da "AURORA" n° 43 (Agosto - Ottobre 1997)

ISTRUZIONE E SOCIETÀ

Attacco al cuore dello Stato sociale

Filippo Ronchi

Il sistema di istruzione pubblica statale costituisce, insieme al sistema sanitario ed a quello previdenziale nazionali, uno dei pilastri dello Stato sociale. Non è senza motivo, allora, che esso abbia subìto, in questi ultimi anni, un attacco metodico, seppur con diversi toni, ad opera di tutte le forze politiche, dal PDS ad AN passando per la Lega Nord, che hanno fatto dell'adesione al liberismo più o meno temperato e alla «liberal-democrazia» la loro bandiera.

Quella che si va consumando è una vera e propria scelta di modello politico e sociale. Essa -dopo aver praticamente smantellato il sistema previdenziale e sanitario pubblico- trova nella drastica riduzione del diritto allo studio, della istruzione qualificata di massa, della lotta attiva contro le disuguaglianze culturali un altro obiettivo di fondo.

È bene ricordare che la politica di ridimensionamento della spesa per l'istruzione inizia coi governi Amato e Ciampi, appoggiati di fatto dalle dirigenze dei sindacati con- federali e presi a modello (ci riferiamo al ministero dell'ex-governatore della Banca d'Italia) dai partiti del centrosinistra. Prosegue poi senza soluzione di continuità con i governi Berlusconi, Dini e Prodi. Nel corso degli anni Novanta, il pesante processo di riorganizzazione a più bassi livelli del servizio è caratterizzato essenzialmente dalla soppressione di sedi scolastiche, dall'aumento del rapporto alunni-classi e dai conseguenti tagli di personale. Nello stesso periodo, specialmente a causa del mancato rinnovo del contratto di lavoro relativo al triennio '91/93, si determina una consistente riduzione della retribuzione media del comparto. I risultati di tale operazione possono essere così riassunti:

* 771.954 alunni in meno (pari al 9,24%)

* 111,231 lavoratori della scuola in meno (pari all' 11,29%)

* 15,5% percentuale di riduzione in termini reali della spesa del Ministero della Pubblica Istruzione

* 0,9% percentuale di riduzione della spesa del Ministero della Pubblica Istruzione rispetto al PIL (pari a 17.616 miliardi in meno).

Nei prossimi anni scolastici (1998/99 e 1999/2000) si prevedono, inoltre, un ulteriore incremento del rapporto alunni/classi e tagli di personale per circa 10.000 posti di lavoro per ognuno dei due anni scolastici indicati.

 

Fuori dall'Europa

I confronti relativi alla spesa per l'istruzione tra l'Italia e gli altri paesi europei sono estremamente difficili. Nei rapporti OCSE più recenti mancano infatti, stranamente, i dati relativi all'Italia. Il volume "Le cifre chiave dell'istruzione nell'unione europea", a cura dell'Ufficio delle pubblicazioni ufficiali delle Comunità europee, metteva a confronto varie situazioni riferite al 1992 riguardo alle spese (tra settore pubblico e settore privato) per l'istruzione in percentuale del PIL. Si aveva così una graduatoria che vedeva ai primi posti paesi quali la Finlandia (7,9%) e la Svezia (6,8%) ed agli ultimi la Germania (4,9%) e il Regno Unito (4,1%). In Italia, per lo stesso anno, per via deduttiva, sulla base delle informazioni disaggregate disponibili (OCSE, ISTAT, Ministero Pubblica Istruzione) si può calcolare una quota di PIL destinata all'istruzione pari a circa il 4,7%, di cui il 3,9% derivante dalla spesa del Ministero della Pubblica Istruzione. Considerando che dal '92 al '97 la quota di risorse destinata al Ministero della Pubblica Istruzione scende dal 3,9% al 3,04%, si deve dedurre una riduzione complessiva dal 4,7% al 3,84%. Questi dati e queste proiezioni ci collocano indubbiamente nelle ultime posizioni tra i paesi europei, dietro persino al Portogallo e all'Irlanda. La realtà, ancora una volta, contrasta in modo stridente con le infinite chiacchiere dei governi liberal-democratici di centrosinistra o di centrodestra relative al ruolo strategico della formazione per lo sviluppo civile ed economico dell'Italia e rappresentano una pesante ipoteca per il futuro delle giovani generazioni. Il problema dell'educazione nazionale viene così a porsi come uno dei più gravi ed urgenti per il nostro Paese.

