ingiustizie del trattato di Maastricht potrebbe a lungo andare trasformarsi in una lotta alla Unione Europea tout court, e ciò si colloca meglio alla luce dei comportamenti di Gran Bretagna e Svezia, decisamente, almeno per ora, avverse alla nascita della moneta unica. Nel qual caso si finirebbe per buttar via, per così dire, l'acqua sporca insieme al bambino, e l'Europa perderebbe la grande opportunità del prossimo millennio, lasciandosi irretire da demagogiche sirene destinate ad affossare definitivamente l'edificazione di una Europa forte e sovrana. È lecito chiedersi infatti fino a quale punto i popoli europei raccolgano nello spirito di quanto costruito a Maastricht la benché minima partecipazione al consolidamento finale di tradizioni comuni e obiettivi sociali, o quanto piuttosto una lunga serie di dati e cifre destinate a garantire un'Europa futura senza anima e sempre più simile ad una banca. Ma se così fosse o, meglio, se nulla e nessuno potranno cambiare questa innegabile tendenza, l'Europa futura perderebbe l'ultima occasione per unirsi definitivamente e a quel punto potremmo intravedere all'orizzonte i neri presagi di ennesime spaccature in seno alle nazioni, dettate per lo più da rivendicazioni economiche cementate dal risveglio di micro-nazionalismi privi di qualsivoglia ideologia.

Allo stesso tempo c'è anche motivo per intravedere una speranza: le recenti dichiarazioni della Francia non dovrebbero far temere nulla di grave per il futuro dell'Europa ma, al contrario, hanno creato un più che positivo precedente che dimostra la concreta possibilità di imporre una svolta sociale e culturale ai freddi parametri di Maastricht. Purtroppo a fronte del coraggio e della tempestività del governo francese per migliorare il futuro dell'Europa, non altrettanto possiamo dire dell'Italia e più chiaramente del suo attuale Governo. Intraprendenza e coraggio sono stati completamente assenti, visto e considerato che fino a ieri, la nostra classe dirigente non ha mai messo in discussione nemmeno per un istante l'aridità e l'iniquità dei parametri dell'infausto Trattato. E senza alzare la voce contro Francia, Gran Bretagna e Spagna, governate a suo tempo dal centrodestra, al contrario il governo Prodi si è affrettato a bussare più volte agli sprezzanti rappresentanti di tali Paesi con accenni di manifesta inferiorità e riverenza assoluta. La vittoria della sinistra francese pone la questione di Maastricht sotto un'ottica diversa (anche se non di molto‚ sia chiaro!) e solo ora con lo spiraglio d'una Germania futura sulla via della socialdemocrazia e quindi meno rigida nei nostri riguardi, i nostri governanti riprendono il coraggio per contestare le tante nequizie sociali imposte dallo scellerato Trattato firmato cinque anni or sono. Quando se ben ricordiamo fino a qualche mese addietro apparivano come i più intransigenti esecutori del Trattato stesso, coloro che mai avrebbero contestato una sola virgola a quanto apposto da Kohl e Chirac. Tutto ciò ci ricorda i «non-fascisti» del 26 luglio, i «non-comunisti» del dopo '89, i «non-socialisti» dopo Tangentopoli.

Comunque tralasciando certe meschinerie e volendo ampliare per un istante gli orizzonti su una «Europa immensa e rossa» (sarebbe più appropriato rosa! - l'ipotesi non è peregrina) è necessario anche fare i conti con ostacoli potenti e temibili. Primo fra tutti la sfida con gli Stati Uniti d'America!

La volontà del gigante americano di differire, sabotare ed ostacolare l'integrazione politica e monetaria dell'Europa è più che evidente. Diversamente non avrebbe senso alcuno l'allargamento della NATO ad Est, visto e considerato che con lo scioglimento del Patto di Varsavia nel luglio '91 è venuta meno la sola ragione d'essere della NATO stessa, che a suo tempo doveva garantirci militarmente dalla presunta invasione comunista. Oggi, nella realtà, la NATO rappresenta uno strumento di pressione e ricatto politico-militare su un continente europeo privato della funzione essoterica (la difesa militare) e si manifesta palesemente solo nella sua natura esoterica: il controllo permanente dell'assetto geopolitico ed economico dell'Europa.

Detto ciò, è più che evidente immaginare l'Unione Europea in linea con i dettami del padrone statunitense. Per cui, caduto definitivamente il «pericolo rosso», l'egemonia statunitense si smaschera totalmente del suo primitivo alibi per manifestarsi per ciò che realmente rappresenta: una potenza coloniale pervasa da uno spirito messianico di redenzione mondiale.

