da "AURORA" n° 45 (Gennaio 1998)

LA POLEMICA

Temi e questioni della Sinistra

Tamburraneide

Enrico Landolfi

 

C'è un Tale nella gruppettistica dell'exismo craxiano che si accinge a partecipare alla fondazione della «Cosa 2» in quel di Firenze il quale ritiene di poter porre con tono burbanzoso condizioni alla Quercia, alla vigilia della convocazione, appunto, degli «stati generali della Sinistra».

Ecco, la burbanza concerne solamente il «tono», perché le «condizioni» sono acqua fresca neppure ben servita. Interrogato da Michela Mantovan, una bravissima giornalista del "Corriere della Sera", il Nostro espettora le seguenti parole: «Aprono un cantiere? Bene, i nostri valori, il laicismo, la democrazia interna usiamoli come materiale di costruzione, Quello di D'Alema è un passo avanti, ma mi piacerebbe che dicesse che il PCI ha conquistato grande autonomia dall'URSS e che però con la Russia non ha mai rotto (sic!!!). E Amato, invece di protestare, faccia il leader e ci porti uniti nel cantiere. Poi, se non ci piacerà, potremo andarcene».

Già, perché secondo il prof. Giuseppe Tamburrano un partito come quello con cui si degna di unificarsi insieme ad un gruppo di generali senza soldati -un partito cioè, che superando incredibili travagli è riuscito ad essere il primo della Seconda Repubblica, oltre che la massima componente di un governo di coalizione- altro non sarebbe che una sorta di casa di tolleranza dalla quale si entra e si esce a seconda di come gli gira al cliente. Come provocazione ispirata a malvolere e a mancanza di rispetto verso gli altri e, perché no?, verso se stesso non è mica male.

Peraltro, non è questa la prima delle prodezze tamburriane che consigliano di prendere con le molle un personaggio del genere, malato di avventurismo politico e, come vedremo, anche intellettuale. Si pensi che un paio di anni or sono, quando la pressione della destra era fortissima e il centrosinistra ancora vagava nei sogni belli e nei pii desideri di Prodi, di D'Alema e di Veltroni, costui in una riunione pubblica di socialisti ebbe il barbaro coraggio di dire che alle elezioni aveva imbucato nell'urna scheda bianca perché non c'era la lista socialista. Un comportamento, in concreto, irrilevante; tuttavia biasimevole in quanto frutto di un autonomismo peloso, da riprovare, in evidenza come indicazione di un favoreggiamento delle forze reazionarie arroccate intorno alle televisioni di Berlusconi e alle palinodie di Gianfranco sempre meno Fini e sempre più Fininvest, alle provocazioni e prevaricazioni dei Feltri e dei Ferrara, al clerico-moderatismo dei Casini e dei Buttiglione.

 

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Il Tamburrano è un presenzialista tonitruante e rompiscatole che si da grandi arie di tutore intransigente e moralistico della purezza della tradizione socialista. In realtà, si ubriaca con l'acqua minerale. Migliore e maggiore esempio della fondatezza di questi elementi del suo identikit testé segnalati potremmo trovarlo fuori di essi. Egli reclama l'impegno laicista del Partito Democratico della Sinistra il quale, un giorno sì e l'altro pure dichiara urbi et orbi di nutrire profondo rispetto per i propri aderenti, simpatizzanti, elettori di fede cattolica, ma che mai e poi mai rinuncerebbe opportunisticamente alle istanze di laicità che gli sono proprie, così come proprie sono a tutti i partiti democratici, ivi compresi quelli di ispirazione cristiana. E alla luce di tali elementari considerazioni sorge in noi la suspicione che il Desso abbia inteso fare una provocazione più squisitamente spirituale, avanzando la richiesta non di una laicità sic et simpliciter ma, occhiutamente, di una laicità degenerante in ANTI-clericalismo; quel tipo di laicismo, peraltro, abbandonato illo tempore sia da Rodolfo Morandi che da Pietro Nenni allorché, correva l'anno di grazia 1955, allo storico congresso del PSI celebrato in Torino essi posero il problema dei rapporti del movimento operaio, popolare, socialista con le masse e con gli intellettuali cattolici, con la cultura sociale cattolica, con la stessa Democrazia Cristiana intesa nella sua versione progressista più avanzata. E il centrosinistra -quello vero; quello, cioè, con le riforme sociali e non con le sole riforme istituzionali- risulta storicamente filiato da codesto essenziale evento subalpino, al cui spirito poi il PSI fu infedele a cominciare da Craxi il quale rovesciò le alleanze in senso destrorso alleandosi con i vecchi nemici liberali e con l'ala moderatista della DC in una crociata al calor bianco contro le sinistre cattoliche, ecclesiali e democristiane e, conseguentemente, contro tutta la Sinistra.

