da "AURORA" n° 43 (Agosto - Ottobre 1997)

LA POLEMICA

 

Contraddizioni di Giuseppe Tatarella in un editoriale su "Millennio
Le ragioni della politica"

La « questione socialista» non si risolve riciclando nel Polo i rottami del craxismo

Enrico Landolfi

 

Pinuccio Tatarella è personaggio davvero infaticabile, dalla galoppante fantasia. Dopo essersi inventato un mucchio di cose, ora proietta il suo spirito inquieto -lui, reazionario della più bell'acqua, uno dei padri di quella incredibile pulcinellata del giuramento «antifascista» di Fiuggi- sulla «questione laico-riformista-socialista». Il che in altri tempi e circostanze, quando non solitariamente attiravamo l'attenzione dell'allora MSI sulla necessità per un partito che diceva di affondare le sue radici nella socializzazione, nell'ala più creativa, rivoluzionaria, nazionalpopolare della RSI, di intrecciare un dialogo nella pari dignità con le aree disponibili della Sinistra, si sarebbe appalesata attitudine meritoria, plausibile, perseguibile. Ma adesso? Dopo che il partito dei fiuggiaschi ha perfino cancellato la parola «sociale» dalla sua denominazione? Dopo che ha dichiarato guerra a tutta indistintamente la Sinistra? Dopo che ha esaurito tutta la propria capacità di invenzione nel montare la guardia non al classico bidone di benzina, bensì al kolossal patrimoniale del Creso di Arcore, così giornalisticamente descritto da Guido Quaranta sul settimanale "l'Espresso": «Nella classifica di 200 nababbi redatta dal mensile "Forbes" è il primo degli italiani, con un patrimonio di oltre 8 mila miliardi»? Dopo che ne ha fatto proprio il linguaggio maccartysta, lo spirito di crociata padronale, la malcelata avversione per il sindacato, l'indifferenza sprezzante e pseudo-pedagogica per la classe operaia e per i lavoratori in genere, la postulazione petulante della giungla ultra-liberista di stampo tatcheriano, il peloso, ambiguo liberalismo assunto a copertura di una sostanziale, durissima dittatura di classe?

Ma poi, è credibile il Tatarella allorché annuncia urbi et orbi i propri intendimenti progressisti? Confessiamo che il suo relativamente recente passato non è tale da indurci a lasciar cadere le nostre perplessità, ovviamente quelle che è giocoforza nutrire quando la destra tenta, per così esprimerci, di rubare il mestiere alla Sinistra.

Una rapida episodica può consentirci di poggiare su prove provate quanto veniamo affermando sulla inaffidabilità del Pinuccio apulo in veste di alto protettore di questa e quella porzione di sinistra o, addirittura, di sinistra lui stesso e il fratellino sindaco di Cerignola.

1) Anni or sono, a Roma, fummo commensali in un gruppo mix di missini e di socialisti impegnati in un dibattito sul «socialismo tricolore». Cogliemmo l'occasione per dire al futuro prossimo venturo «ministro delle armonie» che trovavamo sommamente illogico e ridicolo che un partito fruente nei suoi punti di riferimento del programma rivoluzionario della Repubblica Sociale Italiana si definisse di destra. Ma il lider maximo dei missini pugliesi non si scompose e, serafico, asseverò di ritenere assolutamente compatibile essere di destra e, al contempo, socializzatori. Di ciò si sarebbe fatto garante lui stesso con la sua opera nel partito. Abbiamo visto come è andata a finire. Quella sera ebbe ad affermare, fra l'altro, che il motto di Mussolini per lui più gratificante era «l'avvenire dell'Italia è sul mare». Infatti quelle tatarelliane sono state promesse da marinaio.

