da "AURORA" n° 42 (Luglio 1997)

LA POLEMICA

Ecco la Bibbia anti-mussoliniana e filo-venticinqueluglista del post-fascismo

Enrico Landolfi

 

Il nucleo forte di questo saggio di Pierfranco Bruni -licenziato alle stampe nel corrente anno per i tipi della Serarcangeli Editrice di Roma e introdotta da un rapido e succoso scritto del ex-Presidente della Repubblica Giovanni Leone- è da individuare non solo nella completa vicenda di Giuseppe Caradonna, ma anche, staremmo per dire soprattutto, dal suo pensiero politico, caratterizzato da un così marcato livello di specificità da collocare, via via che emergevano e si accentuavano le contraddizioni rispetto alla linea mussoliniana, colui che la incarnava in un ruolo di opposizione di destra all'interno del Regime. Il Caradonna arriverà al punto di solidarizzare con i 19 che nel luglio '43 misero in minoranza il Duce nel Gran Consiglio del Fascismo e di criticare Grandi per non aver dato maggiore evidenza all'operazione svolgendola nella Camera dei Fasci e delle Corporazioni, così candidandosi, come capo di una nuova maggioranza, alla successione di Mussolini. Monarchico fervente, riterrà legittima la sostituzione di quest'ultimo con Badoglio e, conseguentemente, si guarderà bene dall'aderire alla Repubblica Sociale Italiana e dall'approvare la sentenza del Tribunale di Verona. Non parliamo, poi, del rivoluzionario Manifesto scaligero con relativa socializzazione, per lui, conservatore con radici storico-culturali nella scuola di Antonio Salandra, una autentica bestemmia. Tutto ciò, comunque, non impedirà né a lui né al Capo del Fascismo di incontrarsi durante la RSI e di intrattenersi costruttivamente (del resto, aveva il figlio Giulio Pio volontario nei reparti repubblicani); così come non vieterà ai partigiani di catturarlo e condannarlo a una fucilazione alla quale miracolosamente riuscirà a scampare con la partecipazione straordinaria di Padre Pio, che in tal modo potrà incassare la sua conversione con ovvio trasferimento da una loggia massonica cui era affiliato ad una parrocchia cui non era abituato ma alla quale ben tosto si abituò. A guerra conclusa uscì splendidamente dalle indagini espletate sul suo conto dalla "Commissione provinciale per le sanzioni contro il fascismo" i cui componenti non si limitarono a mandarlo assolto, ma elogiarono il suo comportamento durante il Ventennio collegandolo a valori quali la tolleranza, la moderazione, il senso umano. Ritiratosi dalla politica per esclusivamente dedicarsi alla professione forense, morì nel '63.

 

Vediamo, ora, di cogliere aspetti salienti del Caradonna-pensiero mediante l'estrapolazione di qualche brano fra i più significativi dell'interessante saggio di Pierfranco Bruni. Questo, anzitutto: «Caradonna applicò in politica tutta la sua conoscenza dei problemi economici e giuridici. Aveva seguito la scuola di Maffeo Pantaleoni e fu seguace di Vilfredo Pareto e delle sue teorie. Infatti non credette mai a pseudo-riforme socio economiche, ma riteneva che l'economia politica, soprattutto quella affermata dalla scuola italiana, avesse confini invalicabili senza i quali si danneggiavano proprio gli strati più umili del popolo. Di Maffeo Pantaleoni fu seguace nella avversione al paternalismo, al dirigismo, al collettivismo in tutte le sue forme che, secondo quanto Caradonna stesso lascia scritto, determinano una putrida palude dove alligna il trionfo della incompetenza, dell'incapacità, dell'arrivismo, dell'avidità senza freni e senza misura che finisce nel parassitismo, nella rovina, nella miseria universale. Caradonna fu sempre sostenitore della validità della libera concorrenza, che considerava una forza potente simile alla legge di gravità».

