da "AURORA" n° 43 (Agosto - Ottobre 1997)

OLTRECONFINE

Tenebre sull'Albania

Giovanni Luigi Manco

Da Otranto, quando il cielo è terso, sull'orizzonte del mare si profilano le montagne innevate d'Albania: appena 76 miglia tra la città pugliese e Valona, una distanza colmabile in gommone, come sentiamo dai fatti di cronaca, e una lunga storia di amicizia tra i due popoli rivieraschi. La civiltà latina vi si irraggia da 2531 anni; diverse e significative le testimonianze archeologiche a Butrinto, Durazzo, Apollonia e molto c'è ancora da portare alla luce in altre zone. Invasa dalla Turchia nel 1468, un'invasione durata cinque secoli, l'Italia è stata l'ancora di salvezza per migliaia e migliaia di albanesi, tanti da portare alla fondazione di nuove città che ancora oggi in tutto il meridione conservano l'identità nazionale, etnica e linguistica. Parte integrante dell'impero italiano, dal '39, conosce il suo periodo di maggior fortuna. Vi si investono cifre enormi per l'epoca. Le arterie stradali, i più imponenti edifici pubblici, le maggiori strutture economiche sono ancora quelle dell'impero. Poi il buio, il fosco medioevo del super-capitalismo di Stato di Enver Hoxha, l'isolamento internazionale. Chi riusciva a procurarsi un visto di ingresso, dopo estenuanti trafile burocratiche, spesso veniva rispedito indietro perché portava capelli lunghi, o indossava blue jeans o li conservava in valigia; i più fortunati facevano una visita turistica rigorosamente pilotata.

Che era un gulag: lusso per i più alti dirigenti di partito, indigenza per il popolo, privo perfino dei moderni servizi igienici, nessuno poteva immaginarlo. Sapevamo ciò che ci raccontavano, magari ci affidavamo alle parole del compianto campione del nostrano comunismo «democratico» Enrico Berlinguer che additava nel regime albanese l'esperienza meglio riuscita, più lungimirante del socialismo. E, considerando la sua formazione leninista-staliniana, forse non era in malafede. Riconoscendo il socialismo nel livellamento delle masse in schiavitù, aveva ottime ragioni per portare ad esempio il regime di Hoxha.

Poi il fallimento della tirannide e ancora una volta, come al tempo dei turchi, la tragedia dell'esodo. Da Otranto, dove trascorro un periodo delle ferie estive, contemplo i profili a balzi delle montagne d'Albania e mi afferra un sentimento di indignazione per come questo sfortunato popolo, completamente digiuno d'esperienza, è stato restituito, senza alcuna garanzia, alla comunità internazionale in una delle fasi più crude di esacerbazione capitalistica.

Chi fino a ieri non ha potuto governare neanche la propria casa cosa può saperne delle astuzie del commercio, della concorrenza, come può difendersi dai navigati drittoni d'oltre frontiera che piombano come lupi su un gregge indifeso?

Una sciagurata legislazione, tra le più avanzate quanto ad aperture agli investimenti stranieri, all'iniziativa privata, in un paese che vanta 400 chilometri di spiagge incontaminate, innumerevoli piste sciistiche, boschi, cave di marmi, miniere di cromo e nichel, giacimenti di petrolio, dove il costo del lavoro e il più basso d'Europa, non poteva lasciare indifferenti gli speculatori.

Ciò nonostante gli albanesi si mostrano inizialmente pieni di speranza. Alla farsa dei ludi cartacei del '91 partecipano compatti (lo sfruttamento fondato sull'illusione della libertà riesce meglio). Alla presidenza della repubblica viene eletto Sali Berisha (ex-dirigente del sedicente partito comunista e medico personale di Hoxha). La disillusione non tarda a ferire come un marchio rovente. I lavoratori restano esclusi dal programma di privatizzazioni. Dalla trasformazione del capitalismo di Stato in capitalismo dei privati non guadagnano niente.

Qualche anno dopo, la truffa delle finanziarie, un giro di due miliardi di dollari finiti, in parte, nelle casse del partito democratico di Berisha. Gli studenti dell'università di Valona insorgono, vengono in conflitto armato con le forze di polizia, e la rivolta divampa nella nazione. Nel Sud, i montanari abbandonano le case e imbracciano le armi. Villaggi e città sono con loro. Fasce consistenti della polizia e dell'esercito, anche intere divisioni, passano con i guerriglieri. Si costituiscono comitati rivoluzionari, controllati da assemblee di quartiere e città, che gestiscono la forza pubblica, gli approvvigionamenti, i servizi elementari. Dopo decenni di sudditanza non si fidano di nessuno, hanno capito perfettamente che «la libertà non è un diritto, è un dovere. Non è una elargizione; è una conquista». (Mussolini, 10/6/40).

Il "Corriere della Sera" ammette laconico, in margine alla cronaca delle vicende albanesi, «sul suolo d'Europa ha rimesso piede la rivoluzione» (12/3/97).

