da "AURORA" n° 42 (Luglio 1997)

EDITORIALE

Considerazioni attorno al Trattato di Maastricht

A. De Ambris

Una necessaria premessa

L'editoriale del mese di aprile ("Aurora" n° 40, "Globalizzazione e unità europea") ci è valso l'accusa di essere eccessivamente «teneri» nei confronti del governo Prodi che, a detta di tali contestatori, altro non sarebbe se non una pletora di trasformisti incapaci, tra l'altro, di dare soluzione ad uno solo dei problemi nazionali. Giudizi che ci hanno sconcertato sia per la superficialità delle argomentazioni a supporto che per i toni utilizzati, dai quali si evince che alcuni lettori non hanno del tutto digerito passate sbornie di anticomunismo tanto viscerale quanto casareccio. Affermiamo subito, per sgombrare il campo da ulteriori possibili malintesi, che la nostra presunta simpatia per il prof. Prodi e per l'on. D'Alema esiste solo nell'immaginario, un po' retrò, di questi critici essendoci noi limitati a riconoscere, nel contesto di una lunga analisi, la congruità delle scelte governative in una fase storica complessa e rischiosa, per superare la quale occorrevano coraggio e spregiudicatezza, nonché una chiara visione degli interessi primari della Nazione. Doti non comunemente riscontrabili tra gli esponenti del ceto politico italiano.

Lungi da noi, comunque, la pretesa d'avere la verità in tasca, ritenendo indiscutibile e definitivo quanto andiamo scrivendo, pretenderemmo solo, se non è chiedere troppo, critiche e rilievi di «spessore» e non stroncature immotivate ed aprioristiche, dettate da rancorose e umorali prevenzioni da parte di chi non ha ancora interiorizzato i mutamenti epocali verificatisi nell'ultimo decennio, e ancora rifiuta di prender atto della realtà oggettiva, all'interno della quale il governo Prodi si trova ad operare, riteniamo doveroso ribadirlo, con notevole perizia e incisività.

L'altro aspetto della questione, non preso in alcuna considerazione da questi lettori insoddisfatti è che un movimento che si definisce di sinistra (e che senza alcuna ambiguità o riserva mentale indicò ai propri militanti di votare Rifondazione e l'Ulivo alle elezioni politiche dell'aprile '96 e nelle recenti elezioni amministrative parziali ha candidato più di un militante nelle coalizioni di sinistra), per quanto questa definizione abbia forti valenze eretiche ed eterodosse, non può sottrarsi ad un confronto con le sinistre istituzionali apprezzandone e criticandone, in ragione di una propria visione, le scelte ed i risultati. In concreto si tratta, almeno questo è il nostro parere, di andare oltre i giudizi precostituiti e le categorie interpretative che, se erano errate prima dell'Ottantanove, dopo il crollo degli equilibri di Yalta e il rimescolamento di carte che ne è seguito, appaiono oggi lontane anni luce dalla realtà fattuale che quotidianamente si evolve dinanzi ai nostri occhi.

Lo scontro per l'egemonia mondiale, infatti, al momento tutto in chiave economica, è di livello tale che le singole nazioni europee -Francia e Germania comprese- non sono in condizioni di affrontare con qualche probabilità di successo procedendo in ordine sparso. Il maggior merito del governo Prodi, e del centrosinistra che lo ha sostenuto, consiste nell'avere recepito la necessità strategica di rispettare l'appuntamento di Maastricht, pena un ridimensionamento politico-economico dell'Italia ed una crisi, dagli esiti non scontati, per la stessa Unità della Nazione. Non è poco!

Poi, e li abbiamo chiaramente esposti, i dubbi sul Trattato di convergenza monetaria sono tanti. Anzi possiamo dire che un'Europa costruita col bilancino dei banchieri un po' ci ripugna. Ma siamo consapevoli che alternative plausibili non c'erano e non ci sono. Questo aspetto non va sottovalutato contrapponendogli, demagogicamente, la necessità di costruire prima, o unitamente a quella economica, l'Europa politica e sociale. Anche noi ci siamo per un lungo periodo attestati su questa posizione, per poi domandarci: esistono oggi all'interno degli Stati nazionali europei élites politiche in grado di governare un processo di unificazione? Basta guardarsi attorno per avere la risposta! L'unità, e i pochi politici realisti del Vecchio Continente se ne sono resi conto, poteva attuarsi solo se le singole nazioni v'erano costrette da un vincolo esterno; il caso dell'Italia ne è una prova inconfutabile. Infatti, il nostro risanamento economico non sarebbe stato possibile senza il decisivo aut aut impostoci dai vincoli di Maastricht.