 

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2) Nella fase preparatoria del partito dei Fiuggiaschi il sorprendente Pinuccio, vero mago Dustelli della politica italiana, cavò dal cappello a cilindro nientepopodimeno che il nome, il pensiero e la tradizione di Giuseppe Di Vittorio. E spinse il suo neo-divittorismo fino al punto di indurre il fratello, sindaco di Cerignola, -ad onor del vero un ottimo sindaco- a degnamente onorare il mitico rifondatore e capo della CGIL anche con un busto o un monumento, non ricordiamo bene. Nulla di criticabile, naturalmente. Anzi! Ma il Tatarella senior pretese fare di più e di meglio: coltivò l'ambizione tutta intellettuale di inserire la rammemorazione divittoriana nella cultura del suo partito. Qualcosa riuscì a fare, ma andò a naufragare sugli scogli del velleitarismo sincretista. Non capì che quello di Alleanza Nazionale non era il contesto adatto per simili trapianti. Con un reazionario come Gianfranco Fininvest al timone, poi! E con l'asse Arcore-Marino in funzione, figuriamoci! Giuseppe Tatarella se veramente era in buona fede, se l'operazione allestita non era stata ideata solo per acchiappare voti, se non si trattava solo di rendersi «democraticamente» e «costituzionalmente» presentabile per trasformisticamente mettersi in condizione di aspirare al potere governativo -cose, peraltro, tutte da dimostrare- doveva prima lavorare su quello che sciascianamente abbiamo definito il «contesto» e poi aggregare a quanto di meglio si era verificato sia nella RSI sia in quel «fascismo-movimento» scaturito dalle analisi del Ventennio prodotte dal compianto De Felice i nuovi contenuti ricavati dalla storia di una Sinistra con la quale gradualmente pervenire a situazioni di alleanza. Ma il Nostro, purtroppo, non commise solo peccati di omissione, bensì anche di azione. E non solo divenne il vice del Paperon de Paperoni di Arcore -figuriamoci cosa può avere a che fare un Di Vittorio con un Berlusconi!-, ma sponsorizzò nella sua regione il già sindaco di Taranto e quindi deputato nazionale Cito.

E con lui, va da sé, tutto ciò che costui incarnava e rappresentava.

3) Signore Iddio, come è possibile un accostamento fra Cito e Gaetano Salvemini? Eppure il buon Pinuccio riuscì a mettere le mani sul campione dell'intransigentismo antifascista senza mollare la presa sul discussissimo Cito. E qui non è proprio il caso di spendere altre parole sulla singolare, a dir poco, campagna acquisti dell'attuale presidente dei deputati «alleanzisti». Le considerazioni fatte ai punti 1 e 2 sono più che sufficienti per coprire il punto 3.

 

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Comunque, l'approccio tatarellico alle tematiche «laico-riformiste-socialiste» è analizzato in un intiero fascicolo della sua rivista illustrata mensile "Millennio", ospitante contributi dal diseguale livello qualitativo sia culturale che politico. Il vettore di questa locomotiva intellettuale cui viene affidato il non disinteressato viaggio nell'orbita della drammatica diaspora socialista è, si capisce, un editoriale siglato dal fondatore e naturalmente ispiratore della pubblicazione. Cogliamone, fior da fiore, alcuni passaggi-chiave:

«Nell'auspicato sistema bipolare perfetto (auspicato da lui. Noi riteniamo tale «sistema» un autentico veleno per la Nazione, eternamente spaccata in due grosse ammucchiate perennemente in stato di guerra civile sia pure incruenta - N.d.R.) la questione laico-riformista-socialista non può essere elusa. A questa componente della storia d'Italia non si può rivolgere l'invito di scelta tra i due poli con la formula «o di qua o di la». Si può invece dire e si deve ragionevolmente sostenere che e nell'Ulivo e nel Polo l'area deve essere vitale e visibile, protagonista e determinante insieme ad altre aree politiche e culturali della storia risorgimentale e post-risorgimentale, al fine di decidere, operare, scegliere insieme. I riformisti-socialisti sono nella stessa situazione di legittimità, di ruolo e di scelta dei cattolici impegnati al centro in politica».

 

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È doveroso dare atto a Tatarella di un tono garbato, civile, aperto, dialogico di cui la sua parte è ben lungi dall'abbondare. È già qualcosa, anche se il suo argomentare non risulta convincente. E per i seguenti motivi, che velocemente illustriamo:

1) Certo, il «o di qua o di là» è brutto, autoritario, antipatico, sbrigativo. Eppure, immaginare un socialista impegnato nel cosiddetto Polo delle Libertà è ben arduo, se si pone mente alle idee e ai personaggi che vi circolano, agli interessi che vi sono rappresentati, al leader che lo ha fondato e lo capeggia, al linguaggio che vi si parla. Tutti elementi configuranti uno schieramento nel cui ambito propensioni conservatrici, moderatismi deprimenti, pulsioni reazionarie, tentazioni maccartiste, economicismi sfacciati, umori anti-operai e anti-popolari, individualismi egoistici, indifferentismi antisociali e disumani, caccia a magistrati non compiacenti finiscono per incrociarsi, acca-vallarsi, intrecciarsi, unificarsi, compattarsi senza che Alleanza Nazionale e, soprattutto, il suo segretario-proprietario Fini abbiano avvertito il bisogno -ad onta delle chiacchiere scritte ed orali degli uomini della rivista "Area" e della cosiddetta «destra sociale»- di una pur parziale presa di distanza, di una qualche dissociazione, di una oppugnazione vera e visibile.

Naturalmente facciamo riferimento a socialisti genuini, degni di questo nome, militanti al solo ed unico scopo di operare nel senso di un salto di qualità sociale e democratica nell'ordito strutturale della società. Se invece le coordinate del discorso tatarelliano inglobano, come pare a noi di capire, anche i rottami del craxismo che nel '94 hanno riempito con il vento del loro odio e del loro desiderio di vendetta le vele di Forza Silvio allora non ci siamo. E, del resto, quale giovamento deriverebbe a Giuseppe Tatarella e al suo partito dall'intesa con gruppi di socialisti e con singole personalità del Garofano in cerca d'un trampolino di lancio in grado di rimetterli in gioco oppure soltanto per consentire loro di regolare vecchi o nuovi conti con il «pool» giudiziario milanese di Mani Pulite, con Giancarlo Caselli, con il Partito Democratico della Sinistra, con il cosiddetto «partito di Scalfari», con i veri e presunti «catto-comunisti», con Leoluca Orlando, con i gesuiti di Palermo, etc?

Gira e rigira, non si cava un ragno da un buco se non ci si ficca in testa una volta per tutte che nel Polo non c'è spazio per una sinistra, per qualsivoglia tipo di sinistra. Con tutta l'abilità che è giocoforza riconoscergli, Pinuccio non riuscirà nell'improba impresa di sposare il diavolo con l'acqua santa. Fuor di metafora, il berlusconismo è la vivente, irriducibile, insuperabile negazione di ogni valore non diremo socialista, ma appena sociale. E così tutto ciò che è berlusconizzato, tutto ciò che accetta, ben gré mal gré, la leadership del Cavaliere Azzurro. A cominciare da Alleanza Nazionale che accetta ancora di chiamarsi «destra», questa mai abbastanza maledetta parola che da quasi sempre agisce come una droga, come un veleno, nel corpo del MSI prima, del MSI-DN poi, di AN dopo. Allora, caro Tatarella, il problema che hai di fronte non è solo quello di andare oltre il Polo -come talvolta giustamente dici- ma anche di andare oltre la destra, ineludibile condizione per affrontare con veracità, con serietà la «questione socialista», non dissociabile dall'ottica di un rapporto collaborativo o solo dialogico con l'insieme della Sinistra, in un quadro psicologico, prima ancora che politico, di reciproca comprensione, di pari dignità, di franchezza leale. E per ciò fare non c'è necessità alcuna di tagliare tutte indistintamente le proprie radici (come vilmente avete fatto a Fiuggi), ma solo quelle marce; né gettare via il bambino (la Socializzazione, lo Stato Nazionale del Lavoro, l'irrobustimento del ruolo europeo e planetario dell'Italia, la fondazione di città, una notevole fetta di socialità, etc.) insieme all'acqua sporca (le leggi razziali, il tribunale speciale, l'impalcatura totalitaria dello Stato, l'OVRA, etc). Ciò che non avete capito, che non hanno capito la Sinistra e, più in generale, le forze democratiche di avanguardia, è che lo sradicamento diffuso era, continua ad essere, un fatto negativo per voi post-fascisti e per loro, giacché vi lasciava, vi lascia, vi lascerà se non provvederete a rientrare nel vostro alveo naturale -quello nazionale popolare, socializzatore, movimentista partecipativo- in balia del primo mega-miliardario che decida di affacciarsi sulla scena politica per difendere i propri interessi. Come è puntualmente avvenuto in conseguenza di quella autentica pulcinellata trasformistica posta in essere in quel di Fiuggi, con la sceneggiata rinnegatrice del giuramento «antifascista».