I possibili effetti della rivolta albanese, al- l'interno e all'esterno, sono subito chiari. Le difficoltà che la reazione incontra negli altri paesi dell'est con l'instabilità dei Balcani, i problemi del regime di Eltsin, gli scioperi in Polonia, si moltiplicherebbero con il successo della rivoluzione albanese che, inevitabilmente, assurgerebbe ad esempio per i proletari dell'Est, ma anche dell'Ovest e del Sud. Gli effetti si fanno già sentire.

Nell'ultimo sciopero generale in Russia lo slogan più gridato è stato: «facciamo come in Albania».

Se un piccolo paese come l'Albania riesce a sottrarsi alla vampirizzazione del FMI, multinazionali, finanziarie e sciacalli vari, è un disastro per le forze della reazione. La rivolta armata diventa quindi il nemico da abbattere o neutralizzare. Si studia a tavolino di dare un esempio di segno opposto: dimostrare la vanità della lotta proletaria e il suo caro prezzo. La prima mossa è una campagna di disinformazione, da psicosi collettiva, sul pericolo dei profughi albanesi, «nullafacenti e criminali», cavalcata in chiave razzista dalla Lega Nord (anche in questo caso braccio operativo, utile idiota, dell'offensiva capitalista) con le sue squadre di vigilanza. La seconda quella di una missione internazionale, sbarcata in Albania in pieno assetto di guerra, per approntare un piano di aiuti tecnico-logistici ai governativi. Significativamente la missione è guidata dal nostro paese. Che l'Italia sia nel novero delle nazioni privilegiate lo dicono inconfutabilmente gli indici statistici: la crescente importanza della esportazione di capitale rispetto all'esportazione di merci, il calo dell'emigrazione e l'aumento della immigrazione. Le sue mire sono quelle stesse degli altri paesi ricchi: sfruttamento e ricatto dei paesi debitori, liberalizzazione degli scambi per eternare la disparità della dotazione tecnologica, il controllo se non l'impossessamento, delle risorse principali, l'acquisizione di merci e lavoro a basso costo. «La guerra che le grandi democrazie preparano è una guerra di usura». (30/5/39), tuona Mussolini con la proverbiale concisione.

In Albania il 60% della presenza economica straniera è italiana. Centinaia e centinaia di industriali italiani (soprattutto calzaturieri) hanno fatto lauti guadagni con la differente situazione salariale (un operaio guadagna 120mila lire al mese), e sono impazienti di riprendere i lucrosi affari.

Nessuna analisi seria è venuta dal parlamento sull'operazione "Alba" ed i suoi strascichi. Il partito di Bertinotti si è adagiato sulla posizione di Clinton: scaricare Berisha e sostenere il governo di Fino (l'erede del partito di Hoxha, il D'Alema albanese). Inizialmente ha puntato ad un intervento solo diplomatico, poi ci ha ripensato: intervento sì, ma sotto l'egida dell'ONU!, sconcertando non pochi rivoluzionari che ancora lo seguono.

Dov'era Bertinotti quando l'ONU dava il via libera ai massacri di stampo colonialistico in ogni angolo del mondo? Bertinotti dovrebbe leggersi Mussolini per chiarirsi le idee, imparare che la funzione degli organismi internazionali (teoricamente volti a salvaguardare la pace), quando sono condizionati dalle grandi potenze (l'ONU lo è con il diritto di veto e la pressione politica sulle nazioni «compradorizzate» e solidali) non sono e non possono essere che «una solenne "fregata" da parte delle nazioni ricche contro le nazioni proletarie per fissare ed eternare quelle che possono essere le condizioni attuali dell'equilibrio mondiale (...). Io comprendo perfettamente che le nazioni arrivate possano stabilire questi premi d'assicurazione della loro opulenza e posizione attuale di dominio. Ma questo non è idealismo: è tornaconto e interesse». (23/3/19)

Ma non si tratta solo di un inescusabile scivolone, c'è dell'altro, di molto più grave, nella posizione tenuta dal PRC. La verità è che i nostalgici italiani del bolscevismo non perdonano agli insorti la resistenza a farsi inquadrare da un tradizionale apparato di partito; la strategia autogestionaria; di aver divelto, senza rimpianti e con furia iconoclasta, le statue di Lenin dai piedistalli; di rifiutare in blocco l'esperienza del passato in ogni suo aspetto. Lo dice chiaramente, quanto spudoratamente, il responsabile degli affari esteri del PRC, Ramon Mantovani, in un articolo su "Liberazione" del 27 marzo scorso: noi vogliamo «l'ordine» contro «gruppi di insorti i cui obiettivi sono tutt'altro che democratici».

Penso a tutto questo, alla difficile situazione albanese, ai suoi imprevedibili sviluppi. Si dovrebbe fare di più, più contro-informazione, solidarizzare con i guerriglieri, incoraggiare l'estensione del processo rivoluzionario in tutto il paese e la pratica autogestionaria, squisitamente proletaria. Intanto le tenebre della sera iniziano a calare, offuscano le fiere montagne albanesi sull'orizzonte, riesco appena a distinguerle, poi più niente, le divorano del tutto...

Giovanni Luigi Manco

 

articolo precedente Indice n° 43 articolo successivo