 

I due strumenti della trasformazione della scuola italiana

L'ulteriore approfondimento della politica di destrutturazione della scuola pubblica statale ha, nella fase attuale, due strumenti fondamentali:

* la legge sull'autonomia scolastica presentata dal ministro della Funzione Pubblica Bassanini il 15 marzo '97 e già approvata da Camera e Senato;

* il decreto-legge sulla parità scolastica presentato dal ministro della P.I. Berlinguer al Consiglio dei Ministri il 4 luglio '97 e che sarà in discussione in Parlamento nei prossimi mesi.

Cercheremo di esaminare questi due aspetti per poi giungere ad una conclusione di carattere generale.

 

Il processo di dequalificazione della scuola statale

Appare chiaro, ormai, che la violenta campagna di denigrazione rivolta contro la scuola statale e contro gli insegnanti ha avuto un duplice obiettivo: da una parte screditare definitivamente l'immagine dell'istituzione e della categoria per arrivare ad una re- definizione complessiva verso il basso della funzione docente e ad una parificazione tra scuola pubblica statale e scuola privata; dall'altra imporre un aumento dei carichi di lavoro per bloccare il ricambio del personale ed attuare una serie di trasformazioni (dall'elevamento dell'obbligo ai corsi di recupero) a costo zero.

La fase di assalto alla scuola statale, che in prospettiva le forze politiche liberal-democratiche intendono relegare al ruolo di sussidiaria della cosiddetta «scuola libera» (cioè privata), si è svolta in questi anni con una graduazione logica: si è teso a dimostrare per prima cosa che la scuola statale era in piena decadenza, insufficiente ai suoi compiti; secondariamente che la scuola privata (e in particolare quella religiosa) era la sola che corrispondesse alle esigenze della persona umana e che rispettasse i diritti della famiglia; come conseguenza si è proposto che la scuola privata e clericale abbia le stesse condizioni di esistenza della scuola statale, compreso l'appoggio finanziario.

L'offensiva condotta dai mass-media e dai partiti del Polo e dell'Ulivo nonché dalla Lega Nord, espressione in Italia delle varie articolazioni dell'ideologia liberista e liberal-democratica, contro gli insegnanti e contro la scuola statale ha trovato, grazie ai suoi toni volgari e demagogici, un consenso vasto nell'opinione pubblica, di fronte alla quale, per esempio, il ridotto orario di lezione appare un indebito privilegio della categoria. A nulla vale confrontare la realtà italiana con quella degli altri paesi industrializzati, far notare che l'orario di lezione e di lavoro (che non sono la stessa cosa) degli insegnanti italiani si discosta poco dalla media degli altri paesi dell'Occidente, mentre le retribuzioni corrisposte agli stessi sono le più basse (e di molto) di tutto il mondo sviluppato. I limiti della scuola statale derivano prevalentemente dalla eccessiva burocratizzazione e dal disimpegno del ceto politico italiano, imbevuto ormai di ideologia liberal-democratica, nei confronti degli istituti statali. Ma scaricando la responsabilità della crisi del sistema formativo statale sugli insegnanti, si evita -in realtà- di affrontare il problema sostanziale: la perdita di senso dell'istruzione, di quella superiore in modo particolare.