Sarà appena il caso di significare che di tutto codesto catastrofismo destrorso non condividiamo neppure una sillaba. Ci meravigliamo, anzi, che l'on. Giuseppe Caradonna non si rendesse conto del fatto che la stessa sua presenza nel contesto fascista non aveva la benché minima, plausibile motivazione. Cosa ha infatti a che vedere la giaculatoria ultra-liberista caradonniana con le connotazioni corporative dell'assetto littorio, con l'asserto mussoliniano «Tutto nello Stato, nulla fuori dallo Stato, nulla contro lo Stato», con la forte sottolineatura del ruolo pubblico nell'economia, con l'«umanesimo del lavoro» teorizzato da un Giovanni Gentile che nel discorso sul Campidoglio del giugno '43 testualmente affermava: «colui che oggi dichiara di essere un comunista non è che un corporativista impaziente», con il sindacalismo in camicia nera che per i contenuti elaborativi ed operativi del suo modo di essere suscitava perfino l'interessante attenzione in Parigi di Ruggero Grieco il quale ne seguiva le mosse e ne scriveva per incarico della segreteria su "Stato Operaio", organo teorico del PCI?

Dunque, il Nostro se fu distante trilioni di anni luce dalla odiatissima Sinistra, era tutt'altro che propinquo al fascismo correttamente e rettamente inteso. Diciamo, allora, che il famoso Capo della cavalleria fascista durante la "Marcia su Roma" viene in evidenza come liberale di estrema destra di confessatissima ispirazione salandriana indossante la camicia nera al solo fine di combattere ad armi pari -sul terreno della forza fisica e delle armi da fuoco- con socialisti e comunisti. Infatti il Bruni definisce il particolarissimo fascismo di Don Peppino un «liberalismo a mano armata».

Della qual cosa, peraltro, il saggista appare nettamente compiaciuto e trattandosi di un noto intellettuale notoriamente espressivo in modo culturalmente e politicamente militante delle tendenze e degli orientamenti «di novità» di Alleanza Nazionale, siamo indotti a ritenere che il libro del Bruni, lungi dall'essere il prodotto dello spirito di ricerca e di approfondimento di un uomo dedito agli studi storici, sia viceversa il frutto di un disegno partitivo, di una strategia di recupero di figure storiche -a cominciare da Antonio Salandra- significanti e illustrative di valori di estrema destra assolutamente borghesi, conservatori, élitari nazionalisti di tipo classico, paternalistici, individualisti. Coperti da uno spiritualismo da princisbecco in realtà mascherante interessi di classe, capitalistici, esternativa di un economicismo duro a morire e deciso a contenere con ogni mezzo le spinte emancipative popolari. Insomma, siamo in pieno nello spirito del congresso fondativo di Fiuggi del partito di Fini, sorto con una vaga riverniciatura «antifascista» al solo scopo di poggiare il fucile destinato a sparare contro la Sinistra su una spalla politicamente più idonea alla bisogna. Una razionalizzazione, cioè, della maniera di essere destra in Italia, delle sua azione, dei suoi risultati. E se così stanno le cose -e non vediamo in quale altro modo potrebbero stare- l'amico Pierfranco Bruni non deve adontarsi di queste nostre schiette annotazioni relative ai contenuti e agli indirizzi del suo interessantissimo volume, chè anzi con esse abbiamo inteso attirare l'attenzione del Lettore non solo sull'opera -una miniera di rivelazioni, di notizie, di materiali incontrovertibilmente inediti e di valenza spesso eccezionale-, ma anche sull'autore che alla luce di quanto la sua esposizione dice, e soprattutto non dice ma lascia chiaramente intendere a chi piace capire, si appalesa non solamente pubblicista brillante e di sicura efficacia ma pure ideologo pressoché «ufficiale» al centro d'un importante operazione di rifinitura sulla svolta finiana del gennaio '95. Forse lo stesso Bruni, pur con tutta la sua intelligenza, non si rende pienamente conto della portata del progetto innescata con questo suo "Giuseppe Caradonna e la destra nazionale". Provi tuttavia a fare mente locale, magari riflettendo sui ruoli delle personalità e dei personaggi che intervennero alla presentazione del libro in un lussuoso albergo della Roma bene. Tutta gente molto gettonata; tutta gente insediata nei palazzi capitolini che contano, e non soltanto di quelli dichiaratamente di destra. Tutta gente che si scomoda solo quando c'è qualcosa di importante da fare o da segnalare.

