da "AURORA" n° 44 (Novembre - Dicembre 1997)

EDITORIALE

Le chimere dell'anticapitalismo

Giovanni Mariani

 

Questo giornale da sempre si colloca in posizione antagonista rispetto al liberalcapitalismo e pur tra mille difficoltà di ordine economico ed organizzativo ha cercato di dare risposte serie, serene e convincenti alle drammatiche questioni poste dalla modernità. Sempre si è astenuto dall'utilizzare slogans semplicistici e fuorvianti e parole d'ordine onnicomprensive quanto deformanti di una realtà complessa con la quale ogni serio soggetto antagonista deve per forza di cose misurarsi.

Ciò perché abbiamo sempre avuto coscienza che le discipline economiche rappresentano, di per sé, una sintesi mai completa di contraddizioni che, immancabilmente, si coniugano alla pura imprevedibilità; una sorta di magma unitario difficile da interpretare per gli stessi addetti ai lavori.

Questo approccio, attento e appassionato, non è stato di certo utilizzato dai due partiti che nello scenario politico italiano «osano» ancora definirsi antiliberisti e anticapitalisti: Rifondazione Comunista e MS - Fiamma Tricolore. Queste due entità partitiche non hanno compiuto lo sforzo necessario per adeguare i propri programmi economici rifugiandosi nelle pseudo-sicurezze del passato a fronte di scenari ben più complessi in continua, quotidiana, evoluzione.

Rauti continua pedissequamente a riproporre un corporativismo stantio e datato. Bertinotti, che pure non cessa di proclamarsi comunista, abbandona in gran sordina le tesi sulla collettivizzazione dei mezzi di produzione, la statalizzazione dell'economia, l'abolizione della proprietà privata, accontentandosi delle insignificanti briciole che il governo Prodi elargisce, così rivelando appieno la sua vera essenza: quella di essere l'ala sinistra di uno schieramento che, ad essere buoni, può definirsi socialdemocratico.

Del resto tutte le forze politiche che occupano i banchi di sinistra dell'emiciclo parlamentare sono in preda ad una convulsa evoluzione neo-conservatrice e liberista. I segnali sono innumerevoli ed univoci: in quel centrosinistra -che tanto piace al conservatore Montanelli, che ha cooptato nelle proprie fila un reazionario dichiarato come Antonio Di Pietro e che spesso si è meritato per le sue scelte il plauso della Confindustria-, di sinistra è rimasto ben poco. Nulla vi è di scandaloso nel sostenere, come noi sosteniamo, che la Destra -la Destra seria, affidabile, intelligente, modernista- è rappresentata più dalle lucide strategie di Massimo D'Alema tutto proteso a legittimare la conversione liberista e atlantista degli ex-comunisti che dalle confuse e raffazzonate iniziative di Gianfranco Fini e che il PDS interpreta con molta più serietà e credibilità di Forza Italia il ruolo di mosca cocchiera dell'ultra-liberismo.

Tornando alle due «rifondazioni», missina e comunista, e sul loro preteso anticapitalismo vanno evidenziate le loro scoperte contraddizioni e i loro marchiani errori di fondo.

I rifondatori della Fiamma, ad esempio, incardinano tutta la loro strategia anticapitalista sul corporativismo, teoria dell'organizzazione delle forze produttive messa al bando dalla scelta socializzatrice di Mussolini del '43 con la quale il Rivoluzionario socialista intese rimediare alle storture che il corporativismo aveva prodotto durante il ventennio. È evidente che Rauti, nonostante la proclamata volontà di recuperare le ardite tesi sociali che fecero da sfondo alla Repubblica mussoliniana, rimane legato ad una visione reazionaria e destrorsa dell'organizzazione sociale. E plausibile che la rifondazione alla quale la Fiamma fa riferimento sia quella del ventennio: ossia, la riabilitazione politica dell'oligarchia confindustriale in camicia nera con la quale Mussolini fu costretto, dalle particolari condizioni storiche, a patteggiare. Per essere più chiari ed impietosi: il MSI di oggi, come quello di ieri, non intende far proprio un programma avanzato di democrazia, anche economica, ma solo utilizzare strumentalmente il fascino che la RSI continua ad esercitare. Ampia prova di questa nostra asserzione sono le posizioni politiche del partito di Rauti che a parole si professa anticapitalista ma quando è l'ora di schierarsi tra Sindacato e Confindustria o tra lavoratori ed imprenditori, la simpatia e l'umana solidarietà -essendo nulla il suo peso politico- vanno sempre ai secondi.