 

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Recita ancora il fondo di Tatarella su "Millennio - Le ragioni della politica": «C'è stata, e c'è in Italia la tradizione di grande autonomia dal marxismo, dal comunismo, dal PCI, dalla CGIL. Questa "autostrada" inizia con la scissione di Palazzo Barberini, prosegue con la nascita della UIL fino alle prese di posizione singole o associate di uomini di cultura, riviste, associazioni, elettori di non voler delegare la propria tradizione alla struttura e all'egemonia marxista».

Osiamo credere che l'ex vice-premier non vorrà adontarsi se ci permettiamo di dirgli che nel vergare queste poche righe egli scopre l'acqua calda. Grazie, comunque, per il riconoscimento di questa autonomia che riguarda, lo diciamo con immensa modestia, anche la nostra minima insignificante persona, collocata saldissimamente nell'humus della Sinistra con ambedue i piedi ma pure con la testa. Se così non fosse, non scriveremmo su "Aurora" e su altre consimili pubblicazioni e, soprattutto, non scriveremmo quello che scriviamo.

Ma ciò di cui piace a noi rimarcare la importanza è l'autonomia di cui godono gruppi minori della Sinistra rispetto al PDS, di cui sono alleati -spesso niente affatto comodi- sia all'interno che all'esterno dell'Ulivo. Intanto, mai a nessuno di questi è transitata per la cervice l'idea di accettare Massimo D'Alema -il quale, peraltro, mai ha preteso nulla del genere; e qualche sbandatella «autoritaria», vedi il caso «Di Pietro-Mugello», la sta ancora pagando con polemiche e reiezioni a non finire- come leader del centrosinistra. Orbene, Giuseppe Tatarella detto Pinuccio è in grado di vantare per il suo partito analoga se non simile indipendenza? Diremmo proprio di no -al di là delle bizze finiane su questo o quell'aspetto della linea dettata dal Cavaliere-, visto e considerato che il Giovin Signore di Via della Scrofa non ha esitato un attimo a televisivamente dichiarare urbi et orbi che sì, lui è il leader della Destra ma che il capo di tutto il Polo, e pertanto anche suo, si chiama Silvio Berlusconi. Come volevasi dimostrare.

Ma in queste contatissime e scontatissime parole estrapolate, cogliamo altra farina del sacco tatarelliano che non ci convince né punto né poco. Per esempio, l'ossessione maniacale del marxismo, della cosiddetta «egemonia marxista», di cui secondo il candido (di tanto in tanto) Pinuccio, sarebbe portatore perfino il PDS delle privatizzazioni, della Bicameral con bagno (per dirla con Montanelli), delle cene riservatissime nella magione dell'impomatatissimo Gianni Letta, Gran Ciambellano del Sovrano Ordine dell'Inciucio. Figuriamoci!

Intanto, Marx non è un demonio ma un gigante del pensiero rivoluzionario, alcuni elementi del quale sono stati perfino fatti propri -prepari i sali prima di svenire, l'«armonioso» Tatarella- dal fondatore e capo della Falange spagnola, José Antonio De Rivera, e da Benito Mussolini, di cui immaginiamo che il Primo Barese della Destra sappia qualcosa. Se non crede o non ricorda, rilegga il saggio di Maurice Bardéche, cognato di Robert Brasillach, autodefinentesi «scrittore fascista», "Che cosa è il fascismo" e quello di Curzio Malaparte "Tecnica del colpo di Stato".