La strategia ideologico-letteraria bruniana, forse inspirata dal summit di Alleanza Nazionale oggi più che mai agganciato al berlusconico rampante, viene in luce solare allorché l'Autore passa dalla certificazione Caradonna-pensiero alla presentazione del Caradonna-azione. Vediamo: «Caradonna durante questi anni ricopre la carica di sottosegretario alle Poste e Telegrafi, quindi come membro del governo è impegnato in un processo di privatizzazione dei telefoni destinati a far parte della società privata TETI. Tutti gli ambienti affaristici sono interessati a questa impresa perché c'è in gioco l'affidamento della concessione di gestione dei lavori.» Ecco quindi opportunamente individuato l'humus ove affonda le sue radici storiche e culturali la metamorfosi opportunista di Fiuggi: quello dello scatenamento istintuale della giungla liberista, individualista ed economicista del fascismo peggiore. Quello che ha messo una pietra tombale sulla programmatica sansepolcrista e ancora è sideralmente remoto della pur precaria e non attuata riorganizzazione corporativa, per non parlare della sacrosanta sovversione socializzatrice. L'unica cosa che confronta in questo revival del dottrinarismo reazionario caradonniano è l'immacolatezza morale dell'uomo, giustamente messa in risalto da Pierfranco attraverso la narrazione del suo rigetto sprezzante di tentativi di corruzione o di coinvolgimento posti in essere dai predetti «ambienti affaristici».

Giuseppe Caradonna fu sempre fedele non soltanto alla persona e, poi, alla memoria di Antonio Salandra, ma anche ai piloni portanti del suo insegnamento -ovviamente arricchito con comportamenti concettuali frutto della sua dissensione teorica, programmatica e operativa all'interno del Regime-, pur se in frangenti decisivi il suo salandrismo ebbe paradossalmente a rivelarsi addirittura dannoso per lo statista oggetto della sua ammirazione. Seguiamo ancora lo scrittore nello sviluppo di un informatissimo argomentare: «Alla fine dell'anno fervono i preparativi per le elezioni che si volgeranno nel '24. Alle elezioni viene presentato il listone nel quale si trovano insieme Caradonna e Salandra. Salandra riscuoteva ancora molto credito anche se era contestato da alcuni fascisti pugliesi. Il suo inserimento nel listone è voluto proprio da Caradonna e Mussolini perché ritengono che l'influenza di Salandra è «assai grande», ma anche perché riscuote vasti consensi delle destre che «anche a livello nazionale si raccolgono intorno alla sua persona. -Caradonna e Salandra sono dunque insieme nella lista di Maggioranza- Il successo sperato per Salandra non giunge: ottiene solo 9.800 voti nella circoscrizione di Bari». Altra sorte, viceversa, riserva al Caradonna la Dea Bendata: «....raggiunge il 15,48 % delle preferenze in Puglia con 43.754 voti; nella sola circoscrizione di Bari raccoglie 2.975 voti. Il prestigio di Caradonna è molto forte».