Orbene, con questa arrogante richiesta al PDS di laicismo concepito in chiave di oltranzismo ideologico, fittiziamente sinistreggiante, lo storico Giuseppe Tamburrano -che nella sua veste di storico non dovrebbe conoscere il senso, i contenuti, gli indirizzi dialogici di quella remota assise del socialismo celebrata a metà degli Anni Sessanta- porta avanti una operazione provocatoria che offende componenti e ambienti confluenti nella cosiddetta «Cosa 2», verso cui sarebbe opportuno, equo, producente tenere e mantenere comportamenti corretti, rispettosi, di significativa apertura culturale, di positivo impatto psicologico. Facciamo riferimento, anzitutto, ai «Cristiano sociali» raccolti intorno a figure definibili addirittura come storiche quali l'ex-leader della CISL e catto-socialista Pierre Carniti e l'ex-direttore de "Il Popolo" e senatore della sinistra democristiana Paolo Cabras. Da notare che il Carniti, eurodeputato del PSI, era venuto in evidenza sul declinare degli Anni Sessanta nel prestigioso ruolo di massimo protagonista del famoso «autunno caldo» unitamente ai suoi colleghi della CGIL e della UIL. A sua volta il Cabras ebbe a qualificarsi come la punta più estrema e dottrinariamente spregiudicata dello Scudo Crociato. Ma la questione non riguarda il solo «cespuglio» Cristiano Sociale, bensì lo stesso PDS nell'ambito del quale sono presenti dense frazioni cattoliche e anzitutto quella già legata alla persona e al pensiero di Franco Rodano a suo tempo espressasi su pubblicazioni quali "Il Dibattito Politico", "Lo Spettatore Italiano", "La Rivista Trimestrale" e il quotidiano romano "Paese Sera", fiancheggiatore del PCI quando era diretto da Piero Pratesi. Questo gruppo, ulivista e occhettiano, è ora arroccato intorno a Giulia Rodano, la più politicizzata fra i figli di Franco scomparso da oltre un decennio, e dal sen. Falomi, suo marito.

 

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Il Tamburrano attinge le supreme vette del ridicolo allorché chiede a D'Alema e Sodali con attitudine da maestro concertatore direttore d'orchestra, con fare seccamente ultimativo, di adoperare nel «cantiere» un altro dei «valori» che, stando al senso del suo discorso, sarebbero una sorta di proprietà privata sua e di altri chiacchieroni e ostruzionisti che nell'arcipelago del PSI residuale si danno arie da maître a penser e schizzano sciocchezze a dritta e a mancina. Trattasi della vexata quaestio della democrazia interna di partito, che ormai da un bel pezzo non è più una quaestio e, tanto meno, vexata. Ma in che mondo vive il prof. Tamburrano Giuseppe? Si accorge o no che nel PDS la segreteria D'Alema affronta un giorno sì e l'altro pure critiche e linee ideologiche, politiche, strategiche, culturali, organizzative ad essa alternative da almeno 4 correnti organizzate 4: gli «ulivisti» (Occhetto-Petruccioli), i «comunisti democratici» (Tortorella), i «riformisti» filodalemiani (Napolitano), i «riformisti» dissidenti (Macaluso), i «democratici» americanizzanti che si richiamano a Robert Kennedy e a Clinton idealmente collegati non senza una qualche disinvoltura culturale a Enrico Berlinguer? Ha la contezza o no dell'esistenza di pubblicazioni assolutamente libere e ispirate a grande sprezzatura intellettuale e a pulsioni ANTI-conformiste come "Critica Marxista" (della sinistra comunista) e "Prospettive del Socialismo" (dei macalusiani). E questo a tacer d'altre e d'altro.

Ma questo della democrazia interna di un partito è un vecchio chiodo fisso dello spocchioso e supponente Tamburrano, non sappiamo, a vero dire, se davvero sofferto o, piuttosto, inventato ad arte nel vestire i panni prestigiosi del condizionatore intrattabile, severo, irriducibile. Insomma: per darsi importanza. E, magari, per pretendere nel nuovo assetto partitico post-fiorentino una sistemazione adeguata a quello che lui ritiene essere lo spessore del suo ruolo storico e di storico.

È ben troppa la determinazione del Nostro, veramente degna di miglior causa, nello sciupare continuamente splendide occasioni per tacere e far riposare un cervello, il suo, evidentemente affaticato per il troppo non pensare. Vivvaddio, com'è mai possibile pretendere di dettare le tavole della legge democratica a chicchessia quando si è stati, in qualità di membri della Direzione del Partito, nel PSI di Craxi per ben 14 anni 14 senza pronunciare mai una parola di critica all'indirizzo di Padron Bettino, abolitore del Comitato Centrale sostituito da quella taciturna «Assemblea Socialista» sacrosantemente bollata dall'ex-ministro delle Finanze Rino Formica come «consesso di nani e ballerine»? E come ci si permette di dubitare della buona fede democratica altrui quando, come nel caso del prof. Tamburrano, si è guadagnata la tribuna congressuale solo per osannare al genio e alla grandezza del proprietario del PSI fingendo di non accorgersi che non di congressi si trattava, bensì solo di parate vomitevolmente adulatorie, encomiastiche, di un cesarismo d'accatto, di pure, anzi impure, operazioni d'immagine?

