da "AURORA" n° 45 (Gennaio 1998)

L'INTERVENTO

Illuminismo mussoliniano

Giovanni Luigi Manco

 

In Mussolini l'idea di progresso è pervasiva, tipicamente democratica, di chiara matrice illuministica. De Felice, nella monumentale biografia mussoliniana, vede anche nel regime l'impronta dei princìpi del 1789 e osserva: «Guardando la pubblicistica fascista, i giornali fascisti, ciò che colpisce è l'ottimismo vitalistico che è la gioia, la giovinezza, la vita, l'entusiasmo». Contro la civiltà basata ancora per Rousseau su «una ragione senza saggezza», su di una repressione dei sani istinti e passioni naturali, talmente grande da implicare l'uomo in un labirinto di nevrosi, infelicità, aggressività, Mussolini vede nei diritti della natura, nelle leggi della vita, la fonte dei valori positivi attraverso i quali operare il cambiamento.

Sulla stessa posizione si attesterà il pensiero psicanalitico più avanzato e gran parte del pensiero filosofico, sociologico, antropologico, più vicino a noi.

Nessun uomo di Stato incarna come lui, con il pensiero ma anche con il carattere, lo stile di vita, la lotta al pregiudizio comunque caratterizzato (moralità ipocrita, religiosità bigotta, conformismo perbenistico), all'ideologismo (moderna veste della teologia) che spinge a uccidere, a distruggere più che a costruire. Da qui le idee dell'illuminismo sull'efficacia dell'educazione, la strategia mussoliniana tesa alla conquista dell'individuo su se stesso, lo spronare ad agire nonostante e contro le difficoltà, l'educare alla vita come lotta per conquistare una posizione rispettabile, il creare in se stessi i presupposti (fisici, morali, intellettuali) per realizzarla. In ciò si rivela un fine psicologo, un instancabile educatore che approfitta di ogni occasione, anche di un discorso di politica interna o di politica estera, per suscitare con delicatezza e virile fermezza sani entusiasmi da tradurre in ansia collettiva di progresso. Mussolini sviluppa insomma una lungimirante, illuministica politica per forgiare un nuovo tipo di italiani, una nuova comunità morale, con propri ideali, propri modelli di comportamento, per mezzo dell'educazione di massa. Enti come i «figli della lupa», i «balilla», la «gioventù del littorio», i «circoli del Dopolavoro», ecc. ecc., assolvevano alla funzione di dare forma, con le nuove generazioni, ad un potere legittimo che non avrebbe avuto bisogno di fare ricorso a coercizioni per affermare la sua autorità.

Secondo Rousseau, quando il popolo è l'unico sovrano e i governanti «non sono i padroni del popolo, ma i suoi ufficiali, che da lui possono essere nominati o destituiti a piacere; non v'è per essi possibilità di contrattare, ma necessità di obbedire», ciascun uomo, non dovendo obbedire che alle proprie scelte, ha interesse a garantire l'ordine e la libertà.

E ancora da Rousseau assume il mito di Roma come «sistema di misura» per un confronto con lo «stato attuale» e vincere la tendenza a scambiare le degradazioni storiche, sotto il livello delle effettive possibilità umane, come insuperabili condizioni naturali. Quando l'antico avalla il nuovo, l'impatto traumatico delle novità rivoluzionarie risulta fortemente ridimensionato. L'espediente di Rousseau, metodologico e psicologico, rovescia alla base le tesi pessimistiche dei reazionari sulla condizione umana priva di speranza.

La riutilizzazione dell'esaltante periodo della storia di Roma, dell'immaginario antico (eroi, miti, fatti storici) fu talmente grande in Francia da portare, talvolta, allo stesso parossismo staraciano, come in occasione della traslazione delle ceneri di Voltaire da Selliers alla Chiesa di Sainte-Geneviève a Parigi, trasformata in Pantheon degli eroi della repubblica. Uomini in tunica sorreggevano la statua di Voltaire, gli strumenti dei musicisti erano stati appositamente costruiti a imitazione di quelli romani, il corteo ricalcava fedelmente la descrizione dei cortei classici.

Il fascio littorio simboleggia il potere solare del popolo unito; il randello di Ercole, le armi del proletariato (in Italia il randello si modernizza nel «santo» manganello). A questo proposito si ricordi la colossale statua, in Place des Invalides, di Ercole (personificazione del popolo) che irretisce, armato di randello, il feudalesimo personificato in una sirena che cerca di levarsi dal fango.

Tanto in Francia quanto in Italia i riti erano di massa, il popolo faceva parte della scena, dell'azione, doveva sentirsi attore, venire incoraggiato a raggiungere un livello di identificazione e di purificazione collettiva, fino all'esaltazione del sacrificio in difesa dei diritti acquisiti.

La severità -e grandezza- dell'architettura e statuaria romana, più energica, forte, espressiva di quella greca, era richiamata quale espressione delle virtù latine, dei valori superiori dell'Urbe, del bene pubblico rispetto agli affetti privati. All'arte si riconosceva la funzione di strappare l'uomo dal grigiore esistenziale e innalzarlo al livello che le personali capacità naturali gli consentivano di raggiungere.

L'architettura in quanto «forma», «simbolo», «funzione», trovava nell'arco di trionfo la sua espressione sublime. Il modello archeologico è chiarissimo: la sua centralità iconografica prefigura quella serie di archi di trionfo che in seguito decoreranno le piazze delle città occidentali. Il più grandioso e avveniristico avrebbe dovuto sorgere a Roma in occasione dell'esposizione universale. L'arco di trionfo è un monumento della Roma imperiale, ma nella Parigi di Robespierre, e più visibilmente nella Roma di Mussolini, è il popolo e non il singolo ad attraversare la fornice da trionfatore.

Giovanni Luigi Manco

 

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