Come già detto, altro idolo del personaggio di cui veniamo discorrendo fu Wilfredo Pareto. Nei suoi confronti ritenne di dover prendere iniziative come questa: «Caradonna invitò d'Aroma (capo degli universitari fascisti, N.d.R.) a organizzare una delegazione di giovani studenti con lo scopo di recarsi a Losanna a far visita a Wilfredo Pareto, che col suo famoso telegramma aveva invitato Mussolini a marciare su Roma senza esitare. Ma le finalità della delegazione erano ben precise: invocare Pareto a far ritorno in Italia per insegnare a Roma. Pareto era stato nominato subito dopo la Marcia su Roma, su proposta di Mussolini, Senatore del Regno. Il grande economista ricevette i giovani fascisti ma disse che non intendeva far rientro in Patria pur considerando Mussolini insieme a Cavour l'uomo più grande che avesse avuto l'Italia. Era scettico su ciò che avrebbe potuto realizzare nel breve volgere della vita di un uomo e in francese pronunciò queste parole: «le peuple d'Italie a recu trop de coups de pied dans le cul pendant trop de siècles» perché possa essere trasformato, in pochi decenni, da un popolo di servi in un popolo di padroni. «Dopo di che non resta che chiedersi come mai Benito Mussolini, Giuseppe Caradonna, Nino d'Aroma abbiano potuto commettere la solennissima gaffe di premiare, adorare, pubblicamente esaltare e magnificare un uomo che disprezzava e insultava il popolo italiano, rifiutando altezzosamente di stabilirsi in Italia e da ciò non traeva una conseguenza logica e onesta: non accettare la nomina a Senatore del Regno conferitagli dal Re su proposta di quel Capo di Governo.

 

Il top del suo cursis honorum fu la vicepresidenza della Camera dei Fasci e delle Corporazioni, che tenne fino al '38. Poi come avverte il Bruni, «si allontanò dalla politica attiva di primo piano e venne assumendo nei confronti del partito un atteggiamento critico». Per la verità, più che di un comportamento ispirato da insofferenza critica ebbe a trattarsi dell'avvio di una vera e propria «attitudine oppositrice» che finirà per collocarlo ai margini del Regime per quindi determinarne la definitiva fuoriuscita da esso e, soprattutto, dall'ortodossia mussoliniana. In proposito, l'Autore segnala cose oltremodo significative. Queste, ad esempio: «Era insofferente alla eccessiva burocratizzazione e al culto esasperato della personalità». Orbene, passi per l'idiosincrasia antiburoratica, ma la faccenda del «culto della personalità», per di più «esasperato», toccava lo stesso modo di atteggiarsi del Partito verso Mussolini, ormai considerato, specie dopo la fondazione dell'Impero, un Cesare del XX secolo. Da qui lo scontro con Achille Starace, e primieramente con lo staracismo, non fu questione che di un amen. In proposito, l'episodica richiamata dal Bruni è esponenziale, perché fa riferimento ad una minaccia di invio al confino da parte del numero due del Littorio, dardeggiata sul riottoso gerarca pugliese e seguita da un articolo al cianuro, apparso nientepopodimeno nelle pagine de "Il Popolo d'Italia", ossia il quotidiano personale del Duce.

La personalità di Giuseppe Caradonna e quella di Italo Balbo si somigliavano come due gocce d'acqua, ragion per cui non c'è da meravigliarsi se fra i due non tardò a scoppiare una forte amicizia, con conseguente appoggio del Nostro alla candidatura del trasvolatore dell'Atlantico alla carica di Capo di Stato Maggiore Generale delle Forze Armate. E qui emerge un motivo di dissenso con l'Inquilino di Palazzo Venezia, contrario (magari per non irritare il Re) ad interferenze del PNF in vicende e dirigenze delle FF. AA.. E allora è Badoglio ad avere partita vinta. Ovviamente, Mussolini non mancherà di pentirsi della sua arrischiata opzione, particolarmente dopo i disastri bellici in Grecia e dopo il suo siluramento del luglio '43. Converrà, ora, lasciare ancora la parola all'Autore, che, da par suo, in poche righe disvela il motivo principe del suo «tifo» per Italo Balbo: «Balbo proponeva energicamente una vera e propria rivoluzione strategica della organizzazione delle Forze Armate sulla base delle teorie militar-rivoluzionarie del generale Giulio Douhet, che agitarono la classe dirigente dell'epoca. Il generale Douhet scrisse due importanti libri: "Il dominio dell'aria" (1921) e "I probabili aspetti della guerra futura" (1928). In quest'ultimo, con prefazione di Italo Balbo, si prevede la strategia militare della «guerra lampo» con l'impiego determinante dell'aviazione, dei paracadutisti e di truppe d'assalto specializzate. Caradonna era del parere che se avessimo avuto delle forze armate agili avremmo potuto contribuire alla rapida conclusione della guerra in maniera determinante».

