da "AURORA" n° 44 (Novembre - Dicembre 1997)

MERCATO E SOCIETÀ

La crociata di Mammona contro gli «infedeli»

Stefano Greco

Dalla metà degli anni settanta due eventi, uno di natura tecnologica, l'altro di natura sociopolitica, si intrecciano e si saldano tra loro: la digitalizzazione e la globalizzazione. Dal loro combinarsi discendono fenomeni nuovi che toccano in modo rilevante la sfera delle relazioni: i servizi tendono a prevalere sui manufatti; la conoscenza, le informazioni, l'intelligenza prendono il posto delle materie prime, e persino dell'energia, come fattori strategici dello sviluppo. L'economia industriale si trasforma in tempi brevissimi in un'economia basata sui computers.

La portatilità del lavoro muta radicalmente la divisione internazionale del lavoro e lo scenario competitivo. I capitali, grazie alle reti telematiche, sono diventati mobilissimi; miliardi di dollari sono in circolazione ogni giorno in ogni parte del mondo, somme pari a quasi il doppio delle riserve monetarie di tutte le banche centrali. Le limitazioni, normative delle autorità monetarie nazionali risultano vane.

L'aspetto della portatilità del lavoro è gravido di conseguenze: quando gran parte del lavoro ha un contenuto intellettuale, è facile trasportare il prodotto del lavoro da un luogo ad un altro. La localizzazione del lavoro e della fabbrica diventa di secondaria importanza: la logistica della Swissair viene gestita da un'impresa in India; i quotidiani prodotti a Londra o Milano e stampati a Francoforte o Roma; i semiconduttori disegnati in Europa vengono prodotti a Taiwan.

Produzione, distribuzione, ricerca e sviluppo si muovono in un unico sistema economico. La natura esclusivamente economica e finanziaria del processo di globalizzazione ha colto di sprovvista i responsabili politici. C'è il rischio che la iper-concorrenza porti sempre più a una crescente disgregazione sociale e a nuove forme di povertà. L'innovazione tecnologica e organizzativa spinta all'estremo fa crescere i lavori marginali, la disoccupazione, e quindi la criminalità e la disuguaglianza sociale. L'emigrazione delle aziende nei paesi poveri è un aspetto poco rassicurante della globalizzazione. Gli esclusi, gli emarginati, i discriminati sono moltitudini. Nessuna ortodossia può esorcizzare completamente le inquietudini e preoccupazioni connesse all'avanzare della mondializzazione: venti milioni di disoccupati europei; polverizzazione crescente delle retribuzioni tra lavoro qualificato e lavoro poco o affatto qualificato; restrizioni crescenti della spesa pubblica nella società, nella previdenza, nell'istruzione. Secondo l'Istituto di Studi Politici di Washington «Le prime 200 grandi Corporations garantiscono il 28% delle vendite mondiali, ma impiegano meno dell'1% dei lavoratori del globo».

Le novità sono notevoli e di difficile soluzione. Nei primi giorni di quest'anno fonti ufficiali hanno annunciato che la disoccupazione nel paese era diminuita di mezzo punto nel corso dei tre mesi precedenti. Immediatamente l'indice Dow Jones è caduto. Fino a qualche anno fa una simile reazione sarebbe stata assurda: più occupazione significa più capacità di consumo, più produzione, più crescita, quindi più prospettiva per le imprese e più utili per i loro azionisti, ma in un sistema di scambi dominato dalle speculazioni di capitali il vecchio discorso non vale più. Prevale la paura dell'inflazione, dell'aumento d'interesse che rischierebbero la redditività degli investimenti finanziari. Ormai oltre il 90% delle transazioni finanziarie è di natura speculativa.

Di fronte a questi fenomeni, non soltanto i governi sono impotenti, ma anche le istituzioni economiche internazionali non hanno strumenti di vigilanza; il FMI, ad esempio, controlla solo il 10% della liquidità mondiale. Anche in quei paesi dove si è verificato un incremento del PIL il livello di disoccupazione è rimasto elevato. Tra il 1980 e il 1993, le 500 imprese con fatturato più alto hanno ridotto di 4 milioni e 400 mila unità i posti di lavoro. Solo lo 0,55 della forza lavoro di tutto il mondo è alle dipendenze di queste imprese che però controllano il 25% della produzione e il 70% del commercio mondiale.