In quest'ottica, pur mantenendo intatte tutte le nostre riserve mentali su un Europa eccessivamente sbilanciata in senso economicista, comprendiamo la necessità strategica del piano di convergenza monetaria e la irreversibilità del processo che questa ha innescato. Una strettoia inevitabile in assenza di credibili percorsi alternativi.

All'interno di tale scenario l'azione del governo italiano è stata coerente e coraggiosa -basti pensare al crollo di simpatie per la sinistra-, e pur stretto nelle maglie di una situazione economica pregressa, nella quale gli spazi di manovra erano incredibilmente ridotti, ha caparbiamente perseguito un risanamento finanziario che solo qualche mese addietro sembrava impossibile operando nel contempo un recupero di sovranità nazionale che i governi precedenti avevano ceduto: agli USA sotto l'aspetto politico-militare ed a Germania e Francia, in tempi recenti, in campo economico-politico.

La spregiudicatezza con la quale la diplomazia italiana -abituata ad agire all'ombra di quella anglosassone, prima inglese poi statunitense, accontentandosi delle briciole commerciali e politiche che queste si degnavano di concedergli- si muove in Africa, Medio ed Estremo Oriente, è segno inequivocabile di un ritorno del nostro paese ad una pur timida politica di interesse nazionale. Tale tendenza si è manifestata con ancora maggior vigore nell'intervento in Albania, nel quale abbiamo svolto, pur tra tante e non sempre comprensibili contraddizioni, un ruolo di primo piano.

Una serie di dati positivi inficiati, in parte, dalla politica delle privatizzazioni, tra l'altro economicamente poco vantaggiose, che hanno depauperato parte consistente del patrimonio pubblico. Un errore gravissimo, anche in vista della prospettiva europea in cui diventano vitali i cosiddetti «sistemi-paese» per i quali è richiesta integrazione ed armonizzazione produttiva tra le varie branche dell'economia che solo lo Stato può attuare.

Non pensiamo sia agevole o semplice contrastare ed eludere, nella fase attuale, le logiche totalizzanti del libero mercato, ma certo la resistenza della sinistra è stata -ad eccezione di Rifondazione Comunista- inconsistente.

Una Sinistra solidarista e socialista dovrebbe avere coscienza dei rischi insiti nel consegnare al capitale apolide settori cardine dell'economia, come sono quelli di interesse sociale (farmaceutico, energetico, alimentare) o tecnologico (informatica).

 

Realtà e menzogna sul modello economico USA

Nel recente summit dei paesi industrializzati (G7) a Denver, Bill Clinton ha, nell'ottica americana, esposto ai partners un prolisso documento con le più spinose questioni del mondo. Stranamente, ma non tanto, la parte centrale e più significativa della filippica del Presidente americano era tutta incentrata nel magnificare il modello economico e sociale degli States ed egli consigliava caldamente, e poco diplomaticamente, Italia, Francia e Germania di adottarlo, viste le difficoltà di bilancio delle tre nazioni europee. Durissime le reazioni di Chirac e Kohl, per quella intollerabile ingerenza americana; più compassata la replica di Prodi limitatosi ad esaltare il modello produttivo italiano imperniato sulla piccola e media impresa.

La stampa italiana non ha perso l'occasione di incensare le bacchettate distribuite da Clinton (qualche imbrattacarte l'ha spudoratamente definito «un discorso imperiale») a riprova che spesso, come vedremo, la sudditanza e l'esterofilia dei giornalisti italiani è frutto o della più crassa ignoranza o della più smaccata malafede. In realtà le raccomandazioni agli europei nel discorso pronunciato da Clinton a Denver, non erano dettate dalla sicurezza, o se preferite dalla boria, del vincente né tanto meno dalle caratteristiche messianiche in cui, il Presidente a stelle e strisce, ha circonfuso il presunto «miracolo americano" (la definizione «indispensable nation» si commenta da sola), ma da più concreti ed impellenti interessi economici delle multinazionali statunitensi di cui il marito di Hillary si è fatto portavoce.

