da "AURORA" n° 43 (Agosto - Ottobre 1997)

EDITORIALE

L'agonia degli eredi della Fiamma:
analisi di una sconfitta

A. De Ambris

La recente implosione del Movimento Sociale-Fiamma Tricolore è lì a dimostrare, in tutta evidenza, la congruità delle nostre previsioni di due anni or sono.

Il partito di Rauti lungo la sua effimera esistenza ha letteralmente annaspato tra beghe interne (di nessun valore politico), odi personali, gelosie reciproche tra dirigenti, assenza di qualsivoglia strategia politica, rimanendo sospeso tra indecenti richiami al partito d'ordine e fughe dalla realtà fattuale, nella vana speranza di risuscitare un passato che, proprio perché tale, non può tornare. I limiti più evidenti mostrati dall'informe insieme che era la «cosa» rautiana sono individuabili, oltre che nella totale incapacità di riempire il vuoto politico determinato dalla scelta «fiuggiasca di Gianfranco Fini & Soci», dall'arretratezza dell'immaginario culturale, sociologico e psicologico sul quale il Rauti ha preteso di far leva nell'intento di conferire consistenza numerica e dignità politica alla Fiamma Tricolore. Gli è, ed è evidente per quanti non siano ciechi e sordi, che il mondo nel quale l'ex-segretario missino crede ancora di muoversi è venuto meno: il sistema clerico-liberal-democratico che per mezzo secolo ha gestito, per conto terzi, il potere in Italia è collassato tra le macerie del Muro di Berlino insieme a tutto l'armamentario della guerra fredda, della contrapposizione Est-Ovest e del dualismo USA-URSS. Gli equilibri di Yalta sono stati cancellati e con essi tutto il sistema di pseudo garanzie economiche politiche di cui godeva la democrazia italiana in virtù della centralità geopolitica della nostra penisola nello scacchiere del Mediterraneo.

In questo non recepito sconvolgimento epocale va inquadrato il fallimento della ipotesi rautiana che risultava ancorata alle logiche della Guerra Fredda allorché un partito, più anticomunista che fascista, era di grande utilità alle logiche imperialiste della Santa Alleanza Atlantica per almeno due motivi: giustificare con la teoria degli opposti estremismi l'esclusione del PCI (che rappresentava quasi un terzo dell'elettorato) dalla stanza dei bottoni e fungere da «riserva strategica» qualora il pericolo rosso divenisse concreto. Ma certo che, alle soglie del Terzo Millennio, un partito nel quale il collante politico e mitologico continua ad essere fondamentalmente quello dell'anticomunismo militante manca di qualsiasi prospettiva.

Ancora più schizofrenico ci sembra il comportamento di Rauti se si considera che la mini-scissione di Fiuggi, almeno nella giustificazione teorica da egli stesso enunciata, doveva, per l'appunto, rappresentare una evoluzione, sul piano non tattico ma strategico, della vecchia Destra Nazionale. Una sorta di ritorno alle origini in cui la centralità «ideologica» dell'anticomunismo militante veniva repentinamente e senza indugi soppiantata dagli enunciati sociali del Fascismo repubblicano. Ciò non è stato, nonostante l'adesione alla Fiamma Tricolore di uomini di valore come Manlio Sargenti che in un atto estremo di generosità, dopo anni di diffidente lontananza da Rauti e dal MSI-Destra Nazionale, si sono lasciati ingabbiare nelle logiche di un partito del quale gli unici «atti politici» di una qualche rilevanza sono individuabili nelle carnevalate in quel di Predappio.

Il fatto è che se i dirigenti della Fiamma Tricolore avessero veramente voluto muoversi nel solco tracciato dalla RSI erano obbligati, in una situazione come quella italiana nella quale esiste un bipolarismo di fatto, a schierarsi a sinistra inglobando all'interno della sua costruzione teorico-politica elementi di socialismo senza i quali qualsiasi antagonismo al capitalismo finanziario multinazionale è improponibile. Ciò andava fatto pur nella consapevolezza dei limiti propri alla Sinistra italiana incapace, nelle sue èlites dirigenti, di andare al di là delle scimmiottature clyntoniane e blayriane (D'Alema e Veltroni) da un lato e di fuoriuscire da un impasto di sconnesso e scomposto stalinismo e rivendicazionismo insensato (Cossutta e Bertinotti) dall'altro. La Sinistra, è bene sottolinearlo, compresa quella che seppure con mille distinguo si riconosce in D'Alema e Bertinotti, è la sola che in qualche modo può essere coinvolta su temi «fascisti» quali la Socializzazione delle Imprese e la reale partecipazione delle forze produttive alla gestione della res pubblica.