 

Caradonna ormai parla di «rivoluzione nazionale tradita» e, in sintonia, almeno su questo tema, con Roberto Farinacci, reclama l'animazione della vita del Regime mediante il dialogo e la discussione apertis verbis. Sostiene, salandrianamente, che il Parlamento non può non essere una cassa di risonanza per il controllo amministrativo del Paese. E con chiaro, polemico riferimento alla gestione dittatoriale del Capo cita Cavour -tradizionale cavallo di battaglia della destra storica- secondo cui «se le Camere vengono umiliate sono le anticamere a essere esaltate».

Con il Duce, don Peppino ha da sempre un rapporto amore-odio. E, soprattutto, più scontri che incontri. Così Pierfranco Bruni descrive uno dei braccio di ferro fra i due: «Mussolini inizia il suo discorso con il mento appoggiato ai pugni sovrapposti, gli occhi bassi, meditabondo... La voce è grave, il suo dire di grande calma ed efficacia. Riferendosi agli scontri domenicali che avvenivano tra fascisti e socialisti, Mussolini dice: « Questo stillicidio di sangue domenicale mi pesa sulla coscienza». Il discorso ha termine e si avverte un senso di comprensione nei confronti dei vecchi compagni e adombra, a detta di Caradonna, la possibilità di future nuove maggioranze di governo. Caradonna è il primo a chiedere la parola, d'intesa con Italo Balbo. Contesta il discorso e il programma di Mussolini che, secondo Caradonna, sconfessano la fiducia espressa al Blocco Nazionale dall'elettorato meridionale. Mussolini... aveva siglato il patto di pacificazione fra socialisti e fascisti. Patto non visto di buon occhio da Caradonna, il quale, in questa occasione, fa presente a Mussolini che il patto di pacificazione affosserebbe la vera spinta ideale dei fasci, sorta, almeno per quanto riguarda il Mezzogiorno, per completare il Risorgimento d'Italia contro i cui valori i socialisti italiani si erano schierati. Caradonna duramente prende le distanze da Mussolini e gli si contrappone pur riconoscendone il genio politico».

 

Come si vede, l'antimussolinismo di Giuseppe Caradonna viene da lontano. Viene, soprattutto, dal timore che, attraverso la pacificazione, si finisca per legittimare i «sovversivi» quali forze di governo. Ma, lo si è visto, la complessiva linea caradonniana è una medaglia: ha, cioè, due facce. E così mentre l'irriducibile nemico della Sinistra spara a palle infuocate contro la medesima, eccolo agitare con il suo liberalfascismo di vaga tinta salandriana tematiche di democratizzazione del Regime. Preme sul Number One perché alla Camera sia restituito un ruolo di dibattito, di confronto, di mediazione politica, nell'ambito del quale fare esprimere anche personalità non fasciste purché di specchiati sentimenti patriottici. Si tenga presente che a Montecitorio è il Nostro a fare il bello ed il cattivo tempo, in quanto il presidente Costanzo Ciano è perennemente costretto a marcare visita a cagione di una seria malattia di cuore. Dice il biografo: «Caradonna in vari colloqui avuti con Mussolini sostiene la necessità di rendere la dittatura meno drastica soprattutto dopo la proclamazione dell'Impero. Era del parere che bisognava avviare il Paese verso una linea liberale». Senza la benché minima intenzione di mettere in dubbio la buona fede di questo vetero-salandrino, non possiamo fare a meno di osservare che il suo liberalismo presenta qualche aspetto personale di troppo. Infatti chiede al Duce che siano chiamati a far parte dell'Accademia d'Italia, pupilla culturale del Regime, i non iscritti al Partito Trirussa e Sem Benelli anche, per non dire soprattutto, in quanto suoi amici. Va da sé che relativamente a tutto ciò, il Romagnolo ed il Pugliese vivono su due pianeti diversi. A tutto ciò e a tante altre cose. Dice il Bruni: «Ma Mussolini non è dello stesso avviso. Si irrita di questa posizione e lo licenzia dalla carica nel momento in cui da vita alla Camera dei Fasci e delle Corporazioni».