La business comunity americana, infatti, è seriamente preoccupata causa le crescenti difficoltà che vengono poste al fluido scorrere dei propri affari all'interno di alcuni paesi UE. Ad esempio, Washington non ha digerito che la Francia, in sede di nuovi accordi GATT, abbia tenuto una netta posizione di chiusura sui diritti di proprietà intellettuale -cinema, tv e musica- che sono alcune delle voci economicamente più consistenti del made in USA: né è stata apprezzata l'opposizione europea alla fusione Boeing-Mc Donnell Douglas, che consentirebbe alla industria aeronautica statunitense di agire in regime di quasi monopolio, danneggiando enormemente il consorzio europeo Airbus; l'impugnazione del commissario europeo per la concorrenza Van Miert, è un segno che gli europei non intendono più sottostare docilmente alle imposizioni americane, come dimostra anche la querelle sugli effetti extra territoriali della legislazione statunitense in relazione alla pretesa di imporre alle imprese europee con interessi negli States il rispetto della legge Helms-Burton sulle sanzioni a Cuba.

Per quanto riguarda i termini del sedicente «miracolo americano», i numeri pubblicizzati sono palesemente falsi come ha dimostrato un lungo e circostanziato articolo dell'economista Marcello De Cecco (1) basato sui dati d'una relazione tenuta da Joseph Fitchett, capo- redattore all'"Herald Tribune", in un convegno della German-American Foundation a Bonn in Germania. La relazione di Fitchett riprendeva uno studio dei più quotati economisti statunitensi curato da Richard Freeman, docente all'Università di Harvard .

Tralasciando i 40 milioni di poveri e le considerazioni sul lavoro minorile, di cui la «indispensable nation» detiene il primato mondiale ad onta delle mirabolanti affermazioni del suo Presidente, e non soffermandoci sui milioni di «working poors», che per sopravvivere sono costretti, stante la totale deregulation del mercato e l'inesistenza di minimi salariali garantiti, ad accettare salari da Terzo mondo in un paese ove il costo della vita è altissimo, la percentuale dei disoccupati negli States è di parecchio superiore a quel 5-6% fornito dalla maggioranza dei mezzi di informazione a sostegno della tanto celebrata ripresa economica degli USA. I dati forniti dal governo americano «non prendono in considerazione un milione e mezzo di maschi, in età lavorativa, in carcere e gli otto milioni di maschi sottoposti a libertà vigilata che da soli rappresentano il dieci per cento della forza lavoro maschile americana». (2)

Tenendo conto dei maschi in libertà vigilata che lavorano, il tasso di disoccupazione americano e di oltre il 12%, ben al di sopra di quello ufficiale. Questi dati confrontati con quelli dei paesi della UE, ove la percentuale complessiva di criminalità è circa il 10% di quella USA, danno bene l'idea di quanto sia eccessiva e tronfia la pretesa di Clinton di distribuire «consigli agli alleati». E così poco retorica ci pare la prosa del De Cecco che nel contesto dell'articolo tra l'altro si domanda: «ma che razza di società è quella in cui il 10% della forza lavoro maschile adulta è in carcere o in libertà vigilata e almeno un altro 5%, ma forse molto di più, è pagato per difendere il resto della popolazione dai crimini dei primi? Che significa risparmiare sulle spese sociali per aggiungere uomini e armi pesanti alla dotazione di forze di polizia che assomigliano sempre più ad eserciti di repressione interna e costringere i privati ad organizzare le proprie costosissime reti di protezione fisica?». (3)

Nell'immagine cara agli esegeti del libero mercato, di un pianeta regolato da niente altro che non sia la crescente e forsennata libertà di scambio, non trovano spazio alcuno le considerazioni del De Cecco, né riflessioni conseguenti sul futuro d'un pianeta dominato dall'egoismo individuale. Forse che una società formata da una maggioranza di sfruttati, da due consistenti minoranze, una di criminali e l'altra di poliziotti, con una esigua élite di affaristi che domina su tutto e tutti sia preferibile a quella, che pur non è perfetta, nella quale viviamo noi europei? Noi pensiamo di no! Ma all'imbecillità umana non ci sono limiti.