La scolarità di massa -che ha caratterizzato tutti gli anni Settanta ed ha cominciato a declinare dalla fine degli anni Ottanta- ha spostato sempre più verso l'alto (i dottorati, i master post-universitari) gli attestati necessari per accedere alla formazione e alle specializzazioni riservate alle classi sociali dominanti. La scuola superiore e i diplomi che essa produceva, sia per la prosecuzione verso gli studi universitari (licei), sia per l'inserimento nel mondo del lavoro (istituti tecnici) hanno perso valore e, con questi, anche il lavoro degli insegnanti.

Un altro fenomeno di grandi proporzioni si è verificato a livello culturale: ragazzi e ragazze giungono oggi nelle scuole medie superiori e inferiori con un patrimonio già strutturato di atteggiamenti, di idee, di gusti e perfino di linguaggi, che non ha quasi nessun rapporto con i contenuti dell'insegnamento e i metodi dell'apprendimento proposti dalla scuola. Nelle classi subalterne, la televisione ha già largamente sostituito la scuola di base nella definizione del linguaggio ed ha imposto la centralità dei vedere e dell'ascoltare rispetto al leggere, allo scrivere e al parlare, la centralità del consumo rispetto alla crescita culturale, la centralità del tempo veloce del messaggio pubblicitario rispetto al tempo lento della riflessione.

Da almeno 15 anni la liberal-democrazia ha scelto i media come strumento passivizzante ed omologante di acculturazione di massa e le misure rivolte a colpire gli insegnanti non hanno, dunque, una valenza soltanto economica. Esse intervengono a modificare pesantemente il «significato» stesso della scuola -in particolare di quella superiore- e della sua funzione.

 

Balcanizzazione del sistema formativo in Italia

In questo quadro si inserisce il disegno di legge sull'autonomia scolastica. Per evitare equivoci, è giusto sapere che si tratterà -al di là delle enfatiche dichiarazioni di principio- essenzialmente di un'autonomia finanziaria tesa a scaricare sui singoli istituti la reperibilità dei fondi per l'istruzione, attraverso l'aumento delle tasse scolastiche e i contributi privati. Altre letture del progetto sull'autonomia non sembrano -almeno finora- possibili, dato che l'obiettivo dei governi attuali è quello di alleggerire i costi della formazione e di mettere in concorrenza le scuole statali tra loro. Lo sbocco di questa operazione dovrà essere -nelle intenzioni dei partiti liberal- democratici- la parificazione tra scuola pubblica statale e scuola privata. Lo Stato si limiterà a svolgere un ruolo di coordinamento dei servizi formativi, garantendone la «trasparenza» e la «correttezza» e le scuole statali dovranno competere, oltre che tra loro, anche con le strutture private sullo stesso terreno.

L'odierno dibattito sulla scuola è, infatti, caratterizzato da una comune e generica argomentazione: tutti denunciano il degrado irrimediabile della scuola pubblica statale e l'impossibilità di difenderla e riqualificarla. Il cambiamento profondo in grado di rivitalizzare il sistema formativo italiano dovrebbe consistere nel garantire ai cittadini una scuola privata a costo uguale a quella statale. In conseguenza di tale martellamento propagandistico, una parte della popolazione italiana non sembra più trovare la sua identità anche nell'organizzazione scolastica statale. Chi difende, allora, la vera identità nazionale? I sostenitori dell'attuale struttura o coloro che, ispirandosi ai princìpi della liberal-democrazia, tale struttura vogliono distruggere? Il fatto che questo interrogativo possa essere posto, significa che si sta producendo una crisi che investe le fondamenta stesse della scuola.

 

Vecchie idee sulla parità scolastica

Per la verità, le argomentazioni che oggi vengono presentate contro la scuola statale non sono affatto nuove. Fin dal novembre 1918, in un discorso tenuto a Milano, don Sturzo pose le basi di tutta l'azione scolastica per indebolire l'istruzione di Stato che i cattolici in particolare da allora in avanti avrebbero svolto, portando l'esempio della scuola statunitense, lasciata alla libera concorrenza di chiese e partiti. Da notare il significato che, in quel suo discorso, don Sturzo aveva dato all'espressione «libertà d'insegnamento» non libertà dell'insegnante di educare secondo coscienza, ma «libertà dal controllo statale delle scuole tenute dal clero, e diritto della chiesa cattolica di forgiare le anime della gioventù in conformità dei suoi dogmi», per la superiorità della scuola cattolica su quella statale «neutra» e per il diritto dei cattolici a sottrarre i loro figli all'influenza di insegnanti «scettici».

