da "AURORA" n° 44 (Novembre - Dicembre 1997)

MALI D'ITALIA

Inchieste giudiziarie e bossoli fecali sul Po

Giovanni Luigi Manco

 

Fino a pochi anni fa l'Italia appariva un caso disperato. "Le Monde" scriveva: «Lo Stato Italiano è espressione di un paese destabilizzato su tre versanti: politico, economico, sociale»; il "Times" assicurava che nella nostra penisola «il terrore parte dall'interno dello Stato»; "El Mundo" definiva l'Italia «un cancro in fase di metastasi».

La classe politica al potere pur di esercitare un capillare controllo sulla popolazione, aveva intenzionalmente lasciato alla criminalità organizzata settori pubblici essenziali quali ospedali e cimiteri, anagrafe e distretti militari, edilizia e seggi elettorali.

La determinazione di voltare radicalmente pagina non mancava, ma abili strategie stragiste, pianificate oltreoceano, la strangolavano. Gli Stati Uniti dettavano allegramente la politica estera e sociale interna. Poi il «palazzo» ha cominciato a smottare, dapprima lentamente, con movimenti quasi impercettibili, poi a mostrare crepe più profonde, infine a perdere qualche mattone, e dalla sua rovina sono nati due nuovi partiti che, da subito, non hanno dato alcuna speranza di cambiamento: Forza Italia (espressione di un'imprenditorialità cresciuta nell'humus tangentizio e criminale), e la Lega Nord (interprete delle lacerazioni nel tessuto connettivo della nazione).

Solo apparentemente c'è stato un cambiamento. Chi avrebbe dovuto andarsene è diventato grande elettore dei cosiddetti nuovi. La sproporzione fra ciò che si potrebbe fare e ciò che non si fa; il tirare a campare di andreottiana memoria, rimane uguale a ieri.

In un simile contesto il rischio che la gente si arrenda, accetti l'estrema deriva (dopo il separatismo civile, come logico corollario, anche il separatismo politico) è reale. Ed ecco la Lega Nord inventare grottesche rivendicazioni di indipendenza, pseudo-nazionale, attraverso l'uso e l'abuso di suggestive ritualità capaci di ingannare e coinvolgere masse subalterne, culturalmente e politicamente indifese. Una «proposta indecente» che ha trovato tra i veneti, dimentichi degli esodi di massa nella provincia di Littoria, sorta dalla bonifica di Mussolini, i più larghi consensi.

Storicamente considerati i «terroni del nord», i veneti hanno assistito in poco tempo, grazie a una serie di circostanze (la collocazione geografica nell'ambito della congiuntura politica-economica apertasi, in Europa, col crollo del muro di Berlino; orari di lavoro asiatici a salari ridotti), all'arricchimento di piccoli e medi imprenditori, ad una crescita economica insperata, ed ora hanno il terrore di perderla, l'angoscia di renderne partecipi i connazionali più sfortunati. Nessuno comunque, non solo i veneti, sembra rendersi conto che la rinascita, la salvezza dai troppi mali che affliggono la nazione, è possibile con una strategia diametralmente opposta a quella del separatismo, del divorzio tra le regioni. Come si può essere talmente ciechi da sperare negli Enti locali quando proprio questi risultano l'occasione privilegiata del diffuso malaffare, la «zona franca» nella quale i partiti si infiltrano per agevolare disonesti e incapaci? I Co.Re.Co (comitati regionali di controllo) per esempio, sono notoriamente una fucina di ammiccanti intrallazzi. Proprio per evitare interferenze e disarmonie funzionali i corrotti corruttori hanno perfidamente mantenuto al minimo indice di efficienza gli organi di controllo e di legittimità centrali (in primis la Corte dei Conti) e inaugurato nuovi Enti locali, come appunto i Comitati di Controllo, facilmente governabili. La gravità dei problemi nazionali dovrebbe consigliare una decisa politica unitaria in grado di colmare il divario tra aree depresse e non. Se pure qualche forma di decentramento è auspicabile, quello fiscale per esempio, non è su ciò che bisogna puntare ma su un grande progetto di crescita veicolato da un coerente programma di pianificazione.

Non sono le regioni meridionali a dissipare ricchezza ma i Governi che non lavorano nell'interesse dei cittadini. Un'effettiva prospettiva di progresso e benessere passa da un rinnovato legame unitario, fraterno e potente. La teoria economica dimostra che le regioni povere, quando possono disporre di buone istituzioni, nel lungo periodo crescono. La questione meridionale è stata molto spesso un pretesto per i furbi. Nel migliore dei casi è stata affrontata come una variabile indipendente anziché nelle vitali connessioni col corpo nazionale.