Abbiamo, in più d'una occasione espresso la convinzione che il «modello USA» sia qualcosa di ben diverso da un semplice, quanto ingiusto, «nuovo ordine economico». Recepiamo la globalizzazione finanziaria, politica e culturale, l'asservimento ad un centro di controllo «unico» dell'economia planetaria, quale strumento ultimo, ben più raffinato ed incisivo dei precedenti, delle strategie imperialiste. Un meccanismo in cui le multinazionali assolvono un ruolo determinante nel minare le identità culturali e nell'assoggettare economicamente i popoli: «L'impresa globale non ha più un centro; non è altro che una rete costituita da differenti elementi complementari, sparpagliati nel pianeta e che si articolano secondo una pura razionalità economica, che ubbidisce a due elementi chiave: rendimento e produttività». (4)

Queste strutture sono affiancate nella espansione economica e nella dilatazione delle aree di influenza politica da altre organizzazioni transnazionali quali ONU, Banca Mondiale e FMI che si sono già rivelate determinanti per il controllo di parti consistenti del pianeta. Basti qui ricordare la politica dei prestiti ai paesi del Terzo mondo, in specie quelli ricchi di materie prime, alla quale si accompagna una subdola attività antieuropea, quale quella contro il capitale franco-tedesco di cui l'ultima prova eclatante è il caso del Congo ex-Zaire ove l'appoggio delle multinazionali si è rivelato determinante per la conquista del potere da parte dei ribelli di Kabila nei confronti del quale il FMI ha già allargato i cordoni della borsa.

 

Nazione e Multinazionali

Una delle conseguenze meno appariscenti, ma non meno importanti, del secondo conflitto mondiale è stata quella che agli Stati nazionali, territorialmente definiti con proprie tradizioni culturali e peculiarità sociali, sono stati contrapposti gruppi economici nazionalmente non-definiti, dotati di ingenti capitali, in condizione di trasferire, senza eccessive difficoltà, massicce risorse da un paese all'altro.

In una prima fase, questi potenti «cartelli», non avevano la forza, se non in ben limitate aree come quella latino-americana, africana e asiatica, di condizionare gli indirizzi economici e i sistemi politico-sociali dei paesi ospitanti. Per inciso: alla General Motors sarebbe stato impossibile imporre ai governi italiano e tedesco una politica che penalizzasse Fiat e Mercedes, o alla Nike di svilupparsi nel mercato italiano a danno dell'industria nazionale calzaturiera. I governi, specie europei e statunitense, hanno frequentemente tutelato con legislazioni protezionistiche le loro produzioni nazionali, specialmente quelle del settore manifatturiero. Il «protezionismo» è stata una delle condizioni che hanno reso possibile la Rivoluzione Industriale in Gran Bretagna e nei paesi industrializzati, stimolando la produzione nazionale attraverso l'esclusione della concorrenza esterna e conseguendo così due risultati: mantenere all'interno dei propri confini la ricchezza prodotta (permettendo alla borghesia im-prenditrice l'accumulo del capitale ottenuto attraverso il differenziale di profitto tra costi di produzione e ricavi di vendita) e stimolare le esportazioni in paesi terzi, privi di strutture manifatturiere, nei quali collocare anche i surplus produttivi ricavando, nello scambio, un aumento della ricchezza complessiva nazionale e il dilatamento dell'area d'influenza politica. Non è necessario rispolverare Karl Marx e Rosa Luxemburg per cogliere appieno il significato di ciò che tale processo storico ha rappresentato, con il suo corollario di guerre, commerciali e non, specie per le nazioni tributarie di materie prime e molto avanzate nel settore manifatturiero. Ad esso va certamente attribuito il benessere diffuso dei paesi industrializzati. Viceversa, nelle aree in cui queste condizioni non si sono verificate, Africa, Asia e America latina, le borghesie nazionali si sono affermate solamente come classe parassitaria -non assolvendo a quella funzione «rivoluzionaria» delle borghesie europea e nord americana che, anche per preservare i propri interessi economici, sono state determinanti nei processi d'indipendenza nazionali-, spesso ridotta al rango di ascaro fedele agli interessi coloniali e neo-coloniali delle potenze straniere e loro complice nel bestiale sfruttamento del popolo.