Nel mondo del dopo-Muro, in generale, e nell'Italia post-Tangentopoli in particolare, un'entità politica che si richiama pedissequamente al fascismo non ha nessuna possibilità di incidenza. Del resto lo stesso partito della Rifondazione Comunista non aveva più senso dopo l'Ottantanove e sarebbe stato riassorbito dal PDS se all'interno del vecchio PCI non vi fosse stata una frangia di proletariato urbano ultrasensibile al richiamo della falce e martello e se Bertinotti non avesse interpretato con notevole maestria le istanze, a loro modo, anarco-liberiste dei «centri sociali». Vi è anche da aggiungere che senza alcun dubbio il simbolo bolscevico gode ancora, dopo settanta anni di «sacralizzazione» tra i diseredati della terra di un fascino sul piano sentimentale che non va sottovalutato. Esso infatti, non solo per le frange comunque tutt'altro che marginali di Rifondazione Comunista, rappresenta nell'immaginario collettivo il baluardo delle garanzie sociali, la difesa degli oppressi, il riscatto degli emarginati. Come ben sappiamo così non è (e la storia ha burrascosamente spazzato via tutte le illusioni) ma, nella psicologia dei molti che in quel simbolo hanno creduto, rimane intatta la consapevolezza della diversità e della non-riducibilità del Comunismo e del Socialismo a scherani del capitale o a vessilliferi della cultura da bassifondi newyorchesi; consapevolezza alla quale sono uniformate le istanze culturali di Rifondazione. Quello che non ha capito la parte migliore di quanti sono confluiti nella Fiamma Tricolore di Rauti, magari nella speranza che l'ex-reggente del Centro Studi Ordine Nuovo non si acconciasse a gestire le mene nostalgiche degli ex-almirantiani, è che non si può recitare un ruolo antagonista al modello imposto dall'imperialismo finanziario rimanendo estranei alle dinamiche sociali, alle battaglie di quanti, produttori o aspiranti tali, conducono contro la nuova organizzazione del lavoro e le sue implicazioni che non sono solo di carattere economico ma investono la più larga sfera delle conquiste politiche realizzate, attraverso strenue lotte, dalle masse popolari negli ultimi due secoli.

Ci pare abbastanza stupido che alcune migliaia di persone singolarmente avvedute, culturalmente non sprovvedute, socialmente sensibili continuino a dar credito a personaggi e movimenti che nei momenti decisivi si schierano puntualmente su posizioni reazionarie.

Perché dovrebbe essere palesemente chiaro che se Rauti da segretario missino si dimostrò del tutto incapace d'operare quello «sfondamento a sinistra» che pure aveva brillantemente teorizzato nel momento in cui lo smarrimento della sinistra comunista sotto l'incalzare degli avvenimenti dell'Est europeo era evidente, tanto più ne è incapace oggi considerando che la sinistra, seppure tra innumerevoli e irrisolte contraddizioni è riuscita a darsi qualche ragione di essere. Ragioni, certo, non più innervate su una visione prospettica del divenire dalla quale discendeva quella «Grande Speranza» che il comunismo è stato per milioni di sfruttati e diseredati di affrancarsi dalla condizione di subordinazione politica e marginalità economica ma, meno prosaicamente e più realisticamente, schierate a difesa di concreti interessi di categoria -non di classe-, di ceti sociali garantiti che in grande misura rappresentarono, nel corso della Prima Repubblica, il retroterra clientelare del defunto Partito Comunista.