E veniamo alla situazione attuale.

Il nucleo forte delle argomentazioni a favore delle scuole private, in grande maggioranza gestite da enti religiosi, rimane quello delineato da don Sturzo ottanta anni fa, ma si sono aggiunte altre considerazioni che occorre confutare.

Con una contorsione logica, si parte dalla premessa che un sistema normativo pubblico non necessariamente deve identificarsi con la gestione diretta delle scuole da parte dello Stato, poiché anche gli istituti privati svolgono un servizio pubblico, ciascuno offrendo al bene comune del Paese la ricchezza consistente nella sua differenza culturale. I privati, insomma, non si contentano della libertà delle proprie scuole, vogliono la libertà sussidiata: cioè le loro scuole devono essere amministrate in piena autonomia (significativa la richiesta degli istituti di istruzione cattolici di conservare completa mano libera nella scelta degli insegnanti), ma mantenute con più o meno larghe sovvenzioni dallo Stato. Questa teoria è inaccettabile perché -posto che i denari a disposizione sono pochi- essi devono essere impiegati a migliorare la scuola statale, non a rafforzare le scuole private in concorrenza con la scuola statale.

Inoltre, se questa è la logica, perché non allargare il ragionamento? Perché non prevedere il finanziamento statale delle cliniche private o dei taxi o delle trattorie? Si tratta pur sempre di imprenditori privati che offrono un servizio pubblico... Ma in realtà la preoccupazione non è quella di migliorare la qualità dell'istruzione. Come si fa a sostenere -infatti- che la «sana concorrenza» fra gli istituti privati e le scuole statali finirebbe per innalzare la qualità dell'istruzione, garantendo in tal modo un beneficio per tutti? Esistono -dal punto di vista formativo- proposte interessanti che vengano dall'esperienza della scuola privata? Quali meriti documentano una maggiore efficacia degli istituti privati nel loro insieme rispetto a quelli statali? Non disponiamo di dati incoraggianti.

Nella migliore delle ipotesi, infatti, la scuola privata in generale offre un servizio di pari qualità rispetto a quella di Stato ma è proprio la verifica finale degli esami di maturità che testimonia un livello di preparazione degli allievi provenienti dal privato certo non superiore a quello degli studenti delle scuole statali. Ed è inutile sostenere che nel pubblico potranno accedere solo quelle scuole private che accettino di sottoporsi al sistema di regole, reclutamento e valutazione stabilito per la scuola statale. Riguardo al sistema nazionale di valutazione ed agli indicatori educativi sappiamo che niente di concretamente attuabile e generalizzabile esiste nel nostro Paese. Significativa, inoltre, è la richiesta avanzata perentoriamente dagli istituti di istruzione cattolici dopo la presentazione del decreto legge sulla parità scolastica, di conservare completa mano libera nella scelta degli insegnanti. Il problema, dunque, è di carattere finanziario e ideologico al tempo stesso.

Un'altra motivazione con cui si giustifica la necessità della disarticolazione del sistema scolastico statale in favore dell'istruzione privata è la seguente: ciascun gruppo etnico, ogni fede religiosa o corrente di pensiero laica deve avere l'opportunità di costituire scuole coerenti con i suoi princìpi. Ognuna di tali scuole connoterà la sua presenza e la sua programmazione secondo l'ispirazione ideologica e le proposte culturali che la identificano. Questa sarebbe la nuova concezione del pluralismo nel mondo del Duemila.

