da "AURORA" n° 44 (Novembre - Dicembre 1997)

LA POLEMICA

Insufficienti le letture dei «colonnelli» di Fini

Poche, ma in compenso confuse,
le idee di Adolfo Urso sul gollismo

Enrico Landolfi

 

In Italia la politica è qualcosa di veramente molto strano. Avvengono, come si usa dire alla popolaresca, «cose turche». Succede, per esempio, che gente la quale si atteggia a nazionalista o, quanto meno, a «nazionale», a patriottica, a italianista, a tricolorista, colluda dichiaratamente, apertis verbis, con Stati, culture, leadership, personaggi stranieri. Oppure che si faccia culo e camicia - il Lettore perdoni questa sboccatezza di linguaggio una tantum- con un partito il cui gruppo dirigente composto da autentici traditori e rinnegati cinicamente porta avanti un disegno tendente alla cancellazione dell'Italia dalla carta geopolitica dell'Europa, anzi del pianeta.

È il caso, quest'ultimo, di un partito che osa chiamarsi "Forza Italia" e nel cui emblema campeggia il Tricolore della Patria, ossia un simbolo per onorare il quale da un secolo e mezzo, a un dipresso, si sono immolati milioni di italiani nelle più svariate guerre, ivi compresa una dolorosissima guerra civile di cui ancora portiamo le ferite, i segni, i travagli ad onta delle buone intenzioni superatrici manifestate dal Presidente della Camera dei Deputati, On. Luciano Violante, nell'allocuzione pronunciata all'atto del suo insediamento.

I contatti spuri e impuri del partito reazionario di Berlusconi -che non a caso ci rifiutiamo di chiamare Forza Italia, ritenendo più giusto ed acconcio usare l'appellativo Forza Silvio- con il traditore Bossi, noto anche per aver pubblicamente, a telecamere aperte, apostrofato una Signora che aveva «osato» esporre la bandiera nazionale a «gettare il Tricolore in un cesso», hanno conosciuto due fasi. Con la prima, di certo la più cauta, il Paperon de Paperoni di Arcore -dove, sia detto per inciso, ha rimediato una suonata elettorale meritatissima- e i suoi degni accoliti si erano limitati ad auspicare, ad invitare l'elettorato della Lega Nord a concedere nelle urne i propri favori alle liste allestite dal movimento silviesco. Poi, accortisi che i «padani» da quest'orecchio non ci sentivano ed erano più che mai compattati intorno all'ambigua figura dell'italiano rinnegato Bossi, si sono decisi ad umiliarsi accettando, insieme agli sberleffi e alle allusioni sprezzanti del senatur e relativi sodali, una alleanza di fatto mediante la quale nei due turni novembrini degli squittini amministrativi i traditori dell'Italia hanno riversato i loro voti sugli uomini del Polo collocati in ... Pole position. E, va da sé, viceversa. Insomma, come dicono a Napoli, «io ti do una cosa a te e tu mi dai una cosa a me». Caso per caso, dunque. E con tanti distinti saluti alla famosa «trasparenza» che dovrebbe distinguere, secondo i vari Previti e Dell'Utri, la Seconda dalla Prima Repubblica. E il nostro ineffabile Gianfranco Fini, il nazionalista che addirittura rivendicava, qualche anno fa, la Dalmazia all'Italia, anche se poi è venuto a più miti consigli? Come al solito, ha lasciato fare pur significando un elegante, raffinato disgusto. Convinto ammiratore di Indro Montanelli, si è come lui «turato il naso» ed è andato a votare, disciplinatamente ottemperando alle indicazioni del nababbo arcoriano. In fondo, anche per questi fascisti pentiti l'Italia è solo un'opinione, una variabile (non) indipendente. O forse, chissà, un variabile impazzita.

Quello però che ci fa incazzare come bestie è che, in fondo, Berlusconi è mosso da una logica, ancorchè perversa. Egli deve salvaguardare un impero industriale e televisivo, deve mettere al riparo da una Sinistra che, nella sua immaginazione malata, gli vorrebbe togliere una valanga di miliardi e ville da "Mille e una notte". Di più: deve mettere la mordacchia ai magistrati diversi dai vari Squillante e soci. Ma fini, ma Tatarella, ma Fisichella, ma Storace e compagnia cantante? Siccome non abbiamo né prove né motivi per ritenerli invasati dal demonio del denaro, ci chiediamo cosa li spinge a sputtanarsi ideologicamente, politicamente, umanamente. La risposta non può essere che una: l'odio viscerale per la Sinistra, per i «rossi», per i «marxisti», per i «comunisti», per i «senza Dio». La stessa avversione maniacale, ossessiva, morbosa, al limite della follia che induceva negli Anni Trenta i ... nazionalisti francesi -certo non tutti, ma parecchi- «Plutôt Hitler que le Front Populaire» («Piuttosto Hitler che il Fronte Popolare). Quella imboccata da Gianfranco Fini, dunque, è una strada che porta lontano. Stia dunque attento a dove mette i piedi, verso quale direzione li mette in moto. Qualche dubbio deve pur attraversargli la coscienza se alla Camera, durante la battaglia per il varo del decreto IVA, ha cercato una intesa con l'Ulivo contro il parere dell'azionista di maggioranza del Polo, turbato com'era dell'oscena unità d'azione fra berlusconiani e bossiani. Forse avrà cominciato a rendersi conto che l'Italia è un Valore, anzi un insieme di Valori eterni con i quali non è lecito scherzare e fare i finti tonti. Un soprassalto di moralità politica è certo benefico per tutti.