Ormai l'uomo politico foggiano è sull'Aventino, in non dissimulata opposizione, sia pure dall'interno, non solo al fascismo ma, anzitutto e soprattutto, allo stesso suo fondatore che totalitariamente lo rappresenta, anzi lo incarna. E, nel richiamare e rievocare aspetti, episodi, dati, vicende della evoluzione caradonniana il saggista accompagna la narrazione con ravvisabile e visibile e partecipata ancorché moderata, cauta simpatia. Et pour cause; perché la svolta venticinqueluglista del gennaio '95 gestita a Fiuggi dal tandem Fini-Tatarella con la partecipazione straordinaria di Domenico Fisichella non ha esaurito la fase di transizione in quattro tempi -neofascismo / fascismo futuribile («del 2000», come diceva il segretario) / postfascismo / antifascismo di destra- necessaria per approdare alla conquista della Seconda Repubblica insieme a Berlusconi e a un po' di frattaglie della ex-DC. Non è da escludere che in interiore homine Pierfranco Bruni non incontri una resistenza ad essere... Fiuggiasco fino in fondo.

Tuttavia e ad onta del linguaggio prudenziale, il libro finisce per assumere l'aspetto di una requisitoria che si fa via via più dura man mano che l'esposizione si concentra sul personaggio Mussolini. Sembra quasi di rileggere le pagine più scottanti del «rapporto Krusciov» relativo alla denuncia nel XX Congresso del PCUS delle colpe di Stalin. Abbiamo, dunque, ora un «rapporto Bruni» in ordine alle responsabilità di Mussolini? E perché no? Il fatto che il suo autore sia uno stimato intellettuale e non un grosso capo politico non osta al paragone fra il '56 antistaliniano e il '97 antimussoliniano. Parliamo, naturalmente, di un impressionante raffronto, non di una identità esaustiva di situazioni e di contenuti. Certo il «rapporto Bruni» non è il «rapporto Krusciev».

Ma quanto gli somiglia!

 

Ma vediamo su quanti ancora e quali componenti poggiava il contenzioso del Caradonna col lider maximo dell'Italia fascista e imperiale. Afferma dunque il novello denunciatore già in camicia nera: «Caradonna esprime nei confronti di Mussolini critiche in modo aperto: si oppone al tesseramento di massa al partito sostenendo che la tessera doveva essere appannaggio di una organizzazione di élite la cui linfa vitale doveva essere costituita dalla libertà di dibattito, evitando il rischio del gerarchismo burocratico. Un'altra protesta manifestata da Caradonna nei confronti di Mussolini si ha quando vengono proclamate le leggi razziali. Caradonna protesta contro il decisionismo, passa alla provocazione. Nella sua abitazione di Roma da un grande ricevimento in onore del suo amico giurista Giorgio Del Vecchio, rettore dell'Università di Roma e del fraterno commilitone colonnello Remo Pontecorvo, medaglia d'oro e capo degli Arditi di Roma. Entrambi erano colpiti dalle leggi razziali. Caradonna sosteneva che tali leggi punivano una comunità ebraica che in Italia si era sempre contraddistinta per fede patriottica e rappresentava una casta cospicua del ceto borghese che aveva partecipato al fascismo della prima ora... Caradonna si rese conto che Mussolini stava perdendo il contatto con la realtà. Ne era mortificato e deluso. Si poneva il problema di una eventuale successione e guardava ad Italo Balbo con molta attenzione ...».