Pertanto la certezza di un'Europa unita e sovrana si allontana di molto dal traguardo della realtà. In particolar modo alla luce di una serie di sgambetti economici programmati a più riprese dalla Federal Reserve e dai finanzieri di Wall Street ai danni dell'Europa. Non ultimo l'annunciato aumento del tasso di sconto da parte del direttore della Banca Federale. Apparentemente (come sempre nella politica statunitense), tale manovra è stata eseguita nel timore di una ripresa dell'inflazione e quindi per ragioni di politica economica interna. In realtà, si è concretizzata l'occasione di poter acchiappare, per così dire, due piccioni con una sola fava. Da una parte, frenando il progredire dell'inflazione, dall'altra tentando di bloccare la realizzazione dell'Euro al fine di poter differire il più possibile la nascita di un temibile concorrente europeo. Un aumento dei tassi di interesse finisce sempre, o quasi, per creare scompigli di notevole portata anche sulle borse europee con effetti monetari e finanziari quali il rialzo del costo del denaro e quindi il rafforzamento, gioco forza, del Marco tedesco sulle altre valute continentali. Tali manovre possono costare parecchio ai Paesi della vecchia Europa, e mettere ancor più in difficoltà quelle nazioni destinate ad entrare nell'Unione Europea in un secondo tempo. Non solo; tali contraccolpi finiscono con l'incidere negativamente sul debito pubblico di alcuni Paesi che rappresentano la bestia nera dell'Europa.

Questa unione a tinte rosse e rosa non potrà mai proclamarsi realmente tale fin quando non riuscirà a trattare con gli Stati Uniti su un piano di parità e con la necessaria determinazione. La recente riunione del G7 (o G8), avvenuta nella «tana del lupo», ha appalesato chiaramente, con l'arrogante diktat di Clinton, quale sia la strategia USA: imporre a tutti, ad ogni costo, il modello americano. Le perplessità non sono state poche, in particolare da parte di Francia e Germania, ma da un timido dissenso ad un rifiuto consapevole la strada è ancora lunga.

 

La sfida della globalizzazione

La sfida della globalizzazione altro non è che l'apertura dei mercati Centro-europei, Est-europei ed Est-asiatici che l'impero comunista aveva congelato commercialmente per oltre mezzo secolo. Il pericolo è molto più insidioso e devastante di quanto l'Europa possa immaginare. Ma è possibile raccogliere tale sfida? Certamente! Ma solo a patto che esista una vera unità di intenti cementata da strategia politico-economica che superi e demolisca l'attuale frantumazione. Per fare ciò è necessario investire il più possibile nella ricerca tecnologica, che rappresenta comunque la vera ricchezza di un futuro che nel giro di un paio di decenni potrebbe creare una sovrastruttura economica d'élite nella quale la classica legge di Mercato, domanda ed offerta, potrebbero non trovare più alcun senso, lasciando posto ad una netta divisione fra detentori e fruitori di tecnologia. Da una parte pochi Paesi, dall'altra il resto del Mondo.

Resta comunque l'incognita del mercato del lavoro Est-europeo ed Est-asiatico che di fatto si presenta più competitivo e qualificato (dal punto di vista tecnologico). Inevitabilmente questa offerta di lavoro a basso costo ha prodotto la trasmigrazione di aziende europee verso Est e il conseguente aumento della disoccupazione in Europa. È un cane che si morde la coda. Ma a capovolgere questo nuovo scenario della economia mondiale non saranno certo velleità protezionistiche che, come ben sappiamo, hanno giocato un ruolo non marginale nella caduta del comunismo e nel suo conseguente ritardo tecnologico. Per il momento nessuna forza politica è stata in grado di dare una risposta efficace a questa minaccia incombente; forse si attende un miracolo o si pretende di affrontare il problema al modo in cui si affrontò la minaccia turca: sperando che da Istanbul a Vienna la marcia degli «infedeli» si esaurisse da sé!

 

Disoccupazione

È per l'Europa contemporanea una vera tragedia che da molti anni tutti, almeno a parole, intendono debellare ma con scarsi risultati visto e considerato che aumenta progressivamente di anno in anno. Un tempo la sinistra cercava di combattere la disoccupazione attraverso una politica economica improntata al rilancio attraverso il consumo e la conseguente ridistribuzione dei redditi di keynesiana memoria. Oggigiorno troviamo sulle barricate privatizzatrici, antistataliste, antisindacali e deregolamentatrici anche i nipoti di Marx, Lenin, Bernstein.

La nuova sinistra rampante è ottimista ancor di più degli ex-socialisti del garofano e, più di loro, è affascinata dal vento di destra. Per cui c'è poco da stare allegri quando la sinistra imita la destra per timore di sbagliare ancora una volta. Forse si arriverà a seguire gli esempi anglosassone e statunitense fino in fondo. E, a dire il vero, ciò ci ricorda molto da vicino il gioco dei vasi comunicanti.