Il processo di progressiva concentrazione della ricchezza e delle opportunità nelle mani di settori sociali sempre più ristretti mina le basi stesse della stabilità sociale, diffondendo un generale senso di insicurezza. V'è una correlazione tra crescita della disuguaglianza nella distribuzione del reddito e criminalità. In USA sono detenute 834 mila persone con elevate spese statali.

Ma guai a contestare il processo di mondializzazione. Chi sostiene che la politica deve governare l'economia non farebbe niente altro che pretendere di reprimere le aspirazioni del Terzo mondo per difendere i vantaggi di un particolare modello occidentale di vita e di rapporti di lavoro. Viene taciato di conservatorismo e immoralità perché ignora le aspirazioni dei poveri del Terzo mondo, il loro desiderio di ricchezza, prosperità e libertà, perché si rifiuta di vedere che proprio attraverso la mondializzazione dell'economia e l'imporsi del libero mercato, milioni di persone possono finalmente trovare accesso allo sviluppo e al benessere. Egoisti perché incapaci di adattarsi al cambiamento e offrire una speranza ai disperati della terra. Una crociata, insomma. Un modo di ragionare e di discutere che, negli ultimi anni, ha assunto i toni di un «lavaggio planetario del cervello» con cui si vorrebbe accreditare l'idea che la deregolamentazione degli scambi commerciali e la totale libertà dei mercati producono inevitabilmente un miglioramento universale dei livelli di vita.

I fatti però sono diversi. Le contraddizioni di questo «miracolo» non riguardano solo l'Occidente. L'enorme divario del costo del lavoro tra paesi ricchi e poveri (da 1 a 30) è destinato a rimanere tale. Appena il divario si riduce, scattano meccanismi correttivi che lo riportano al punto di partenza. Fino al 1990, i paesi prediletti per trasferire la produzione in appalto erano la Corea del Sud, Taiwan e Hong Kong, ma allorché i lavoratori di questi paesi ottennero aumenti salariali, le multinazionali europee ed americane guardarono alla Cina, all'Indonesia, alla Tailandia sebbene in questi paesi non esistessero imprese solide cui appaltare la produzione. La soluzione venne offerta dalle stesse società sud-coreane, di Taiwan e di Hong Kong che già lavoravano per le multinazionali. A loro non importa di rimanere nei loro paesi di origine e pur di continuare ad avere le commesse delle multinazionali erano disposte a chiudere le fabbriche in casa loro e a riaprirle altrove. Così le società della Corea del Sud, di Taiwan e di Hong Kong si sono a loro volta trasformate in multinazionali che investono soprattutto in Asia e in America Centrale per produrre a basso costo ciò che serve alle multinazionali americane ed europee.

Fra loro è sorta una specie di spartizione geografica. Le società di Hong Kong investono soprattutto in Cina, quelle di Taiwan in Vietnam e in America centrale. Oltre che per i bassi salari questi paesi sono prescelti perché vietano il diritto di sciopero e puniscono qualsiasi tentativo di organizzazione sindacale.

Il Terzo mondo ci vendo l'80% dei prodotti base (combustibili, alimenti e materie prime), ma questi prodotti quasi mai valgono più del 10% del prodotto finale che se ne trae. Cioè su un prodotto base che rende 100, loro guadagnano 10, noi 90; ma quando vendiamo loro il prodotto finito, lo devono pagare 100, essendo il prezzo dei prodotti base fissato dalle grandi società e dai governi dei paesi ricchi che comprano.

Anche gli aiuti al Terzo mondo rientrano nella pratica di sfruttamento. Per ogni dollaro dato al Sud, vendiamo nove dollari di merce, e dove l'Europa comunitaria raccoglie nove di guadagno per ogni dollaro offerto, gli USA ne recuperano 15, il Giappone 21, la Russia 25. Questi dati dimostrano chiaramente come la interdipendenza fra paesi ricchi e poveri è basata su rapporti di profonda ingiustizia, una forma più raffinata di neo-colonialismo e di sfruttamento dei forti sui deboli con grande pericolo di far esplodere la rabbia dei poveri.