Una qualunque organizzazione di «destra», più o meno aggettivata socialmente, ricettacolo delle più disparate posizioni che vanno da quelle proprie alla destra radicale a quelle confusamente socializzatrici, non ha nessuna possibilità di avere una propria rispondenza sociale. La chiarezza delle posizioni è, in una società ove l'informazione costituisce il vero potere dominante, essenziale, anzi precipua per poter aspirare a raccogliere un consenso di massa. In tal senso appare non solo errata ma autolesionista la pretesa di porsi «al di là della destra e della sinistra», le quali saranno pure categorie obsolete e borghesi ma sono essenziali nella dialettica politica quotidiana oltreché pregnanti, cioè indicative dell'ambito ideologico-politico in cui una data forza si colloca.

D'altro canto continuare a rinserrare un fenomeno epocale come il Fascismo nell'angusto ambito delle ideologie di destra risulta del tutto fuorviante. Perché se è storicamente accertato che gli accadimenti tra il 1921 e il 1925 resero Mussolini ostaggio della conservazione (impedendo il concretizzarsi del «Patto di pacificazione» con i socialisti, la creazione dell'agognato «Partito del Lavoro» e sfociando infine, nel delitto Matteotti), è stato ampiamente dimostrato da storici di valore come Ernest Nolte e Renzo De Felice la irriducibilità di Benito Mussolini, uomo e politico, a tale ambito. Né altrimenti potrebbe essere per un uomo di chiara formazione socialista, tempratosi politicamente e caratterialmente all'ombra non del solo Partito socialista ma nel continuo, quotidiano contatto con le punte di lancia del movimento di emancipazione italiano che, indiscutibilmente, era rappresentato in quegli anni dal sindacalismo rivoluzionario di Corridoni e De Ambris e, nelle istanze sociologico-politiche dal gruppo culturale che si raccoglieva attorno all'"Unità" del Salvemini. Cosa vi sia di destra nel Mussolini interventista, in quello che tenne a battesimo i Fasci di Combattimento, in quello che tramava con D'Annunzio e De Ambris di sovvertire la monarchia durante l'Impresa fiumana, in quello che socializzava le Imprese nella RSI, debbono ancora spiegarcelo. Debbono ancora spiegarci, i Rauti, persino cosa ci azzecchi (come oggi si dice) il Mussolini legislatore del Ventennio, che pur tra mille difficoltà diede impulso alla costruzione dello «Stato sociale», solo successivamente scoppiazzato da Roosevelt, con la destra variamente aggettivata.

Mentre è del tutto consono al cosiddetto neo-fascismo, nel quale sono del tutto evidenti e maggioritarie le tendenze reazionario-conservatrici, pur rilevando che al suo interno è sempre stata presente una componente di socialismo nazionale minoritaria e marginalizzata, definire il fascismo di destra, a noi non pare del tutto campato in aria affermare che tale classificazione non sia in nessun modo attribuibile al fascismo (basti pensare che marxisti come Trotskij e Bordiga attribuirono ad esso i caratteri di «socialdemocrazia autoritaria»).

Con quale definizione, infatti, se non quella di «reazionaria» possiamo classificare la politica anti-sindacale, anti-socialista, grettamente filo-democristiana pratica dai Michelini, dagli Almirante, dai Gianfranco Fini e, perché no, dallo stesso Rauti con i suoi poco chiari rapporti con i vertici dello Stato Maggiore, la sua opera pubblicistica in difesa dell'Occidente imperialista! Cos'era rimasto nel MSI-Destra Nazionale di quel Fascismo repubblicano che con i Giorgio Pini e gli Stanis Ruinas discettava di socialismo e indicava in Mazzini, Pisacane e Lassalle, oltre che nello stesso Benito Mussolini, i referenti politico-culturali? Cos'era rimasto, solo pochi anni dopo, in quel partito nato nel 1946 inalberando la bandiera della Socializzazione, che voleva schierarsi all'estrema sinistra in parlamento? L'adesione alla NATO, i voti sottobanco per sostenere le politiche antisociali della DC, i mazzieri di Caradonna, le provocazioni anti-sindacali nelle fabbriche e l'infame stagione delle stragi. Stragi certamente di Stato, ma dietro le quali si agita lo spettro di infami collusioni con i Servizi della Nato, confermate dalle candidature nelle liste elettorali di generali golpisti e maneggioni, responsabili delle pagine più oscure che la nostra nazione abbia vissuto.

