da "AURORA" n° 42 (Luglio 1997)

POLITICA E SOCIETÀ

Secessione: arrembaggio della classe ladrona

Giovanni Luigi Manco

 

La globalizzazione dei mercati smantella il compromesso sociale tra capitale e lavoro e cancella milioni di posti lavoro anche nei paesi più potenti finanziariamente ed economicamente. Martin e Schumann prospettano per il futuro una stabile occupazione solo per il 20% della popolazione e la miseria più nera per la parte restante, almeno per quella che non avrà potuto risparmiare abbastanza da approfittare del boom dei mercati azionari. Uno scenario apocalittico, apparentemente senza via d'uscita, che spintona sulla scena la figura di un capro espiatorio (come sempre in questi casi in posizione di minorità, facile oggetto di aggressione morale e/o fisica), contro cui scaricare le frustrazioni sociali. Ieri l'ebreo, oggi il connazionale della regione depressa quale agente basilare delle più gravi emergenze. In Italia l'antica piaga della questione meridionale incancrenisce e riempie di sdegno.

Fino a ieri la disparità di sviluppo tra una parte e l'altra della penisola (disparità presente in quasi tutte le altre nazioni, in grado più o meno accentuato) era tollerata e perfino riconosciuta come occasione di vantaggi reciproci, mentre oggi, al nord, ci si convince di poter uscire dalla stretta economica tagliando i ponti, secessionando dal sud «parassitario» e aggregandosi a qualche altra più solida locomotiva europea. In realtà i problemi italiani sono condivisi dagli altri paesi europei (per restare all'Europa). Non è il sud o il meridionale a fare carestia, ma il sistema capitalistico, la sua maniera di progredire cacciando indietro i lavoratori.

Al sud, a sua volta, i relativi vantaggi zonali, locali, lasciano sperare in un'ampia autonomia comunale.

Un fuggi fuggi generale da sindrome albanese. Chi cerca riparo dal diluvio capitalistico salpando in massa sulla nave Padania, chi sulle scialuppe di salvataggio con i nomi delle città. I legami nazionali, ormai, resistono solo sulla carta.

La Lega Nord di Bossi insorge contro lo Stato centralista che trufferebbe con tributi esosi le regioni ricche per favorire quelle povere. Volendo portare in Europa un nord compatto, sgravato di pesi assistenzialistici, riduce il conflitto di classe all'interno di una prospettiva interclassista nazional-padana. Strana idea questa di Bossi, chirurgo fallito, di improvvisarsi chirurgo politico del Bel Paese, lasciando intendere ai potenziali sudditi che, a intervento riuscito, potranno affilarsi le zanne su un sud dallo sviluppo diseguale per definizione.

La Lega Sud di Cito punta sulle specificità territoriali, da trasformare in autonomie locali, per attrarre investimenti con offerte più appetibili, a danno dei pubblici bilanci. Si sa, i capitali si dirigono dove le aspettative lasciano meglio sperare, per cui la competizione tra aree sub-regionali, comunità locali (ipocritamente sciolte da vincoli solidaristici dalle riscoperte «archeologiche» di differenti radici culturali), appare una soluzione razionale.

Il fattore economico è il preponderante, insegna Carlo Marx, e come questo motivo ha portato alla nascita degli Stati nazionali ora li conduce alla dissoluzione, specialmente in Italia, in assenza di una credibile progettualità alternativa e, ancor più, per il fatto che ad opporsi all'ondata secessionistica sono rimasti i burocrati, privilegiati e inefficienti, i nazionalisti ottusi, gli internazionalisti vaneggianti (marxisti dogmatici e quindi anti-marxisti).

La nazione, in quanto sovrastruttura, deve fondamento e valore al precario compromesso interclassista: venuto meno o riducendosi notevolmente questo (con la globalizzazione), niente può impedire di porre legittimamente in discussione l'unità nazionale, se ciò risponde ad una logica utilitaristica. In altri termini, i cittadini dell'ambito territoriale dotato di strutture e infrastrutture industriali capaci di reggere la concorrenza internazionale, senza dover rinunciare ai vantaggi dello Stato sociale, possono avere interesse a secessionare dalla nazione per ristabilire, su basi che lo consentano, il compromesso interclassista. Questo il motivo animatore del secessionismo, a prescindere dai personali convincimenti dei suoi propugnatori: Jörg Haider in Austria, il gruppo New Zeland first in Nuova Zelanda, Bossi e Cito in Italia.