Vengono di grande attualità le parole di Mussolini pronunciate a Genova nel 1926: «La lotta fra le nazioni diventa sempre più dura, malgrado certo pacifismo ipocrita ed imbelle. Ogni popolo erige le sue barriere di egoismi e non lascia più varchi alla mentita fraternità internazionale».

Se il problema economico fosse quello di operare una scelta fra mezzi scarsi per raggiungere un determinato fine, basterebbe ricorrere alla tecnica per trovare l'algoritmo risolutivo; se il problema economico è invece quello della scelta tra fini diversi -ossia della scelta fra istituzioni economiche- il ricorso alla tecnica, anche la più sofisticata, risulta la condizione necessaria ma non sufficiente. L'impronta da dare alla tecnica costituisce, dunque, un tema etico: porre l'innovazione tecnologica al servizio della persona umana. La solidarietà può agire come meccanismo informale di assicurazione collettiva.

Non si tratta di combattere i processi di interscambio globale -di merci, uomini, linguaggi, culture- resi ormai irreversibili dal progresso delle comunicazioni e dalle nuove tecnologie. Come ha scritto il "Die Zeit" «... essere contro la globalizzazione è ragionevole quanto protestare per il cattivo tempo». Non è con il protezionismo che si possono risolvere i problemi ma recuperando il concetto forte di «etica» nel senso di «dimora», «finalizzazione di senso», e traducendolo in costruttiva progettualità.

Il vertice sociale di Copenaghen ha stabilito che la povertà può essere sradicata se si adottano strategie che puntino ad instaurare uno sviluppo sociale per tutti. Uno sviluppo che parta da una riduzione delle disuguaglianze, che preveda la tutela dei settori sociali deboli, la salvaguardia delle diversità, la pari opportunità tra donne e uomini, la partecipazione della società civile ai processi decisionali. Si rendono necessarie politiche pubbliche che correggano gli effetti indesiderati del mercato e ne completino i meccanismi. Rafforzare le organizzazioni sociali e civili (associazioni di contadini, organizzazioni di donne, cooperative, sindacati, organizzazioni per i diritti umani), significa aumentare l'influenza della comunità umana sulle decisioni politiche.

Gli effetti di disgregazione sociale nascono dalla crescente distanza tra i centri decisionali e le persone che subiscono le decisioni. C'è l'esigenza di agire contemporaneamente sulle imprese e sui governi. L'uso intelligente di alcune tecnologie della comunicazione può creare uno spazio comune di collegamento e di solidarietà. Il singolo può, insieme ad altri, creare un'onda d'urto globalizzante. Con le denunce, le manifestazioni, le proteste internazionali, l'embargo ed altre misure commerciali si può influire sui governi. Con lo sciopero si può influire sulle imprese. In quanto lavoratori si dispone di un formidabile potere, ma anche in quanto consumatori. Fare la spesa scegliendo i prodotti non solo in base alla qualità e al prezzo ma anche in considerazione dei sistemi di fabbricazione, inquinanti o meno; dell'utilizzo di materie prime riciclate o di primo impiego; della politica di occupazione e dei diritti dei lavoratori; delle strategie perseguite nei paesi poveri, non è senza risultati. Le imprese sarebbero costrette a riflettere bene prima di assumere comportamenti negativi se sapessero di doversi poi confrontare con un consumo critico. Nel 1994 è stato sufficiente il boicottaggio di una settimana dei consumatori tedeschi per indurre la Shell ad abbandonare il progetto di affondare la piattaforma Brent nel Mare del Nord.

Fino a ieri siamo stati più «devoti», più «gregge» che soggetti creativi, oggi che le strutture forti, di potere e ideologiche, si sono indebolite abbiamo, per la prima volta nella storia, l'opportunità di vivere da soggetti consapevoli, di agire e non subire, di «marciare e non marcire».

Solo una grande determinazione individuale e sociale può vincere il processo di immiserimento globale.

Stefano Greco

 

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