Al di là, dunque, dei discorsi sugli «standars di qualità», sulle garanzie, sui sistemi di valutazione, ecc. ecc., si delinea un sistema di istruzione formato da «corpi culturali» separati, che non vengono realmente educati ad un'idea comune di Stato e di Nazione, poiché questi elementi restano, nella migliore delle ipotesi, princìpi ad astratti. La capriola logica sul termine «pluralismo» fa venire in mente la situazione attuale del Libano o della ex-Jugoslavia, paesi ove s'è proceduto con grande coerenza, per la verità, lungo questa strada «innovativa», creando perfino milizie armate «private» appunto, per difendere l'identità culturale dei vari gruppi culturali ed etnici. Quanto all'Italia, l'impostazione liberal- democratica del problema della formazione delle giovani generazioni, che trova concordi per l'essenziale Polo e Ulivo, rafforza anche le presunte motivazioni culturali delle mire secessioniste della Lega Nord. Insomma, la cosiddetta nuova idea di pluralismo è l'anticamera di una società in cui prevalgono gli ordini chiusi e dove si dissolve l'idea di comunità nazionale e di Stato. In questo contesto, la stessa libertà di insegnamento che -nelle intenzioni dei riformatori- le scuole private diventate servizio pubblico dovrebbero garantire, resta una vuota enunciazione. L'altro aspetto è, poi, la situazione di chi non avrà né la forza economica né la capacità di pressione per chiedere e ottenere una «sua» scuola. È evidente, allora, che lo spostamento di risorse finanziarie dalla scuola statale a quella privata avrà come sbocco un ulteriore impoverimento della prima, sempre più destinata a diventare la scuola povera per i poveri. Del resto, questo modello è già concretamente operante negli Stati Uniti, ad esempio, con i risultati di devastazione sociale ben noti.

Spirito di libertà vuol dire spirito scevro da pregiudizi, che è pronto e aperto alle nuove esperienze, capace di evolversi. Il disaccordo tra i sostenitori della scuola statale e coloro che invece la combattono è, quindi, di fondo, ed investe il concetto stesso di libertà. Se, ad esempio, per i cattolici libertà significa possibilità di sviluppo secondo il principio divino della persona umana che si realizza pienamente soltanto nell'ambito della religione, per chi ha una visione non dogmatica la scuola statale è la sola in grado di garantire la libertà di coscienza di fronte anche al problema della religione, evitando ogni settarismo.

Si è detto che la libertà di scelta concessa agli alunni e alle loro famiglie tra scuola statale e privata non è effettiva finché le due scuole non siano messe in condizione di uguaglianza. Il ragionamento sarebbe valido se la scuola statale fosse una scuola confessionale o una scuola di partito, o una scuola con determinati indirizzi religiosi e politici. Ma la scuola statale supera ogni fazione e ogni discriminazione, è garanzia di libera espressione per tutte le opinioni e per tutte le religioni. Quando si sente parlare, quindi, di aiuti dello Stato da concedere non agli istituti ma agli alunni perché non vi deve essere differenza tra studenti di scuole private e di scuola statale di fronte al diritto alle sovvenzioni pubbliche, la discussione si sposta su un piano diverso, ma il suo fondamento in realtà rimane lo stesso.

 

Fronte di lotta

Grandi spazi di azione si aprono per una politica che voglia farsi carico del profondo malessere degli insegnanti della scuola pubblica statale e dei giovani che di essa sono i fruitori. Molti fra loro non condividono quel senso di ottimismo nei confronti dei meccanismi della «concorrenza» e del «mercato» trasposti anche in campo educativo, che disarma di fronte ai pericoli. Comincia a farsi strada la coscienza del prezzo che la libertà della scuola costerà alla società italiana.

Una assunzione di responsabilità in questa direzione passa principalmente attraverso una netta e coraggiosa difesa del sistema formativo pubblico statale, difesa che si incentra non solo sulla richiesta di una sua riqualificazione, ma anche sulla riaffermazione forte di alcuni «valori» che gli sono propri.