Il fatto è che la disgregazione dello Stato non è per niente una risposta. Paradossalmente il rimedio è peggiore del male. La secessione, il federalismo, il localismo, non aiutano i lavoratori ad alleviare l'intensità dell'offensiva liberista né tanto meno, a segnare un'inversione di tendenza. Queste sono anzi soluzioni dal chiaro segno di classe: ingigantire i profitti incoraggiando le divisioni, la concorrenza del proletariato al suo interno. La borghesia non è estranea alla competizione, diretta e frontale, tra aziende, micro-aree, regioni; alla dispersione dei lavoratori, secondo le rispettive linee di divisione, in un'offensiva che, probabilmente, in nessuna parte del mondo, come in Italia, è andata tanto avanti.

Che il federalismo sia un vantaggio per i lavoratori, una migliore difesa dei loro interessi, è una menzogna smentita proprio dai paesi indicati a modello di federalismo. Nessuno sembra comprendere che il peggioramento delle condizioni dei lavoratori di un'azienda, di un settore, di un'area, non aiuta gli altri a stare meglio ma cede ai padroni un'ulteriore arma di ricatto per imporre a tutti più avanzati livelli di sfruttamento.

Il federalismo non si è ancora concretizzato in un quadro giuridicamente definito ma, nondimeno, ha già prodotto vistosi effetti sul tessuto sociale e politico, e sullo stesso tessuto di mercato, a partire dal mercato del lavoro. Quanto è successo a Melfi, scandaloso per le deroghe alle condizioni contrattuali, firmate dal sindacato e dalla Fiat, ha dell'incredibile. Non solo la turnazione è stata strutturata in modo da allungare la settimana lavorativa a 18 giorni consecutivi ma il sistema adottato, il Tm/c2, riduce del 20% il tempo per compiere le operazioni previste. Se per guasti tecnici la linea si interrompe, scatta l'obbligo del recupero oltre ogni condizione di tempo. Il lavoratore di 2° livello (la maggioranza) trova in busta paga, turni inclusi, circa quattrocentomila lire in meno dei colleghi del nord. L'inquadramento è inferiore alla mansione svolta ed è quasi impossibile superare il terzo livello. I turni pomeridiani e notturni retribuiti al nord, rispettivamente, con maggiorazioni del 45% e del 65%, a Melfi, resi obbligatori dal contratto di assunzione, valgono il 20% e il 45%. Eppure nelle classifiche europee la SATA è il secondo stabilimento per produttività (64,6 vetture all'anno per dipendente).

Quelli che fino ad ora hanno cercato di costituire un sindacato autogestito (Cobas), sono stati licenziati. Non è quindi difficile capire come mai, nonostante la crisi del lavoro, quasi 700 giovani si sono dimessi in quattro anni. Dopo l'accordo di Melfi non c'è più stata trattativa senza che il padronato abbia preteso e ottenuto un passo indietro. Condizioni di maggiore flessibilità degli orari hanno iniziato immediatamente a diffondersi, nel gruppo Fiat, a Mirafiori (terzo turno e lavoro notturno obbligatorio anche per le donne), a Termoli (da 15 a 18 turni settimanali ordinari), alla Teksid di Carmagnola, ecc.

Sanzionata la legittimità del binomio occupazione-flessibilità, il «modello Melfi» s'è allargato a tutto il mezzogiorno ed ha risalito la penisola, comprese le aree che si supponevano al riparo: Fincantieri, De Longhi, G&B di Frassinelle sono solo i casi più noti.