«I vecchi governi avevano inventato, allo scopo di non risolverla mai, la cosiddetta questione meridionale. Non esistono questioni settentrionali o meridionali. Esistono questioni nazionali, poiché la Nazione è una famiglia e in questa famiglia non ci devono essere figli privilegiati e figli derelitti». (Mussolini, 31/3/39)

Prima del mercato, prima di ogni elemento economico, c'è l'esigenza di una comunità assicurata da buone istituzioni. Per produrre bene ci vuole una comunità che dialoga, studia, si sviluppa. Mussolini, erede degli illuministi sull'efficacia dell'educazione, aveva intrapreso una lungimirante politica per creare una comunità morale, in grado di affrontare con successo le prove storiche sulla via del progresso. Le grandi cure prodigate per i «figli della lupa», i «balilla», la «gioventù del littorio», i circoli del Dopolavoro, si spiegano in questo senso.

La secessione è un rimedio peggiore del male, soprattutto nell'attuale contesto dell'integrazione europea e globalizzazione. Nel mercato c'è ancora tanta politica, negoziazione; contano i «grandi giocatori», chi più pesa sul piatto della bilancia. La grottesca invenzione di una «patria» padana torna utile non alla comunità umana di riferimento ma alla Germania che ha tutto l'interesse ad attizzare divisioni e odi etnici tra popolazioni pacificamente conviventi per frantumarle e satellizzarle nella propria orbita. Lo sventurato destino dell'ex-Jugoslavia dovrebbe pure insegnare qualcosa. Probabilmente non è affatto privo di fondamento il rapporto dei servizi di sicurezza sui finanziamenti alla Lega da Germania e Croazia.

A questo punto si pongono però alcune considerazioni. La deriva leghista non è un fenomeno imprevedibile ma la maturazione di un lineare processo politico che poteva portare solo dove ha condotto. Lo sfascio c'era, già era stato oggetto di analisi, studi ed aspettava solo l'occasione propizia per acquistare contorni definiti, oggettivarsi in una formazione politica alla «bassezza» dei suoi presupposti. Un fenomeno scaturito dalle viscere più profonde del sistema e scaricato in putridi grumi nella vita nazionale. Il fenomeno Lega era prevedibile; imprevedibile era la sua durata.

In quanto deiezione si sarebbe disfatta da sola in tempi relativamente brevi. Non ha cultura (l'ignoranza dei leghisti è proverbiale), dimostra incapacità di governo, ha solo piccole frange di nuovi padroncini. Il punto è che la Lega non è stata lasciata sola. Qualcuno ne ha impedito il disfacimento, l'ha lasciata libera di pescare nel torbido, perfino di dotarsi di strumenti atti a costruire dal nulla un autonomo potere indipendentista: parlamento, governo, corpo paramilitare, bandiera, e questo qualcuno ha un nome: Berlusconi o, per meglio dire, la Destra, eternamente in agguato a difendere i privilegi comunque guadagnati, sia pure nella fitta rete di clientele e favoritismi della cosiddetta Prima Repubblica. A Berlusconi faceva e continua a fare comodo un'emergenza nazionale per mettere al riparo la sua persona e i suoi affari dai riflettori delle inchieste giudiziarie. I leghisti sarebbero presto apparsi il bluff che sono se il «cavaliere» non avesse provveduto a regalargli l'amministrazione di importanti città, compreso Milano; se nel '94 non avesse aureolato, quasi santificato, la Lega affidando a una Pivetti la presidenza della Camera, a uno Speroni il ministero delle riforme istituzionali, a un Maroni il ministero dell'Interno, a un Pagliarini il ministero del Bilancio, a uno Gnutti il ministero dell'Industria, del Commercio, dell'Artigianato. La Lega resiste per l'interesse di chi l'ha issata sul podio. E al di là delle parole la strategia della Destra fino ad ora non si è diversificata di un millimetro. Alle penultime elezioni amministrative la Lega avrebbe potuto vincere, tutt'al più, in qualche paesello, invece con i voti del Polo ha vinto in due città. Diciamoci francamente la verità: a inquinare di bossoli fecali il Po e l'Italia è la banda berlusconiana, la destra eternamente interessata non al destino della nazione ma alla protezione della classe privilegiata nella nazione. Strizza l'occhio anche ai «comunisti» se serve a difendere privilegi, a impedire l'apertura di un'inchiesta giudiziaria sui loschi affari del fido Previti, a reimbavagliare la magistratura. Bossi è solo uno spauracchio smolleggiato all'occorrenza dal plutocrate Berlusconi; non è la Lega a minacciare l'avvenire degli italiani ma i «pupazzari» del secessionismo.

Giovanni Luigi Manco

 

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