La Nazione intesa non solo come insieme comunitario cementato da un comune sentire di fondo (lingua, tradizioni, confini, storia e quant'altro), ma anche come luogo ove si armonizzano i contrasti economici delle classi sociali che, pur nella discordanza di interessi, trovano all'interno dello Stato nazionale un soddisfacente equilibrio. Lo Stato sociale è diretta conseguenza di questa armonizzazione di interessi, della progressiva conquista di potere politico dei produttori di beni rispetto ai possessori di capitale. La progressiva affermazione economica del capitalismo apolide, la sua pretesa di deregolamentare il mercato e l'enorme concentrazione di potere nelle mani di pochi «eletti» saranno alla lunga letali per gli Stati nazionali se questi non sapranno trovare una risposta all'altezza della sfida. Per quanto ci riguarda, l'Europa è, anche sotto quest'aspetto, l'unica risposta possibile.

Le multinazionali, al momento, rappresentano un'entità economica complessiva di spaventosa potenza. Per farsene un'idea è sufficiente prendere in esame i dati relativi al «Club dei 200» (così son definiti i 200 maggiori gruppi industriali e finanziari del mondo). Tale «Club» controlla, da solo (dati '96) oltre il 35% dell'intero prodotto lordo mondiale, con una crescita esponenziale dei profitti che nel quinquennio '90/'95 è stata del 75%. Contro un simile colosso nessun paese europeo è in condizione di opporre una valida resistenza. È perciò costretto a subire le imposizioni, specie nei settori energetico e tecnologico, del capitale apolide che opera in questi, come in altri settori, in regime di quasi monopolio.

Per quanto riguarda lo specifico italiano, la penetrazione del capitale multinazionale si è accentuata negli ultimi cinque anni. Favorita dalle privatizzazioni dei governi Amato o Ciampi e dalla cessione da parte di industriali privati delle loro aziende. Le multinazionali al momento controllano la quasi totalità della produzione farmaceutica, agro-alimentare, tecnologica. (5) L'accelerazione delle privatizzazioni annunciata da Ciampi e Prodi col colpevole assenso di tutta la classe politica (esclusi Rifondazione Comunista e il partitino di Rauti), rischia di consegnare ai pirati del Duemila le ultime strutture pubbliche italiane creatrici di ricchezza.

La sinistra al governo si è in parte defilata e in parte, specie nella sua componente ulivista e veltroniana, appoggia dissennatamente tale folle politica di dismissioni, dimentica che la presenza in economia dello Stato è, oggi come ieri, vitale. Una sinistra che non abbia completamente abiurato a ciò che fino a ieri era la sua vocazione storica sa bene che lo Stato non può ridursi a questurino, ma ha l'obbligo di difendere gli interessi generali della collettività e di indirizzare lo sviluppo del paese. Non è sufficiente regolare il mercato se lo Stato non dispone degli strumenti idonei a creare le necessarie infrastrutture, incentivare la ricerca, infondere impulso alle innovazioni, intervenire nei grandi progetti, mantenere il controllo dei comparti che sono vitali per gli interessi strategici e per preservare l'indipendenza della Nazione.

 

Euro-Dollaro: dualismo economico e antagonismo geopolitico

Gli interessi europei e quelli statunitensi sono nettamente divergenti. Una constatazione elementare, anche se v'è da aggiungere che per oltre mezzo secolo, dissidi economici e geopolitici sono stati sovrastati dai «bòatos» anticomunisti e dal pericolo, artatamente sovradimensionato, di un attacco sovietico.