Qualche esempio può chiarire meglio la nuova situazione. La Sgs-Thomson, impresa italo-francese di microelettronica, decide di costruire un nuovo stabilimento in Italia per il '98. Il sindaco di Catania, che già ospita nella sua città un ST con 1800 dipendenti, per incoraggiare la multinazionale ad investire nella stessa città, promette un terreno di tre ettari e promuove con i sindacati un «contratto d'area» per «garantire il massimo di flessibilità anche salariale». La regione Sicilia gli va incontro garantendo di semplificare le procedure burocratiche. Lo fa anche il governo nazionale, assicurando il trasferimento della quota ST dell'IRI alla Finmeccanica, per favorire la multinazionale nella prevista privatizzazione «a spezzatino» del gruppo pubblico. La Lega Nord, venutane a conoscenza, propone Cuneo e, attraverso il suo organo di stampa, sgrana il solito rosario di contumelie contro il governo «ladro e terrone».

Anche la triplice sindacale ha incoraggiato, in alcune vertenze, la contrapposizione tra industrie del nord e del sud (all'Alenia e alla Piaggio), ma anche tra occupati e disoccupati (alla Fiat di Termoli s'è associata al padronato nel colpevolizzare i lavoratori «super garantisti» di impedire l'assunzione dei giovani disoccupati). Il clamore suscitato dalla posizione sindacale è stato tale da consigliare al Presidente della Giunta regionale calabrese di interessarsi per cercare di dirottare gli investimenti dal Molise in Calabria.

La Dana, multinazionale che in Italia impegna 1.170 lavoratori, all'inizio di quest'anno comunica ai sindacati di voler accorpare parte delle produzioni italiane nello stabilimento di Como. Da una parte promette di aumentare l'occupazione di 150 unità (con la chiusura però delle fabbriche di Atessa e Vimercate), dall'altra pone la condizione della decurtazione salariale ai nuovi assunti di quasi 6 milioni lordi annui. Per essere più convincente elenca le agevolazioni finanziarie, burocratiche, salariali, offerte dalla regione Trentino e quelle che otterrebbe in Francia.

Così ai tradizionali conflitti di popoli e di classi, subentra (grazie al federalismo già operante sul piano sindacale) il conflitto tra connazionali della stessa classe, tra operai di Como contro operai di Vimercate e Atessa; operai di Como, Vimercate e Atessa contro operai trentini, e viceversa.

Più si accentua il distacco, materiale e psicologico, tra nord e sud, più il virus del federalismo corrode il tessuto unitario della classe. I contratti d'area svalorizzano di fatto la forza lavoro, a partire dalle realtà locali più deboli, artificiosamente contrapposte ad altre aree regionali e sub-regionali, e svendono i proletari «a partite» sul mercato del lavoro. Molte trincee operaie capitolano con il criterio delle «specificità».

Sul piano categoriale è passata la diversificazione per provincia dei minimi salariali nel contratto dei braccianti; la deregolamentazione dei regimi d'orario nell'agro-alimentare, con l'eliminazione del riposo settimanale nel periodo di lavoro più intenso; nel tessile, invece, dominio per eccellenza del lavoro nero, i contratti di gradualità prevedono notevoli sconti salariali, «transitori» da anni.

Il sindacato verticistico, autoritario, non è affidabile. Il rifiuto delle gabbie salariali al sud è solo verbale dal momento che la contrattazione continua a farsi quasi sempre a livello aziendale.

Con il federalismo e la flessibilità siamo appena all'inizio del processo di sfruttamento dei lavoratori. Le forze politiche, di destra e di sinistra, che si appellano ai lavoratori in difesa dell'unità nazionale contro il rischio, sempre più concreto, di secessione, si dimostrano, in pari tempo, profondamente federaliste o regionaliste e, implicitamente, candidano Cito a promuovere un municipalismo dai contenuti più dirompenti, anzi talvolta più frammentazionisti, del leghismo nordista. Le magnificazioni dell'autonomismo si sprecano. Autonomia dal governo italiano e dalla regione è stato l'impegno dell'ulivista Fumagalli a Milano. Autonomia ha promesso il triestino Illy, catalizzatore dell'elettorato leghista fin dal primo turno.