La tanto auspicata deregolamentazione del mercato del lavoro, infatti, offrendo stipendi più bassi privi di garanzie sindacali, incentiva indubbiamente l'imprenditore e riduce in parte la disoccupazione. Allo stesso tempo, però aumenta anche il numero dei poveri e guardando oltre gli angusti confini del momento un tale sistema che riduce la disoccupazione in cambio della progressiva disgregazione dei ceti medi (tenuti a galla e fortificati dallo Stato sociale!) produce inevitabilmente in tempi medio-lunghi una progressiva riduzione dei consumi interni, che se non tamponati da una fortunosa massa di esportazione si traducono inevitabilmente in sovraproduzione e portano ad un disastro economico.

Pertanto o la sinistra europea avrà il coraggio di opporsi alle avventurose tentazioni statunitensi oppure giocherà d'azzardo fino in fondo ed imboccherà il lungo e buio tunnel liberale anglosassone dal quale nessuno è in grado di assicurarci l'uscita, travolgendo così quel fragile equilibrio sociale che l'Europa ha costruito con fatica ed ha saputo sinora mantenere.

 

La Cultura

Se l'Europa del futuro vorrà ancora rappresentare la continuazione culturale del passato, dovrà contrastare a fondo l'importazione di sottocultura statunitense, nonché la produzione europea mutuata dalle forme più deteriori del degrado culturale americano. Senza dimenticare che buona parte della cosiddetta sinistra liberale è impregnata sino al midollo di americanite. Oggi più che mai gli Stati Uniti rappresentano un vero e proprio «Biafra dello spirito». Un paese destinato ineluttabilmente alla mercificazione d'ogni attività umana, sia culturale che spirituale. Non è un caso infatti che lo studente americano che fino a poco tempo fa doveva includere per l'esame d'inglese almeno uno dei grandi autori classici della letteratura, oggi possa presentare l'analisi delle «soap operas» (le telenovelas americane) o la letteratura sul pugilato. Questa disperata corsa verso il nulla ha un senso: Milton, Shakespeare, o Byron non producono soldi, il pugilato e le soap operas sì. Quindi è necessario garantire lo studio di ciò che un domani può fruttare dollari, ...possibilmente in fretta! In questa pseudo-civiltà, ove tutto ha un prezzo, la sinistra pare aver trovato la sua sede naturale, spingendo la trasgressione al mondo borghese fino a divenire essa stessa edificatrice più autorevole della trasgressione borghese!

 

L'Esercito

Non potrà esistere un'Europa sovrana fino a quando gli Stati Uniti manterranno in piedi l'apparato militare della NATO, che a rigor di logica avrebbe dovuto scomparire completamente in seguito alla fine dell'organizzazione militare d'Oltre cortina. Ma come ben sappiamo così non è stato, ed a sei anni dalla definitiva scomparsa del Patto di Varsavia e del COMECON, la NATO intende espandersi ancora, inglobando il Nord-Est europeo al fine di accerchiare il colosso tedesco Del resto è più che naturale voler comprendere fino a che punto la sovranità limitata dei vari Paesi europei permetterà in futuro un netto rifiuto all'appartenenza alla predetta Organizzazione. Partendo dal presupposto che l'Europa occidentale sia matura e non divenga come quella orientale, ormai orfana del Patto di Varsavia, gravida di tensioni e rivendicazioni, è necessario arrivare al più presto a un organismo militare europeo, libero e sovrano. Costerà molta fatica, ma un giorno sarà possibile coronare tale sogno (Gran Bretagna permettendo!), facilitando un progressivo e indolore distacco basato sulla caduta di quei presupposti politici e militari che avevano sancito la nascita della NATO. È nostra convinzione che se l'Europa unita, veramente unita, chiederà con diplomatica insistenza la progressiva riduzione delle forze NATO sino alla loro scomparsa, gli Stati Uniti difficilmente potranno rifiutare, anche se è logico pensare che tenteranno ogni sorta di diavoleria per non perdere la partita. Ma per arrivare a ciò è necessario che tale obiettivo rimanga prioritario nelle future strategie dell'assetto geopolitico europeo unitario.

È comunque difficile immaginare che tali mastodontici problemi possano essere risolti in tempi brevi; e, comunque, il più elementare sforzo in questo senso non avrà alcuna consistenza finché non sarà proprio di un'Europa realmente decisa a porsi in essere come un continente unito, di Stati sovrani, culturalmente ed economicamente, orgogliosi della propria indipendenza. In caso contrario l'Europa finirà per raccogliere in politica estera quel ruolo poco onorevole che fu dell'Italia ed allora socialdemocrazia o socialismo, sinistra o destra, risulteranno solo parole vuote nel significato quanto nei contenuti.

 

Giovanni Mariani

 

 

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