 

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Ma dopo aver detto e dato il fatto suo al Creso di Arcore, non intendiamo nella maniera più assoluta fare sconti ad Alleanza Nazionale, anch'essa protagonista, per responsabilità di uno dei colonnello di Fini più in vista, di qualche solenne porcata antinazionale. Si tratta dell'On. Adolfo Urso, che in una intervista rilasciata al "Corriere della Sera" e, se non andiamo errati, ripresa dal quotidiano ufficiale del partito "il Secolo d'Italia", ha letteralmente ma non letterariamente dato i numeri, mettendosi soggettivamente, a livello di dottrina, fuori dell'Italia e, dunque, oggettivamente contro l'Italia, quell'Italia che per lui, considerata la sua origine, dovrebbe essere una religione.

Seguiamo l'ex-missino filo-socialista -perché questo era Urso quando militava nella corrente di Domenico Mennitti, all'epoca vice-segretario del MSI-DN con la segreteria Rauti- nella sua strabiliante comunicazione: «Per me la crisi della Destra si risolve guardando alla Francia. Nel prossimo anno costruiamo un centrodestra formato da due soggetti: un centro giscardiano e una destra gollista. Noi diventeremo la destra gollista. E completeremo così il processo di Fiuggi con la conferenza di gennaio».

L'On. Urso dovrebbe collaborare ad un giornale umoristico. Pensate: fa parte della créme di un partito che si definisce «nazionale» e poi con una sfacciataggine davvero degna di migliore causa ci viene a raccontare che il Polo deve integralmente, integralisticamente, infranciesarsi senza sbavatura alcuna andandosi ad abbeverare alle fonti della cultura politica francese: il Giscard-Pensiero a Berlusconi e il De Gaulle-Pensiero a Fini (e gli altri soci della congrega cavalieristica?). Una perfetta lottizzazione ideologica, non c'è che dire. E il documentare ideologico di Fiuggi che fine ha fatto? Intendiamo le quaranta fittissime pagine di quotidiano nelle quali, a mo' di ripostiglio, erano affastellati in uno spaventoso disordine intellettuale tutto e il contrario di tutto. C'erano Gramsci e Corradini, Salvemini e Rocco, Gentile e Gobetti, Croce e Di Vittorio, Einaudi e Sturzo, e chi più ne ha più ne metta. Assenti giustificati solo Falcao e Baggio, Sacchi e Maldini, Ravanelli e Signori, Wiercwod e Van Basten.

Ma entriamo nel merito -nel demerito, anzi- del folgorante annuncio del Nostro, al quale, peraltro, consigliamo di dire qualche sciocchezza in meno e di leggere qualche libro in più, se proprio ritiene di doversi proporre come ideologo ufficiale di AN per l'avvio del Terzo Millennio.

Anzitutto. Chi ha mai detto all'On. Urso che De Gaulle era di destra? Negli Anni Trenta il capo della Resistenza francese si era limitato a fare alcune conferenze nelle sedi dell'Action Francaise e ad intrattenere buoni rapporti con il Maresciallo Pètain. Questi i suoi rapporti con la destra francese, che poi si incaricherà di regolarmente letteralmente e non letterariamente massacrare dopo la sua vittoria su Vichy. Rapporti, peraltro, abbondantemente controbilanciati da relazioni intense diffuse e cordiali con alcuni uomini della Terza Repubblica quali il socialista Leon Blum e il liberale Paul Reynaud (quest'ultimo lo nominerà Sottosegretario alla Difesa nel suo governo di guerra), la cui amicizia dialogante gli era necessaria per tentare di battere le oppugnazioni di uno Stato Maggiore ottusamente conservatore alle sue dottrine di guerra di movimento fondate sull'impiego in qualche modo, per così esprimerci, «egemonico» dei mezzi corazzati. Gli ultragallonati gallici puntavano tutto sulla "Maginot" sostenendo tesi obsolete che anche le alte protezioni politiche dell'uomo di Colombey-les Deux Eglises non riuscirono a liquidare. Tuttavia il volume con il quale Charles De Gaulle elaborava la sua dottrina militare conseguì un lusinghiero e vasto successo, tanto vasto che lo Stato Maggiore tedesco decise di metterlo a frutto per liquidare in poche settimane la Francia sui campi di battaglia, grazie soprattutto alle forze corazzate del generale Guderian, puntuale esecutore della lezione gollista.

De Gaulle fu tanto poco di destra che non si limitò a massacrare o a consentire che venissero massacrate -per sempre e non solo in senso fisico- sia la destra attendista-pètainista che quella collaborazionista stricto sensu, ma già nel colmo delle operazioni belliche inserì i comunisti nel suo governo. E appena acchiappato il potere nell'agosto '44 mise mano alle nazionalizzazioni fra cui quella della "Renault", la famosa industria automobilistica.