Tutto questo non può essere cancellato dal riemergere di una, tra l'altro molto presunta, volontà rivoluzionaria. Né la pretesa «chiarezza di fondo», che qualche «vecchio rottame» rivendica, può conciliarsi col permanere delle attuali ambiguità: mentre si annuncia di essere «oltre la destra e la sinistra», in realtà si continua a mantenere un rapporto privilegiato col Polo delle Libertà del quale i traditori di Fiuggi sono parte non secondaria. In tutto questo bailamme anche idee di una certa originalità e rilevanza come il salario d'ingresso per i giovani non hanno risonanza sociale, sia perché tale proposta non era inserita in un piano di intervento organico sulla disoccupazione sia perché essa non era sostenuta da una analisi di impatto economico-sociale riguardante la sua applicazione. È un antico vizio dell'anticapitalismo parolaio quello di lanciare ogni tanto, a mo' di slogan, proposte allettanti con qualche riflesso sociale, così come nel vecchio MSI-DN avveniva con la Socializzazione sulla quale sono state organizzate migliaia di inutili conferenze.

Pressapochismo e ambiguità rappresentano gli ingredienti indispensabili per una forza politica votata alla demagogia che per tenere unita la somma degli individualismi che la compongono veleggia nelle acque piatte del nostalgismo.

In ciò, Fiamma Tricolore e Rifondazione Comunista, le formazioni politiche che sono definite le ali estreme del panorama politico, sono del tutto simili. Bertinotti e Cossutta occultano le incongruenze del proprio anticapitalismo e la loro subordinazione alla cultura americanocentrica nel continuo, nostalgico richiamo ai sedicenti valori resistenziali, vero collante tra le varie componenti movimentiste e neo-staliniste e balsamo miracoloso sparso a piene mani sulle insanabili contraddizioni del neo-comunismo. Una ricetta che ha mostrato di funzionare anche per l'assenza di soggetti politici realmente antagonisti capaci di coagulare le spinte antisistema che pure vi sono. Ma se, volando basso, per Rifondazione Comunista che vanta un patrimonio elettorale pari all'8-10 per cento questa prassi può funzionare permettendo uno spazio di manovra abbastanza ampio tra le tante «ragioni sociali» dei partiti del sistema, per la Fiamma Tricolore il discorso è inverso. Rauti ha raccolto uno striminzito uno per cento che è da considerare in gran parte recuperabile da Alleanza Nazionale per due ragioni precise: la quasi totalità degli aderenti alla Fiamma Tricolore ha origini almirantiane e prima o poi finirà col rientrare nell'ovile finiano per questioni, chiamiamole così, nobilitandole, «ideologiche»; le poche migliaia di giovani e meno giovani non omologabili al sistema abbandoneranno la Fiamma Tricolore in virtù dei limiti della sua strategia politica. Di ciò sono prova evidente le continue scissioni e ricompattamenti del partito di Rauti.

Ciò che è nato vecchio e logoro (vecchio in quanto assertore di una visione del mondo che non tiene conto degli eventi epocali che hanno sconvolto il Pianeta e ha un quadro distorto del progredire umano: logoro in quanto in esso si è riversata quella parte di dirigenti almirantiani delusi, non dalla svolta politica di Fini, ma dal fatto che non siano stati da quest'ultimo riconosciuti i meriti pregressi che essi si attribuiscono) non può produrre il nuovo. Esso ha solo la funzione di intorbidire il panorama e ritardare il necessario chiarimento di tutta un'area politica.

Perché è evidente la contraddizione sulla quale la Fiamma Tricolore ed altri movimenti similari hanno costruito la loro effimera fortuna: quella di veicolare un Mussolini titano della reazione e campione dell'oscurantismo, falsando così la realtà storica dalla quale si evince che nel rivoluzionario di Predappio erano costantemente presenti la fiducia nel moderno e l'ansia di progresso e che il suo movimento, il Fascismo, di tali convinzioni è stato portatore.