Non abbandono del federalismo dunque ma ulteriore smottamento verso esso. Per la sinistra, soprattutto quella istituzionale, le regole del mercato, il corso generale della economia e politica borghese rappresentano una necessità naturale da assecondare. La borghesia non potrebbe desiderare di meglio per ricacciare indietro le forze del lavoro, incrudelirle tra loro e, al momento opportuno, mobilitarle per le guerre economiche e militari in arrivo.

Che tale politica, svolta in ogni settore dell'emiciclo parlamentare, possa fermare la secessione è impossibile.

Per arrestare il processo di strisciante balcanizzazione bisogna dimostrarsi capaci di ridestarsi dall'attuale torpore, abbandonare il pregiudizio che il capitalismo sia l'unico dei mondi possibile.

Se non si volta pagina neppure le sezioni più combattive e organizzate della classe possono sperare di conservare i vantaggi acquisiti se intorno crollano le difese generali.

Il federalismo e il settorialismo vanno contrastati in ogni loro forma. Anche il progetto di una maggiore autonomia fiscale e amministrativa marcia di pari passo con lo sfilacciamento generale di tutti i vincoli contrattuali e normativi, conquistati a prezzo di dure lotte.

Deve essere ben chiaro che la rincorsa allo spezzettamento dei centri di potere non agisce nel senso di avvicinare le comunità locali alla cosa pubblica ma nel privilegiamento dell'interesse particolare sul generale. Ogni volontà particolare pretende di dominare sulle altre. Il «capetto» curerà sempre l'interesse personale, particolare, al contrario del popolo nel suo complesso che avrebbe tutto l'interesse di adoperarsi per il bene comune. L'interesse del popolo è il bene pubblico, l'interesse del singolo è, al contrario, il bene privato.

Già l'autonomia regionale è stata un errore e oggi il pretesto del secessionismo. Basti pensare a cosa ha comportato per esempio in Calabria, alle stolte concessioni edilizie sul litorale marino, elargite dai politici regionali, contro ogni logica di protezione ambientale e, se non altro, delle entrate turistiche, pur di guadagnare in clientele elettorali. Affidare beni e interessi a Enti locali è dannoso in un sistema fondato sulla clientela.

Dahrendorf (del St. Antony's College di Oxford), respinge categoricamente le tendenze regionalistiche e federalistiche. Nel governo regionale riconosce un'occasione buona solo per trovare «posti ai ragazzi», lavoro per burocrati e funzionari: «Sono contrario al federalismo anche per la Scozia, che pure è una nazione. E se guardiamo il regionalismo spagnolo, vediamo che è una storia infelice. Così sarebbe per l'Italia».

Purtroppo l'evidenza fatica a farsi strada in un contesto segnato da continui (troppi) camuffamenti di strategie reazionarie (ora leniniste, ora liberiste) in rivoluzionarie. L'offensiva liberista non avrebbe contato tante vittorie in Italia se i Costituenti del '46, con la trasformazione dello Stato unitario in regionale, non ne avessero anticipato le premesse, anche se, all'epoca, servì, più che altro, ad offrire una parvenza di novità al ristabilimento del potere borghese nelle sue forme congeniali.

La sinistra, se vuole vincere come forza rivoluzionaria, deve disfarsi dei vecchi, logori bagagli ideologici e comprendere la strategia indicata da Mussolini: impegnarsi cioè a democraticizzare il sindacato, riscoprirlo quale luogo naturale in cui la classe emergente (proletari o produttori) possa esprimersi liberamente, e insieme ad essa operare nel sistema per superarlo. La sinistra deve governare con, e non senza (o addirittura contro) il sindacato, quanto meno in un orizzonte prevedibile.