Del resto la Socializzazione annovera nemici ben più agguerriti della sparuta pattuglia rautiana: l'unica idea socialista che ebbe, seppure parziale, applicazione in Italia è invisa a tutte le componenti dell'attuale quadro politico, dall'estrema destra reazionaria di Fini alla destra aziendalista di Forza Italia, dalla sinistra liberale a quella comunista. E con costoro i sindacati i quali giustamente paventano l'evento di meccanismi di rappresentanza sociale nei quali i lavoratori manuali ed intellettuali hanno un ruolo primario. Questo gli uomini della burocrazia sindacale lo hanno ben chiaro e come tutti gli uomini di potere non possono che schierarsi a difesa del verticismo gerarchico. Vicende quali quella della Zanussi di Pordenone, nella quale era già arrivato in porto un progetto di coogestione, seppure parziale, tra proprietà e lavoratori, stanno a dimostrare ciò.

I «neo-comunisti» di Bertinotti, d'altro canto, non si discostano di molto dalla Fiamma, perseveranti come sono nel proseguire lungo la strada, almeno a parole, degli errori prodotti dall'ideologia collettivista. Ed è assurdo che i militanti di Rifondazione, dei quali non mettiamo in dubbio la buonafede e la sincerità nell'impegno sociale, non riflettano abbastanza sul fatto che furono i carri armati comunisti a schiacciare le rivolte operaie polacche ed ungheresi e che sovente la bandiera rossa fu lavata col sangue dei lavoratori massacrati dall'oligarchia di un capitalismo di Stato a conti fatti affatto diverso, se non nella sua stupida inefficienza, da quello delle multinazionali americane. Da Berlino nel '53 a Poznan a Budapest nel '56, ai moti di Danzica nel '70 e di Radom nel '76, ancora di Danzica nel '80 e nel '88 si trattò sempre ed esclusivamente di rivolte operaie organizzate e gestite dalla classe operaia. Quale maggior sconfitta per un partito che sosteneva di incarnare il potere del proletariato e di essere l'indispensabile strumento di emancipazione dello stesso proletariato dai processi, parafrasando Lukacs, di alienazione e reificazione inevitabili nei paesi capitalisti? I soldati dell'Armata Rossa spararono a più riprese sulla classe operaia con la stessa violenza e lo stesso livore di Bava Beccaris, sebbene sulle loro uniformi non brillassero le bianche stelle della monarchia ma la stella rossa simbolo del riscatto della classe operaia.