Quanto, poi, alla famosa ed oltremodo enfatizzata «egemonia marxista» è ormai gran tempo di mettersi in testa il seguente concetto: quando una egemonia si verifica c'è chi egemonizza e chi si fa egemonizzare. Bene: noi accusiamo il partito neo-grandiano e neo-badogliano nato dai calcoli di Fiuggi di essersi fatto egemonizzare da Berlusconi e dal suo partito-azienda. Ciò non solo e non tanto per essersi affidato alla dichiaratatissima leadership dell'Azzurro Cavaliere di Arcore, ma per non essersi peritato di succhiare nella sua mammella culturale -ammesso e non concesso che, nella fattispecie, di cultura si possa davvero parlare- tutta una rozza ideologia reazionaria, individualista, economicista, maccartysta che ha fatto piazza pulita perfino della parola «sociale» che emblematizzava, sia pure ormai solo formalmente, il vecchio MSI. Rifiutiamo di leggere il "Secolo d'Italia" in versione «fiuggiasca» diretto dal famoso intellettuale liberaldemocratico e antifascista che risponde al nome di Gennaro Malgieri, proprio perché, oggi come oggi, altro non è che un foglio berlusconiano. Cessammo perfino di dargli un'occhiata dopo aver preso visione di un pezzo di Gennariello da Salopaca con il quale egli, già seguace duro e puro del corporativismo di Carlo Costamagna -cui vari anni fa ebbe a dedicare un pregevole saggio- assicurava ad alcuni dubitosi che il partito «fiuggitivo» era pienamente consenziente con la progettualità ultra-liberista e mega-privatizzatrice di Forza Silvio. Non ci scandalizzammo troppo del cambiamento di casacca: in fondo Gennariello si era trovato nella drammatica situazione di dover scegliere fra il magnare e il costamagnare e, ovviamente, da buon seguace di Gianfranco Fininvest, aveva optato seguendo criteri, diciamo così, pragmatici.

 

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Altra esternazione tatarelliana, sempre su "Le ragioni della politica": «C'è cioè la doppia tradizione di un'area vasta riformista socialista culturalmente contraria all'egemonia del PCI prima e del PDS dopo, e contemporaneamente attestata sulla grande riforma e il grande cambiamento. Tutto ciò premesso, è possibile nel Polo e soprattutto per "oltre il Polo" avviare un discorso in nome della doppia tradizione per la creazione e l'identità di una area, mai satellite, che concorra con tutte le altre forze politiche e culturali per elaborare il programma comune da sottoporre in vincolante contratto con gli elettori per la competizione bipolare perfetta tra i due schieramenti? A questo interrogativo noi rispondiamo di sì e vogliamo dare un contributo di analisi e di stimolo».

Caro Tatarella, cerchiamo di andare non solo «oltre il Polo», ma anche oltre il generico. Anzitutto, quale significato attribuisci allo sconfinamento dal Polo? E, soprattutto, a cosa fai riferimento allorché ti pronunci per «la grande riforma e il grande cambiamento»? Se nel tuo immaginario i termini «riforma» e «cambiamento» sunteggiano abbastanza mistericamente un progetto ispirato al conservatorismo dinamico tipico delle destre europee e americane -ma anche di certi socialisti corrosi dallo scetticismo e dal rinunciatarismo privatistico-, non esito a significarti che sei lontano trilioni di anni luce dalla possibilità di un rapporto collaborativo stricto senso e anche puramente dialogico con socialisti ritenuti tali soltanto in virtù di una targa o di una fama magari usurpata. Ma poi, perché attestarsi esclusivamente sui socialisti? È con l'insieme della Sinistra che Alleanza Nazionale, oppure la sua sola corrente tatarelliana, deve costruire un rapporto significativo; rapporto, però, che reclama come comportamento propedeutico la accorta fuoruscita prima ancora che dal Polo dal «fiuggismo» e, gradatamente, dalla stessa connotazione di destra. Se questo è possibile con la segreteria di Fini sta a Tatarella giudicare. Confessiamo che le nostre riserve sono notevoli, perché l'uomo è troppo reazionario. La verità è che noi pensiamo come soluzione salvifica per AN a una leadership che si modelli su figure del dopoguerra di taglio nazionalpopolare quali Giorgio Pini, Concetto Pettinato, Manlio Sargenti, Bruno Spampanato, Piero Pisenti, Olo Nunzi ed altri.