Altre tappe del «sinistrismo» gollista:

1) la decolonizzazione, con relativa indipendenza dell'Algeria;

2) ennesima liquidazione senza mezze misure della destra con l'annientamento dell'OAS, dei «pieds noire» algerini e dei loro protettori politici di Parigi e altrove;

3) l'emancipazione della Francia dall'egemonismo americano;

4) la costruzione di rapporti positivi con l'URSS e le democrazie popolari;

5) la politica di amicizia con il mondo arabo;

6) l'elaborazione della concezione della «Europa delle patrie» indipendente dall'URSS e dagli USA;

7) l'appoggio alle lotte per l'indipendenza dei popoli africani e dell'America latina.

Ma c'è qualcosa di più, non adeguatamente recepito dagli storici e dagli osservatori politici. Nel tempo in cui la stella gollista si avviava alla fase del declino, il Generale per antonomasia chiamò il Primo Ministro ovviamente da lui stesso nominato, l'ex-Presidente del Consiglio espresso dal partito radicale, Edgar Faure -come si vede, De Gaulle non si sentiva capo di partito, anche se esisteva un partito gollista- e lo incaricò di predisporre un progetto di legge sociale contemplante la partecipazione dei lavoratori alla gestione e agli utili delle aziende. Faure si mise all'opera e varò un documento che «il più illustre dei francesi» (così lo aveva appellato Renè Coty, Presidente della Repubblica, allorché premuto dalla spinta popolare e dall'insurrezione dei francesi d'Algeria lo aveva incaricato di formare il governo) non ritenne di fare proprio, giudicandolo troppo timido sotto il profilo sociale. Stimolato dal Capo dello Stato, Edgar Faure si rimise al lavoro, ma inutilmente perché un referendum su di una questione diversa, relativa alla organizzazione dei Dipartimenti, venne perso dal Capo della Francia libera che, pur se non obbligatovi dalla Costituzione, volle ritirarsi a vita privata.

Da notare che una corrente di sinistra della Unione della Nuova Repubblica -ossia quel partito gollista fondato dai gollisti ma da cui, se del caso, De Gaulle prescindeva perché lo trascendeva, pur essendo il massimo strumento di potere di cui disponeva per la realizzazione di «una certa idea della Francia»- rappresentata dal Ministro della Giustizia, Renè Capitant, e da Luis Vallon, e raccolta intorno al settimanale "Notre Republique", spinse la sua polemica fino ad accusare il Primo Ministro George Pompidou di aver cospirato con la destra per sabotare il referendum, provocare in tal modo la caduta del gollismo riformatore e scongiurare la svolta sociale in profondità voluta dal Generale. Si trattò di una tempesta polemica, placata la quale la Francia si fece pompidouista inviando all'Eliseo l'uomo cui il fondatore del movimento guerriero emblematizzato dalla Croce di Lorena aveva commesso, a suo tempo e a suo modo, l'incarico di rimettere ordine nelle finanze e nel tesoro francesi. Cosa che egli fece, e da par suo, da quell'eccellente, brillantissimo tecnocrate che era.

 

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Orbene, l'On. Urso sente, o no, di avere alcunché da spartire con questo gollismo, cioè con il vero gollismo? Il cui programma, per la verità, assomiglia molto di più a quello dei suoi nemici italiani della Repubblica Sociale che non alle confuse e cartacee invenzioni degli «antifascisti» di complemento della Fiuggi Iª, protagonisti di quella autentica carnevalata della «redenzione democratica» che una certa Sinistra, ma non solo essa, ha avuto il torto di avallare. Dimentica, mentre parlava di «rivoluzione liberale», della dura ma magistrale critica del Gobetti all'inveterato vizio trasformistico e opportunistico degli italiani.

L'On. Urso, cui la leggiadria del sembiante dovrebbe suggerire più di fare l'attore cinematografico che l'ideologo e lo stratega della politica, pensa forse a Chirac quando fa professione di gollismo. Egli non sa che il Presidente francese è un gollista per modo di dire, essendo cresciuto sotto l'ala protettiva di George Pompidou, che di gollista non aveva altro che un adesione tutta esterna e formale e distaccata da tecnocrate appunto, alla persona e alla personalità del Generale, la cui ideologia gli era non solo estranea, ma -nella migliore delle ipotesi- perfino indifferente.

Il colonnello finiano di cui siamo venuti fin qui discorrendo è dunque vivamente pregato di prendere atto che egli non è affatto un gollista, bensì, al massimo, un pompidouista-chiracchiano. In ogni caso, con la cultura politica italiana egli non ha nulla di comune. Ragion per cui, continuando a definirsi di destra «parziale», rischia di restare ucciso di ridicolo.

E poi, che di tanto in tanto riusciamo addirittura ad essere saggi, eviteremo di venderci la pelle dell'Urso prima di averlo ucciso.

Enrico Landolfi

 

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