Codini, ultra-clericali, conservatori di ogni risma, che della Fiamma Tricolore hanno fatto il loro ricettacolo, sono gli stessi che infangano il Fascismo.

Il culto del «passato che non torna», veicolato tra i giovani militanti, costringe costoro ad agire in una società che li rifiuta e che essi rifiutano con ostentato orgoglio, dimenticando che è questa la società nella quale vivono, e che con questa società (i singoli e le masse che la compongono) un partito politico deve comunque confrontarsi. Il giovane militante è costretto a respirare fin dai primi passi un clima di auto-commiserazione ed una pesante atmosfera da tragedia è creata dalla riproposizione di una serie infinita di eroi negativi e perdenti che riscattano, anche se solo parzialmente, la sua angoscia di misurarsi col presente. L'economia, il sociale, i drammi della società civile vengono opportunamente riservati per gli slogans, per le altisonanti frasi dei volantini che immancabilmente vengono smentite nella quotidianità della prassi politica.

Litigi, monologhi, discussioni «fisiche» sempre sul passato, onde poter puntualmente scansare la più pragmatica delle urgenze politiche: la realtà. Tra interminabili disquisizioni sulla natura più o meno destrorsa del Cavaliere del Graal, sulla riabilitazione dell'ultimo fascismo, sulla ridotta della Valtellina, ci si scorda della propria marginalità ed esclusione sociale e della non-incidenza sui circuiti della politica, della cultura, del lavoro.

Certo non sottovalutiamo quanto può aver inciso su questa situazione la cinquantennale ghettizzazione. Ma il culto congenito per il ghetto ristagna da sempre, ammorbando l'aria delle sezioni, vero e proprio «muro del pianto» del militante di «destra». In fondo una certa similitudine con la più deteriore mentalità ebraica è presente: la teoria del complotto, il rigetto per il diverso, l'esasperata santificazione della memoria storica, il gusto per il martirio che, psicologicamente, funge da prova suprema che ci si riserva poi di valutare in ambito meritocratico.

E così si ritorna al punto di partenza creando ad arte uno stimolo per non lottare nel presente con gli strumenti che il presente offre. Sotto questo profilo Rifondazione Comunista è certo più abile; riesce meglio a dissimulare che sta lottando nel presente con le medesime armi con le quali il PCI lottava nel passato.

Rauti si trova tra l'incudine dell'indifferenza e il martello rappresentato dai suggestivi richiami di Alleanza Nazionale. Il vecchio segretario ha poco da offrire nel mercato della politica, nulla in quello del Mito. Cosciente di questo ha deificato Antonio Di Pietro definendo l'ex-poliziotto molisano «uno dei più grandi rivoluzionari del secolo» ... Non vi è molto da dire, l'asserzione si commenta da sola!

L'ex-fondatore di O.N. rimane avulso nei miti fuorvianti della destra estrema, in parte per soggiacere alle istanze di una base insensibile ai richiami del reale, in parte per la sua incapacità (e della classe dirigente che lo circonda), di uscire dai binari a scartamento ridotto della propria chiusura mentale.

La breve storia di questo partito è paradigmatica di questo fine millennio e del crollo delle ideologie che ha caratterizzato questo fine secolo. Pur concordando con Rauti sulla inaccettabilità della liberaldemocrazia come forma unica e compiuta del divenire umano, ci pare assurdo auspicare, come ci pare faccia lui, il ritorno in toto al fascismo o al socialismo reale. Entrambi appartengono al passato. Son crollati, seppure in tempi differiti, per la somma di errori accumulati.

Quanti non avvertono che del «guardaroba» politico del passato si possono traghettare nel futuro millennio pochi e selezionati «capi», non approderà a nulla. Al massimo occuperà un ruolo simile a quello del dissidente ultra-comunista russo Ampilov e del suo piccolo partito schierato alla sinistra del «rinnegato capitalista» Ziuganov: con la ferma volontà di riproporre il comunismo sovietico nella sua versione staliniana, senza cambiare una virgola; con una sede fatiscente e pochi fedelissimi ultra-sessantenni in bilico tra l'ospizio e l'ultima dimora.

Rauti ci pare ben incamminato sulla stessa strada.

A. De Ambris

 

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