Assolutamente contrario al complesso cerimoniale devozionistico di Palazzo Venezia, negli ultimi anni del Regime l'orgoglioso capo dello squadrismo pugliese si rifiutò di recarsi in visita da Mussolini. Che il buon Pierfranco tratta veramente male quando non resiste alla tentazione di ricordare una frase sprezzante che osò rivolgergli Costanzo Ciano mentre imperversavano le conseguenze del delitto Matteotti: «Il fascismo non può cadere, qualunque cosa sia avvenuta, per i tuoi dubbi. Se non sai stare dietro quella scrivania levati subito. Io sono disposto ad assumere il comando». E ricorda che Caradonna fu del parere di Balbo: soluzione rivoluzionaria affidando i colpevoli dell'assassinio del deputato socialista a un plotone di esecuzione della Milizia, previa condanna inappellabile da parte di un tribunale espresso dalla medesima.

Bruni ricorda che: «già prima dello scoppio della guerra Caradonna si pose il problema della uscita di scena di Mussolini. Lo scoppio della guerra troncò qualsiasi iniziativa». Ormai in irreversibile polemica con il massimo protagonista dell'assetto littorio, egli non solo ritiene ineccepibile in punto di diritto il comportamento dei firmatari dell'ordine del giorno Grandi al Gran Consiglio del Fascismo, ma attacca duramente la condanna alla pena di morte ad essi inflitta dal tribunale speciale di Verona. Lascia scritto: «l'aver consentito la fucilazione di Verona, pur non volendola, è l'unica macchia che storicamente si può attribuire a Mussolini. I fucilati di Verona possono sembrare i capri espiatori degli errori commessi politicamente dallo stesso Mussolini durante la condotta della guerra e negli ultimi anni del Regime». Da notare che dopo la catastrofe militare in Grecia, Caradonna, postosi alla testa delle gerarchie unitamente a De Bono e a Farinacci, chiese a Mussolini la destituzione di Badoglio e il suo deferimento alla Corte Marziale. Venne esaudito solo per la prima richiesta. Nemico acerrimo di Badoglio, favoleggiò di un 25 luglio preparato dal Maresciallo insieme alle cellule comuniste e al servizio segreto dell'URSS. Pur deluso dalla scelta badogliana del Re non lo criticò per la destituzione di Mussolini, convinto, da monarchico «albertino» qual'era, che egli aveva tutto il diritto di revocare il mandato al suo Primo Ministro se costui finiva in minoranza nella votazione di un organo costituzionale. Scrive Bruni, a proposito di Grandi e dei suoi alleati: «Caradonna non espresse alcuna condanna nei confronti dei componenti del Gran Consiglio e non criticò la loro libertà e le loro decisioni, né espresse loro un monito per non aver preso nessuna iniziativa per consentire una continuità di regime nella legalità. Egli era convinto assertore della continuità storica dello Stato italiano ...». Ritenne che il colpo di grazia inferto alle speranze di una non negativa conclusione dell'evento bellico fosse da individuare nella dichiarazione di guerra agli USA.

Naturalmente non venne neppure sfiorato dall'idea di aderire alla Repubblica Sociale Italiana, la qual cosa non impedì né a lui né a Mussolini di incontrarsi a Gargnano. Sulla sponda gardesana il liberale salandrino già in camicia nera venne in evidenza in modo più che mai antidemocratico, reazionario, antipopolare. Infatti, dichiara sempre il Bruni, «raccomanda al Duce di salvaguardarsi e di non fidarsi del popolo nelle cui vene scorreva il sangue dei 600.000 disertori della guerra '15-'18». E tanto per non perdere l'abitudine di scagliarsi anche contro la sinistra interna al fascismo, «supplicò Mussolini di non farsi tentare da consiglieri ideologici e privi di realismo», ossia da Nicola Bombacci, Carlo Silvestri, Ugo Manunta, Luigi Fontanelli, Giuseppe Spinelli, Manlio Sargenti, Francesco Galanti, etc. etc.. Inutile soffermarsi sulle ovvietà anticomuniste e antisocialiste, mentre converrà citare quanto troppo ottimisticamente ebbe ad accennare in relazione a sperati comportamenti della Repubblica Stellata, la cui classe dirigente, secondo lui, «ben conosceva le ragioni dell'Italia nel tentare di scrollarsi dal bieco colonialismo francese e britannico. La stessa indipendenza degli USA era nata dalla rivolta allo spietato colonialismo britannico e, durante la guerra d'Etiopia, malgrado le sanzioni, l'America aveva continuato a rifornire l'Italia di petrolio e le banche americane ad elargire crediti. Caradonna si era dichiarato contrario a suo tempo all'entrata in guerra contro gli Stati Uniti d'America; non ne vedeva le ragioni né le finalità sia dal punto di vista storico che politico. Con Mussolini allora c'era stato uno scontro. Caradonna era convinto che la classe politica americana ben sapeva che Mussolini aveva trasformato l'Italia rendendola un Paese ordinato, evoluto e progredito». Mah!