Ma i militanti di Rifondazione non ritengono necessario domandarsi perché quegli operai sono morti stritolati dal cingoli dei carri armati, nei sotterranei del KGB, nel manicomi e nei Gulag siberiani. Sono morti per la restaurazione del capitalismo, l'affermazione del liberismo che si è poi andata affermando negli ex-paesi socialisti? Oppure, con buona pace delle mitologie di certo comunismo occidentale, essi non rivendicavano qualcosa di molto simile alla socializzazione realizzata nella RSI; ossia un sistema economico-sociale in cui la partecipazione, la spinta dal basso, sostituisse i piani quinquennali studiati dalle onnipresenti e omnipervadenti burocrazie? Non chiedevano, questi lavoratori, la fine di un sistema burocratizzato, verticistico, accentratore proprio del regime dei Soviet che ha prodotto danni ben maggiori di quanto certa storiografia reticente voglia ammettere? Basti pensare che non tenendo in alcun conto il principio socialista «ad ognuno secondo i suoi bisogni, ognuno secondo le sue capacità» nei sistemi comunisti intere categorie di lavoratori venivano catapultate verso il basso o verso l'alto all'interno delle industrie non in base alle presunte qualità o deficienze ma in base alla fedeltà dimostrata nei confronti del partito, alle buone ed importanti conoscenze o, peggio, in base all'estrazione sociale dei propri genitori. Ragion per cui operai incompetenti avevano il diritto di dirigere industrie con migliaia di dipendenti solo perché discendenti da famiglie di operai, al contrario centinaia di eccellenti architetti e ingegneri erano costretti per purificarsi dal peccato delle loro origini borghesi a lavorare come magazzinieri e tornitori.

Com'è universalmente noto, il comunismo è crollato in virtù di questi marchiani errori eppure sino all'ultimo istante, anche quando risultava evidente e immanente la crisi, la nomenclatura non intraprese alcun tentativo di rimediare alle deficienze del sistema, tentando di realizzare, almeno in parte quelle riforme che la classe operaia a gran voce chiedeva, prima fra tutte la libertà di espressione e critica.

I neo-comunisti italiani, segnatamente i vertici di Rifondazione, rimangono avviluppati in queste logiche; non vi è stata nessuna seria critica ai nefasti e feroci metodi dello stalinismo e il centralismo democratico ancora vigente nel partito rifondarolo è quanto di più lontano vi possa essere da qualsiasi forma di democrazia economica e sociale. Del resto l'antagonismo di Bertinotti e Cossutta non ha solide basi; è solo una serie infinita di richieste fumose e contraddittorie, nessun piano economico organico da contrapporre alla devastante avanzata del nemico di classe.

E se è pur vero che nelle attuali condizioni qualsiasi serio antagonismo, capace, per intenderci, di mettere in difficoltà il modello unico che si va affermando, sarebbe ben presto soffocato, va rimarcata la totale incapacità di Fiamma e Rifondazione di cogliere all'interno del processo di unificazione europea gli elementi in contrasto con i processi di omologazione economico-culturale del Pianeta.

Nessuna nazione europea, tanto meno l'Italia, può permettersi il lusso di mantenere una qualche peculiarità sociale se questa risulta in contrasto con i dettami del sedicente Mercato. Qualsiasi nazione che si svincolasse dai processi di globalizzazione economica sarebbe costretta ad inaugurare l'infelice stagione dell'autarchia, marciando a tappe forzate verso l'impoverimento generalizzato del proprio popolo ed alla marginalizzazione sullo scenario planetario. Altre prospettive, è lampante, si aprirebbero ad una Europa unita che tentasse di realizzare un sistema svincolato dalla «economia di carta», vero grimaldello manovrato dalle mani adunche del capitalismo cosmopolita.

Oggi la vittoria della liberaldemocrazia appare totale e totalizzante. Non vi sono situazioni politiche ad essa alternative in quanto questa ideologia è dotata, in regime di monopolio, di tutti gli strumenti adatti per soffocare la ribellione dei singoli, dei gruppi e delle nazioni. Un sistema che tra l'altro introduce due regole ferree alle quali nulla o poco si potrà opporre nell'immediato futuro:

a) l'uomo vale per quello che produce materialmente;

b) nessuna compressione o limitazione può essere applicata all'economia.

In tale ottica sono del tutto insensate le speranze che certa sinistra e certa destra reazionaria ripongono nelle sempre rimandate rivolte dei paesi del Terzo Mondo, islamici e non.