Dinanzi alle lamentele dei liberal- democratici che rimproverano alla scuola statale la sua incapacità di trasmettere ai giovani una nuova cultura del lavoro fondata sulla abitudine al «rischio occupazionale», cioè sull'accettazione del lavoro precario a vita, scagliandosi contro il «corpo insegnante», cui muovono l'accusa infamante di essere uno dei «più garantisti per mentalità», ecco che il rifiuto del «nuovo modello» della disgregazione collettiva e individuale fatta passare per «modernità» può costituire il punto di partenza di una battaglia per la difesa e la riqualificazione della scuola pubblica statale.

Scegliere di riqualificare la scuola di Stato significa scegliere di difendere il principio di una scuola per tutti e di tutti, dove non ci si trova solo tra coloro che sono uguali per etnia, religione, ideologia, ma dove -all'opposto- i molteplici indirizzi culturali di cui sono portatori gli studenti rappresentano una occasione preziosa di conoscenza, di scambio, di confronto. Si tratta, inoltre, di riaffermare un principio fondamentale: il diritto dei giovani all'educazione e all'istruzione è un diritto, appunto, dei giovani e non dei gruppi etnici o religiosi o partitici. E lo Stato è il tramite per la piena realizzazione di questo diritto. La scuola statale, come luogo di incontro con il diverso da sé, può costituire in molti casi l'unica occasione per le nuove generazioni di vedere garantito il loro diritto a imparare, a crescere, a costituirsi una identità anche in modo diverso da quello prospettato dai genitori. In questo senso, con l'espressione «libertà della scuola» si deve intendere la libertà data ad insegnanti ed alunni perché tutte le forme di pensiero abbiano valore e trovino poi una sintesi nella dimensione comunitaria, contro la libertà della scuola come complesso di privilegi che va dall'aperta confessionalità al conferimento legale di titoli di studio e al godimento legale del pubblico denaro da parte di istituti privati.

Dal mondo della scuola statale può giungere la spinta decisiva perché lo studio, i saperi, la libera formazione delle coscienze e la libera scelta dei valori in cui ciascun individuo decide di riconoscersi non vengano dati in «convenzione» a questo o quel privato, ma restino un bene inalienabile del singolo individuo ed una ricchezza della comunità. Da qui nasce la necessità di difendere la scuola statale come funzione di interesse nazionale e di riaffermare il diritto ad un efficace controllo dello Stato su tutte le iniziative private in campo educativo. Ai liberaldemocratici che affermano che lo Stato ha una funzione ausiliaria anche nel campo della scuola, le forze antagoniste -sostenendo il valore nazionale e comunitario della scuola statale- contrappongono il principio che lo Stato non può abdicare alla sua funzione educativa. Esso può pretendere, anzi, il diritto di educare. L'educazione dello Stato nelle scuole statali, a rigore, è la sola concepibile, perché è la sola libera dagli interessi individuali, particolari, di classe, di casta. Un'educazione nazionale è innanzitutto sviluppo di umanità all'interno di un organismo comunitario e la cultura che dà lo Stato consiste in primo luogo nella coscienza storica che l'uomo ha bisogno di conquistare, per togliersi dai limiti della sua individualità e respirare la grande aria dell'identità comunitaria. Se lo Stato è la forma massima della via comune, nelle sue scuole soltanto può realizzarsi lo svolgimento dell'individuo e dello Stato assieme, con la creazione di condizioni per cui lo sviluppo spirituale dell'individuo coincide con lo sviluppo della nazione.

La difesa della scuola pubblica di Stato non vuole -in ogni caso- essere la conservazione dell'esistente, ma deve tradursi in un impegno a trasformare il sistema scolastico, attraverso la creazione di un nuovo progetto discusso tra le componenti della scuola, in grado di identificare il significato del termine «formazione» nell'Italia del XXI secolo.

Individuare la scuola pubblica statale come luogo principale di comunicazione, di socializzazione e di produzione culturale significa ribaltare la concezione di una scuola funzionale unicamente alla «concorrenza» ed al «mercato».

Filippo Ronchi

 

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