L'interessantissimo profilo biografico del Caradonna tracciato dal Pierfranco Bruni viene in evidenza quale magazzino di materiali storici di prim'ordine e in gran parte inediti. Il lettore se ha interesse allo scandaglio critico del complesso e non di rado complicato intreccio di tendenze, culture, correnti, accadimenti dentro il Ventennio non può trascurare il contatto con questo densissimo saggio, peraltro di gradevole, intellettualmente accattivante lettura. Noi vogliamo chiudere la nostra presentazione con due rapidi brani attestativi del tormentato rapporto di un fascista parecchio atipico con le caratteristiche del modo di essere borghese e con l'ideologia liberale. Vediamo: «Caradonna restava un convinto assertore della funzione essenziale della borghesia, nella quale aveva sempre creduto e grazie alla quale aveva stretti rapporti di stima con Salandra. Già prima del 25 luglio, in riferimento a un discorso pronunciato da Mussolini, aveva scritto una lettera al Duce invitandolo a non deprimere la borghesia perché, diceva, erano stati i figli della borghesia a portarlo al potere ed erano stati loro la vera ossatura dell'esercito. Ma in Caradonna, in realtà, primeggiava sempre uno spirito liberale e una cultura che non si riconosceva più in quelle indicazioni che andava dando il Regime». Registrato con soddisfazione questo momento dell'elaborazione del suo Biografato, tutto innervato -altro che interclassismo!- su di una rivendicazione di centralità della ideologia borghese di fatto sostitutiva di quella mussoliniana, il nostro Pierfranco così conclude: «l'idea di uno Stato liberale non abbandonava mai il pensiero di Caradonna».

Diciamo la verità: Gianfranco Fini non è certo Giuseppe Caradonna. Ma quanto gli somiglia!

 

Enrico Landolfi

 

Post Scriptum: L'amico nostro carissimo Francesco Grisi, direttore della collana "Nuove pagine - Saggistica" della Editrice Serarcangeli, alla quale è collegato il saggio di Bruni, annota nella banda interna di copertina, e con attitudine sprezzante, questo dato della personalità del notissino leader della frazione più estrema del filone conservatore pugliese: «Caradonna sentì l'influenza della destra salandriana senza farsi catturare dalle sirene del fascismo di sinistra». Ebbene, Francesco ha la capacità di mandarci fuori dai gangheri con le sue performances, perché ben conosciamo i suoi sentimenti, un male culturale, per codesto «fascismo di sinistra». Sentimenti niente affatto negativi, almeno fino alla fondazione di Alleanza Nazionale. Basti dire che un giorno sì e l'altro pure ci magnificava la figura di Nicola Bombacci, che non era, certo, un vero e proprio esponente di quello che il compianto storico Renzo De Felice volle chiamare «fascismo movimento», ma, di sicuro, fu ad esso molto vicino. E, soprattutto, fu propinquo al Mussolini libertario e socializzatore della Repubblica Sociale Italiana.

Francesco, ti scongiuriamo di stare più attento ai suggerimenti della storia (e, soprattutto, della coscienza) che alle suggestioni di Via della Scrofa. Dove a raccontare scemenze ed a pilotare interpretazioni ambigue e culturalmente truffaldine del Ventennio già egregiamente provvede il "Secolo d'Italia", organo di un partito che ha rinnegato i propri morti per meglio fregare i suoi e gli altrui vivi.

 

 

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