E sarebbe un atto di onestà intellettuale ammettere che tutte le rivoluzioni terzomondiste del passato furono possibili grazie agli investimenti di paesi terzi (in particolare Russia e Cina). Cosa rimane oggi di rivoluzionario di radicalmente alternativo nell'intero Globo? Possiamo ragionevolmente prendere per buoni gli scenari delle cassandre di Sofia e Belgrado sul risveglio islamico? Oppure bisogna ragionare in termini meno settoriali e guardare con la necessaria lucidità ad uno scenario in cui l'Iran sciita di Khatami apre, seppure con tutte le cautele del caso, «al popolo degli Stati Uniti» o il ruolo che giocoforza recitano i paesi islamici più ricchi, consci che una vittoria dell'integralismo su larga scala porrebbe, per prima cosa, fine ai loro regimi tirannici, corrotti e viziosi. E non è forse a tutti noto che il regime fanaticamente integralista di Kabul si regge grazie agli aiuti militari del Pakistan che agisce su mandato diretto degli Stati Uniti? Né le speranze diffuse di un risveglio, in salsa religiosa, della Sublime Porta possono impensierire chi ha già dimostrato in Algeria di essere disposto a mantenere acceso, sostenendolo finanziariamente, se necessario per decenni, il focolaio della guerra civile, col suo corollario di efferati massacri, pur di mantenere lo stretto controllo dei paesi produttori di materie prime o determinanti sul piano geopolitico.

I prestiti e le tecnologie occidentali hanno maggiore incidenza sociale dei versetti del Corano; lo dimostrano, per l'appunto, la progressiva moderazione della Repubblica dell'Iran, quanto gli investimenti nel Libano dimostratisi più efficaci degli agguerriti battaglioni di marines nel fermare quello che a ragione fu definito il carnaio libanese. La rivoluzione islamica ha, al pari del comunismo, aperto nella sua struttura una grossa falla: la fascinazione esercitata dal benessere occidentale sulle masse diseredate del Terzo Mondo. Questo si avverte palesemente anche all'interno dell'immigrazione musulmana in Europa ove, con poche eccezioni, la stragrande maggioranza degli immigrati appare più propensa ad integrarsi, usufruendo degli agi del Bengodi occidentale piuttosto che pensare di distruggerlo.

È del tutto aleatorio immaginare oggi una rivoluzione su scala planetaria che, parafrasando Mao, partendo dalle campagne del Terzo Mondo arrivi a circondare le opulente città occidentali. Al contrario il sistema capitalista, al momento, può entrare in crisi per fattori ad esso interni come avvenne per il comunismo senza il concorso di catalizzatori antagonisti. Una caduta che potrebbe essere determinata da una crisi finanziaria ciclopica come quella che si è rischiato di innescare negli anni scorsi con la crisi messicana e, in questi giorni, con quella delle Tigri asiatiche oppure con una vera e propria implosione morale dovuta alla progressiva decadenza culturale e politica del tutto estranea alle vicende economiche. Ma solo dall'interno del sistema, sia ben chiaro! Gruppi politici e culturali antagonisti, non frenati dall'eccessivo frazionamento e non avviluppati nelle logiche castranti delle vecchie ideologie potrebbero contribuire a ridare vigore in campo morale e culturale, innescando processi di riassetto economico e sociale.

Al momento qualsiasi altra strada è impercorribile a patto che non si vogliano seguire le orme di quei militanti di Rifondazione Comunista che spendono fior di milioni per arrivare a Cuba e dimenticare il sostanziale fallimento economico del regime castrista (solo in parte attribuibile all'iniquo embargo statunitense) nelle comode stanze degli hotel a 4 stelle. Magari inebriati dai vecchi discorsi del lider maximo sulla guerriglia nel Terzo Mondo e dai mille Viet-Nam ipotizzati dal Che. Oppure illudersi, come c'è capitato di sentire, sulla portata rivoluzionarla del subcomandante Marcos e dell'ex-marxista Kabila; il primo vero e proprio, quanto unico, caso conosciuto di guerrigliero virtuale, il secondo arrivato al potere in un Paese assediato dalla foresta e dalla miseria.