Abbiamo più volte sottolineato la strumentalità dell'organizzazione difensiva del Patto Atlantico che si è appalesata in tutta la sua evidenza allorché nel '92 s'è ufficialmente sciolto il Patto di Varsavia. Non solo col venir meno del suo storico nemico la NATO non si è sciolta, ma ha, in gran misura, potenziato le sue strutture, segnatamente quelle di «intervento rapido», che sono già state utilizzate in operazioni definite di «polizia internazionale», in spregio dell'originario carattere difensivo dell'Alleanza.

Le vere finalità dell'Alleanza del Nord-Atlantico erano state già, negli Anni Sessanta e Settanta, rese di pubblica ragione da alcuni intellettuali statunitensi non conformisti (6), i quali rendendo noti documenti del Pentagono, evidenziavano il carattere eminentemente antieuropeo di una organizzazione che si proponeva solo di tenere sotto controllo, procastinandole nel tempo, le risorgenti velleità geopolitiche del Vecchio Continente. Non è un caso che la Francia si sia sempre mantenuta ai margini della NATO, evitando di integrarvi il proprio apparato militare.

Il crollo dell'impero sovietico, la riunificazione tedesca e la riacquistata sovranità dei paesi dell'Europa orientale hanno travolto lo scenario geostrategico in funzione del quale la NATO giustificava la propria esistenza. Nuovi e vecchi attori, per mezzo secolo avvinti nelle spire della politica di potenza statunitense e sovietica, hanno riacquistato la propria libertà. Un vero e proprio terremoto geografico con nazionalità che si frantumavano consensualmente (è il caso di Cechi e Slovacchi) o dopo una sanguinosa resa dei conti come quella, non ancora conclusasi, dell'ex-Jugoslavia. Nel contempo i sanguinosi aneliti delle piccole etnie alla propria indipendenza sconvolgono il Caucaso e, in una sorta di irrefrenabile rivincita allo status imposto dagli accordi di Yalta, Ucraina, Bielorussia e Paesi baltici tornano ad essere entità nazionali e statuali definite.

Il dato più significativo di tale terremoto, per le implicazioni geopolitiche che comporta, è la riunificazione della Germania che, riproponendo, seppure in termini non drammatici, l'esistenza al centro dell'Europa di una potenza economico-politica, e in prospettiva militare, stimola il riemergere di quel riflusso condizionato antitedesco, specie nei Francesi, e che è stato una costante della storia europea negli ultimi cento anni. Tutti elementi questi che hanno spinto Helmut Kohl, del quale non si può negare l'acume politico, ad accelerare il processo, già in atto, di integrazione dell'Unione Europea, stringendo con Parigi un accordo che imponesse agli altri partners, o almeno a parte di essi, una convergenza dei parametri economici in grado di portare nel breve periodo ad una rapida realizzazione dell'Unione. La tesi delle «Kerneuropa» (il «nucleo duro») nasce in funzione dell'asse Parigi-Bonn con l'intento di dissipare le reciproche diffidenze, dando vita ad una Europa nella quale la «Framania» assumeva il ruolo guida. (7)

L'idea di Kohl e Mitterand era di costruire una Unione a cerchi concentrici: il primo comprendeva i paesi detti appunto del «nucleo duro», Olanda, Francia, Lussemburgo, Austria e Germania; del secondo facevano parte i paesi del cosiddetto «club med», Italia, Portogallo, Spagna e Belgio; nel terzo tutti gli altri. Questo era l'obiettivo inconfessato dei parametri imposti dal Trattato di Maastricht. I monetaristi tedeschi, in testa il presidente della BundesBank Tietmayer e l'attuale Segretario di Stato Jürgen Stark, ritenevano impossibile per i paesi del «club med» rientrare in tempo utile nei parametri. Previsione, come tutti sanno, rivelatasi errata. Infatti, dopo le virulenti polemiche sul «complotto» anti-italiano (8), nel quale c'è parso di cogliere segnali di manovre di più ampio respiro inglesi e statunitensi, Spagna, Portogallo e, in special modo Italia, accentuavano i tempi del loro risanamento economico costringendo la Germania ad accantonare definitivamente la tesi della «Kerneuropa». Al momento è ragionevole ipotizzare che dal varo dell'Unione Monetaria rimarranno escluse, su loro esplicita richiesta, l'Inghilterra (da sempre contraria ad una integrazione europea che comportasse cessione di sovranità nazionale. Scelta alla quale, a nostro avviso, non è estraneo il rapporto privilegiato con gli Stati Uniti) e la Grecia, gravata da una situazione economica difficilissima.