 

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In un articolo a suo tempo apparso su un periodico interno del PSI il Nostro osò affermare che il compito storico di Pietro Nenni era stato quello di aprire la strada a Bettino Craxi verso il potere onde fargli fare questa o quella bellissima cosa. Un'opinione, questa, come tante altre del tutto legittima, dunque. Si da tuttavia il caso che il prof. Giuseppe Tamburrano sia anche il presidente della Fondazione Nenni. Ed è possibile resistere alla tentazione di ritenere quanto meno singolare che un intellettuale investito di tale carica non abbia nulla di meglio da fare che pubblicamente indicare un presunto ruolo sussidiario di Nenni relativamente alle magnifiche sorti e progressive del Fondatore di tangentopoli? Noi non resistiamo e, pertanto, reputiamo, cosa che del resto facciamo da sempre, l'esimio prof. Peppino Tamburrano un autentico avventurista del conformismo italicamente e sempiternamente imperante.

Occorre, però, dire che non sempre il Number One del Garofano fu grato al suo turiferario dal grosso quoziente intellettuale del culto della personalità a lui tributata a voce e a penna. Una volta, infatti, il Professore si beccò un cazziatone emerito dal Bettino -e mai cazziatone fu più meritato- per aver scandalisticamente dichiarato durante una intervista che si vantava «di non aver mai pronunciato la parola Tricolore». Egli era allora distante trilioni di anni luce dall'immaginare che con quella folle affermazione finiva per entrare se non nella storia quanto meno nella cronaca del Paese come precussore di Umberto Bossi, di recente incrementatore della sua fama di demagogo da strapazzo e di conducator di princisbecco per aver apostrofato in piazza una signora patriota che pacificamente si batteva contro i secessionisti esponendo al balcone la bandiera nazionale con queste parole: «Lei quel Tricolore lo butti nel cesso».

Il Tamburrano, la cui dimensione di faccia tosta è inversamente proporzionale alla quantità di buon senso albergate nel suo prezioso Ego, non si peritò di telefonare al direttore della pubblicazione che ne aveva ospitato i memorabili detti per negare, protestando, di avere fatto affermazioni lesive dell'italianità. Gli andò male, perché a conclusione della concitata comunicazione, si vide costretto ad ammettere che quei dissennati vocaboli non erano stati filiati dalla malevolezza di un intervistatore antipatizzante. Del resto in quelle parole c'era tutto Tamburrano, con tutto un suo internazionalismo naif, astrattamente oltre che scorrettamente fondato su una presunta inevitabile contrapposizione fra ciò che è nazionale e ciò che è riferibile alla solidarietà internazionale delle classi lavoratrici sfruttate, oppresse, emarginate.

 

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Nel rileggere la incredibile e fortunosamente breve dichiarazione rilasciata dal presidente della Fondazione Nenni a Michela Mantovan, ci punge vaghezza di sapere cosa ne pensa Giuliano Amato, invocato dal Tamburrano come leader ma solo per intimargli di smettere di protestare contro reali o presunte mancanze di rispetto da parte di D'Alema & Compagni contro lo stesso Amato e i vari socialisti e socialismi della diaspora per impegnarsi a tuttuomo nell'opera di traghettamento sulla sponda pidiessina dove c'è il «cantiere» di tutti costoro, fatta salva, come visto, la possibilità di mandare a ramengo la coabitazione nel caso in cui il Signor Tamburrano dopo congrua esperienza non la ritenesse di suo gradimento.

Orbene, a dispetto del tono imperativo usato dal dichiarante qui egli da prova di un preoccupante infantilismo. La chioma di Tamburrano è di uno scintillante candore, la qual cosa sta a significare, come minimo, che egli è maggiorenne. E allora che bisogno ha di disturbare il riluttante ex-Presidente del Consiglio dei Ministri intimandogli-pregandolo di accompagnarlo per mano e con la merenda nel cestino alle Botteghe Oscure e obbligandolo a stare lì con lui a fare le prove di agibilità? Vada con chi ha voglia di andarci e speriamo che siano tanti. E magari, perché no?, con chi redige queste note che ne è fortemente tentato. Ma ci vada con spirito positivo, e costruttivo e non mettendo fin da ora in conto che la zuppa possa con ogni probabilità non essere di suo gradimento e che in quel che passa il convento possa non esserci l'antipasto e il dessert. Gli spiriti veramente forti e pionieristici non abbandonano la partita all'insorgere delle prime difficoltà e all'arrivo delle prime delusioni, ma tengono impavidamente e validamente il campo anche nei tempi supplementari e magari pure nel girone di ritorno. E, insomma, fino a quando le cose non si decidono ad andare per il verso nel quale debbono andare.

Certo, laicità e democrazia nel partito sono elementi di fondo del collettivo agire politico. Riteniamo che, salvo inevitabili sbavature, essi sono già nel patrimonio culturale del partito andato a Firenze onde, manzonianamente, «sciacquare i suoi panni in Arno». Dunque, i socialisti che opereranno nella «Cosa 2» non tanto di essi dovranno curarsi e preoccuparsi, quanto di evitare il «si scrive socialista si legge liberale».

Perché è questa la tentazione che affiora, e non da oggi, anche in non insignificanti circoli e ambienti della Quercia.

Enrico Landolfi

 

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