A noi, il bipolarismo, già lo abbiamo detto, non piace. Ma se proprio non si ritiene di potervi rinunciare in nome dell'imperversante «nuovismo», quanto men ci si offra una pratica bipolarista autentica. Ossia, per dirla tutta, destra vera contro sinistra vera. E una AN quale quella che, con molta astrattezza, abbiamo profilato in poche battute dovrebbe essere parte integrante dello schieramento di sinistra, nell'ambito del quale avrebbe una grande funzione da svolgere perché starebbe in contatto con una sinistra politicamente, ideologicamente, programmaticamente, psicologicamente esausta in quanto troppo arrendevole di fronte all'incalzare della cultura liberal-capitalistica, borghese. Una funzione, oseremo dire, correttiva; idonea a segnalare la necessità che le formazioni progressiste non esauriscano la loro pulsione riformatrice sul terreno delle questioni istituzionali ma la proiettino anche su quello delle trasformazioni sociali, della ridistribuzione del reddito, del potere, della progettualità fra le varie componenti della società. Un terreno, questo, sul quale la Sinistra batte la fiacca, magari perché pressata in senso moderato da alleati che si dicono di centro ma in realtà appartengono alla destra.

Il limite del contenuto della prosa tatarelliana -in verità non priva di un certo interesse, pur nell'insufficienza delle analisi e nel permanere di vecchi pregiudizi frenanti- è in una sorta di auto-assegnazione di un ruolo demiurgico. Pinuccio da Bari distribuisce a dritta e a mancina diplomi di «legittimazione» a farsi partecipe di questo o di quello, di stare con questo o con quello, di allogarsi di qui e di li. Insomma: stabilisce i compiti di tutti e di ognuno. Dice: «L'area laico-riformista-socialista ha le sue anime: la prima s'è collocata volontariamente, coscientemente e quindi legittimamente a sinistra nell'Ulivo. La seconda è corteggiata e inseguita dalla sinistra, vota contro il sinistra-centro egemonizzato dal PDS, ha reso possibile la vittoria del Polo ma è considerata dal Polo soggetto apolide (sottolineatura nel testo; N.d.R.). Noi riteniamo invece che nella casa comune del programma comune, chi partecipa, con la propria cultura, non è soggetto apolide. Ma protagonista. Insieme a tutti gli altri».

 

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Questa fotografia della situazione della sinistra non pidiessina e le indicazioni operative che il presidente dei deputati di AN ne fa scaturire ci persuade poco. Per noi quelli che hanno votato nel '94 e successivamente per Forza Silvio onde vendicarsi di Occhetto e delle sue stupidaggini non anti-craxiane ma anti-socialiste, del pool Mani Pulite, degli affronti fatti a Craxi non sono più dei socialisti. Un socialista non vota per la destra neppure con la pistola puntata alla tempia, specie se trattasi di una destra come quella di Silvio da Arcore: anti-operaia, anti-popolare, padronale, maccartysta, economicista, nemica viscerale di ogni e qualsiasi sinistra. L'unico impulso che «socialisti» come quelli nascosti negli anfratti del Polo possono sollecitare è quello di tentare un recupero di essi, per il ritorno a casa. Anche perché l'unico «luogo» dove dei socialisti possono tentare con risultati apprezzabili una rettifica di azioni e impostazioni errate della Quercia e di Rifondazione Comunista è quello dove c'è la Sinistra. Pertanto la tesi tatarelliana della doppia presenza socialista parimenti legittima, l'ambigua equidistanza che procura un male non a noi (che non la prendiamo nemmeno in considerazione) ma ad AN e, quanto meno, alla corrente facente capo a "Millennio - Le ragioni della politica", perché una volta nel Polo questi pseudo-socialisti filerebbero subito verso le montagne di miliardi e le tivù del Cavaliere Azzurro piantando in asso il sinedrio di Via della Scrofa, non sta né in cielo né in terra, roba tutta da gettare alle ortiche. Tatarella tenga ben presente quanto successe a quell'autentico cretino truccato da genio che risponde al nome di Marco Pannella con i suoi tre ex-«riformatori» Taradash, Calderisi e un altro carneade di cui non ci sovviene il nome, tutti passati dalla parte del ras di Arcore alla prima diatriba fra costui e il santone radicale.

In conclusione: spetta proprio a Tatarella e a quelli che, come lui, «sentono» la «questione socialista», muoversi con la necessaria, onesta spregiudicatezza. Senza cercare scorciatoie apparentemente facili ma sostanzialmente difficili perché perennemente affollate in un paese come l'Italia. La peggiore idea che potrebbe venirgli è quella di identificare la «questione socialista» con il salvataggio dei rottami del craxismo e con la loro sete di vendetta. Gli sarebbe fatale.

Enrico Landolfi

 

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