L'esperienza olandese fornisce utili indicazioni a tale proposito. Iniziata in seguito alla recessione del '81/82 (una delle più drammatiche in Europa, con una disoccupazione salita al 13%, il disavanzo pubblico oltre il 10%, il sindacato sgonfiato del 15% degli iscritti), con l'istituzionalizzazione di un sistematico rapporto di concertazione e cooperazione tra i partiti di sinistra, governo, controparti padronali e sindacato, oggi fa gridare al miracolo gli economisti di tutto il mondo. Il reddito cresce a ritmi elevati, nonostante il semi-ristagno della Germania di cui l'Olanda può dirsi un satellite. L'occupazione aumenta del 6,7% mentre si abbassa più o meno bruscamente negli altri paesi continentali. La finanza pubblica è stata risanata senza contrarre la spesa sociale (più alta che in Germania in rapporto al PIL). Quando due anni fa l'attuale governo entrò in carica, sembrò a tutti avventato l'obiettivo di 350.000 nuovi posti di lavoro in quattro anni, ora tutto lascia prevedere il raggiungimento dello scopo con un anno di anticipo. Significativamente la strada scelta è diametralmente opposta a quella della decentralizzazione. I poteri pubblici serbano un'influenza penetrante, ma i sindacati vengono consultati e ascoltati, e lo Stato sociale continua ad assolvere alle sue funzioni di protezione.

Le riviste economiche più prestigiose, dall'"Economist" al "Financial Times", a "Il Sole-24 Ore", giudicano l'Olanda un modello in cui si combinano le virtù di una sana finanza e di una politica monetaria rigorosa con quelle di una straordinaria capacità di creare lavoro senza attentare allo Stato sociale. Informazioni più dettagliate sul neo-corporativismo olandese sono nel saggio di Jelle Visser "Two cheers for corporatism, one for the market" pubblicato sul "Britisch Journal of Industrial Relations".

L'esperienza olandese è, però, per il proletariato un segno, non un esempio. Porre sullo stesso livello forze enormemente disuguali, padronato e lavoro, sarebbe una abdicazione. Mussolini lo fece, ma obtorto collo e comunque in circostanze e tempi in cui la pari opportunità, per le contrapposte organizzazioni sindacali, appariva rivoluzionaria. Storicamente si comprende il temporaneo accantonamento, nel dicembre '23, dell'obiettivo di riconoscere esistenza giuridica e facoltà legislativa esclusivamente al sindacato dei lavoratori. La sinistra di quegli anni, negando aprioristicamente qualsiasi apporto costruttivo alla politica mussoliniana, obbligava a fare del compromesso una regola, ma oggi riprendere il discorso rivoluzionario dal Patto di Palazzo Chigi con la confederazione degli industriali, a tre quarti di secolo di distanza, avrebbe poco senso.

La crescita irrazionale del sistema capitalistico può essere corretta da un controllo responsabile, capace di coniugare accumulazione e sviluppo umano, interessato direttamente alla quantificazione della produzione e all'equità della distribuzione, e non si può onestamente negare che nessuno meglio degli artefici della ricchezza, i produttori, possono svolgere questo compito. Solo l'organizzazione dei lavoratori può utilmente affiancarsi ai tipici istituti del potere borghese (parlamento-governo) e porre le premesse per la definitiva uscita dal sistema dell'immiserimento globale.

I risultati della predicazione dell'interclassismo sub-nazionale, sbraitata dagli esegeti del federalismo e del secessionismo, hanno mostrato a sufficienza che l'unità utile è quella di classe nel sindacato, oltre le divisioni ideologiche, sul paradigma delle influenti confederazioni industriali nelle più diverse realtà nazionali. I margini per dare un diverso orientamento alla politica ci sono, e molti; dipende da chi la gestisce. Che lo Stato sociale non possa essere più finanziato è un falso; Hans-Peter Martin e Harold Schumann dimostrano ne "La trappola della globalizzazione" (ed. Raetia, Bolzano '96) che i dati statistici sono lontani dal confermare questa tesi.

Il problema consiste appunto nel non lasciarsi intrappolare dalle divisioni provocate dalla stessa borghesia; nell'unità di tutti i lavoratori in un sindacato autonomo autogestito, contro la classe ladrona.

Niente e nessuno può fermare il corso della storia. Quando i lavoratori del cantiere di Danzica si autorganizzavano in sindacato nessuno immaginava che lì iniziava la fine della tirannide leninista, eppure è stato così.

È crollato il sistema del padrone partito, camuffato di comunismo, crollerà anche il sistema dei padroni borghesi, camuffato di libertà.

Giovanni Luigi Manco

 

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