Persino Lenin aveva capito che senza il vil denaro non si arriva lontano, per questo sperò fino all'ultimo nella rivoluzione tedesca e del veloce assorbimento di questo paese nella nascente economia dei Soviet. Inutile ricordare che la Germania orientale sotto il regime comunista non diede i risultati che Lenin aveva ipotizzato a suo tempo sulla Germania unita, non li avrebbe potuti dare. Il comunismo si è dimostrato purtroppo, ripetiamo purtroppo, un Re Mida all'incontrario, capace cioè di immiserire anche le nazioni potenzialmente più prospere.

L'anticapitalismo parolaio, se mai ci ha contagiato in anni lontani, non ci appartiene più. Questo non significa abbandonare l'impegno e la lotta per un mondo migliore e più giusto, quanto prendere coscienza delle condizioni oggettive in cui dobbiamo operare. All'orizzonte non intravediamo la marcia inarrestabile delle forze soggettive della rivoluzione perché anche ammettendo che potenzialmente queste forze esistano, esse non hanno i requisiti morali e lo spessore culturale per porle in atto. Al contrario ciò che abbiamo di fronte è una grande confusione che aumenta mano a mano che ci si avvicina a quella che si autodefiniscono avanguardie e in realtà altro non sono che nugoli di pavidi reazionari che agitano fasci littori o falci e martelli per meglio occultare la loro castrante impotenza.

Non solo questi stanchi profeti, Rauti e Bertinotti, dicono poco ma quel poco che dicono il più delle volte è totalmente sbagliato. La difesa ad oltranza dello Stato sociale, tanto per fare un esempio, non può che farci piacere ma, a ben vedere, si tratta di una difesa sterile, parolaia, protestataria a tratti demagogica, priva di contenuti e prospettive ridottasi a scimmiottare senza alcun pudore le scelte clientelari dell'assistenzialismo democristiano. E se lo smalto della Rivoluzione d'Ottobre nella fu Unione Sovietica s'è logorato strada facendo nella infinita serie di riforme economiche non solo incapaci di garantire il superfluo ma persino il necessario, Cossutta e Bertinotti si sono arenati per la loro incapacità progettuale ben occultata nella cortina fumogena della facile demagogia.

In una fase in cui lo smarrimento regna sovrano noi dobbiamo continuare a pensare che i cambiamenti veri, radicali, sono patrimonio delle avanguardie vere, non certo dei centri di potere. L'assenza di risposte adeguate ai problemi posti dalla modernità è propria di quelle forze che a parole si proclamano avverse al liberalcapitalismo. Nel nostro piccolo siamo fieri di affermare che non abbiamo più nulla da spartire con aree politiche avviluppate nei miti incapacitanti. Ciò non significa rinnegare il proprio passato o dimenticare che nel «vecchio» mondo deambulano ancora persone di valore, al contrario. Quello che manca a tanti di costoro è il coraggio di abbandonare progetti fallimentari e irrimediabilmente datati. L'autocritica rimane un'operazione difficile specie quando si tratta di mettere in discussione il proprio operato e, soprattutto, i propri sogni ma è indiscutibilmente necessaria. Nessuno possiede la verità assoluta e sbagliare è umano; proprio in virtù di ciò non è disonorevole tornare sui propri passi quando la strada intrapresa si dimostra sbagliata. Purtroppo in politica, è non solo, talvolta si preferisce rinserrarsi nel ghetto dei propri errori piuttosto di cercare la possibile verità altrove.

In fondo, bisogna riconoscerlo, quale migliore rifugio vi è del mito, del sogno, dell'ultraterreno, del dogma da osservare? Poco importa se nel frattempo il moloch liberista potrà dormire sonni tranquilli e fin quando le avanguardie non rinunceranno agli stupidi massimalismi, al culto funereo del passato esse continueranno, consapevoli o meno, ad inseguire la chimera dell'anticapitalismo.

Giovanni Mariani

 

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