Per dare l'idea di cosa significhi l'unione monetaria basti pensare che l'export ('96) dei Paesi UE ammonta (Inghilterra e Grecia escluse) ad oltre 1600 miliardi di dollari (quasi tre volte superiore a quello degli Stati Uniti, 625 milioni di dollari). È anche vero che la supremazia europea è oggi in parte annullata da una serie di benefici riflessi dei quali usufruisce l'economia americana, grazie alla circostanza dell'essere, il Dollaro, la principale valuta di riserva delle banche centrali, europea e giapponese comprese, e di essere di norma utilizzato come moneta terza nelle transazioni commerciali internazionali. Il «signoraggio» monetario della divisa statunitense è estremamente produttivo se si pensa che le obbligazioni in dollari emesse dalla Federal Reserve, costituenti gran parte delle riserve valutarie dei singoli Stati, ammonta alla folle cifra di 3000 miliardi.

Uno studio della banca centrale americana calcola che approssimativamente la nascita dell'Euro ridurrà da subito di oltre 200 miliardi di dollari (oltre 350 mila miliardi di lire italiane) la richiesta delle banche europee di valuta statunitense; è facile immaginare le conseguenze per l'economia USA. Inoltre, fanno notare gli economisti americani, l'Euro sarà da subito un temibile concorrente del Dollaro come moneta terza di scambio sostituendolo del tutto negli scambi intra-europei e in quelli tra Europa e paesi terzi (oltre il 35% del mercato), insidiandone le posizioni anche negli scambi interni alle nazioni che non hanno una moneta convertibile. (8)

Il ribaltamento dei rapporti di forza insito nelle cifre che abbiamo sopra elencato è tale da non lasciare indifferenti né gli gnomi di Wall Street né gli strateghi del Pentagono. Gli Stati Uniti non possono assistere indifferenti al crollo della posizione di predomino e già si delineano chiare le strategie di contenimento rispetto al pericolo di una concorrenza europea oggi concreta solo sul piano economico ma che non tarderà a manifestarsi anche in quello geopolitico.

Noi, come già detto più volte, restiamo convinti che la globalizzazione può essere sconfitta solo attraversandola, ossia accettandone la sfida. Siamo dell'opinione, come crediamo lo siano gli strateghi del Pentagono e gli esperti dei vari think tank statunitensi, che non vada attribuito solo alla stizza per il netto rifiuto di Clinton all'ingresso di Romania e Slovenia, sponsorizzato da Italia e Francia, nell'Alleanza Atlantica, il sibillino commento del Presidente Chirac: «La NATO non durerà a lungo».

 

A. De Ambris

 

Note:

1) Marcello De Cecco, "Lavoro: il trucco americano", "la Repubblica, 7 luglio '97

2) ivi

3) ivi

4) Ignazio Ramonet, "Maniére de Voier" n° 18

5) Elenchi delle industrie italiane da "Il Sole-24 ore", 4 aprile '93 - "Naufragio del Farmaco", "la Repubblica", 11 novembre '93 - il mensile, "La chimica e l'Industria", settembre '96

6) John Kleeves, "Vecchi Trucchi", "Le strategie e la prassi della politica estera americana, dalle armi nucleari in Europa, all'asservimento dell'America latina, al traffico internazionale di droga ed altro", Il Cerchio Editrice, Rimini. - Williams J Pomeroy, "American Neo-Colonialism", New York '70. - Frederik L. Schuman, "The cold war: retrospect and prospect", Luisiana State University Press '62.

7) Enrico Letta, "Passaggio a Nord-Est", Il Mulino n° 2, Bologna, febbraio '97

8) "Financial Time", "No to the fudge romana", 20 novembre '96, nonché, nello stesso, "Letting Italy down gently", 5 febbraio '97

9) Stefano Cingolani, "L'Unione monetaria non convince gli americani", "Limes" n° 2, giugno '97

 

 

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