da "AURORA" n° 46 (Febbraio 1998)

APPROFONDIMENTO

Crisi di governo e governo della crisi

Francesco Moricca


«Captans anonam maledictus in plebe sit»
S. Ambrogio da Milano

«... Vive delle angustie e degli infortuni altrui ...»
Ezra Pound (1937)


 

Bertinotti e Mussolini

Sembra che il bipolarismo di marca anglosassone stenti ad attecchire sul suolo italico. Come il governo di centrodestra, anche quello di centrosinistra ha avuto il suo Bossi, sebbene ancora non con esiti altrettanto esiziali, e fatte le dovute distinzioni fra Bertinotti e Bossi.

Non si può negare che l'On. Bertinotti sia ormai il solo, a un certo livello, che sia intransigente nella difesa dello Stato sociale, almeno in linea di principio. Egli ci sembra, come uomo di sinistra, assai più coerente e intellettualmente apprezzabile dello stesso D'Alema, e potrebbe anche darsi che sia andato oltre D'Alema nella «revisione» del marxismo, lasciandolo indietro di parecchie misure.

Si può infatti categoricamente escludere che Bertinotti stia in qualche modo ripercorrendo, nella sua «rifondazione» del comunismo rivoluzionario, e per differenti percorsi storici, una via già battuta da Mussolini non solo nella sua gioventù?

Si pensi ciò che si vuole di questa «insinuazione». Di contro possiamo affermare che, si voglia o non si voglia, certe situazioni storiche ritornano nella sostanza quasi identiche quando a rimettere in moto la dialettica della storia non rimane più che la volontà dell'uomo. Ma ciò è vero per chi non abbia una concezione troppo deterministica della «dialettica storica», ovvero non la accetti anche contro l'evidenza di una certa realtà.

L'On. Bertinotti non può infatti ignorare di esser giunto a un bivio: quello delle due tendenze che si ripropongono lungo la storia del marxismo quando il processo rivoluzionario è in fase di riflusso: le due tendenze del massimalismo e del riformismo. Da come egli sceglierà, noi crediamo, dipenderanno molte cose, non solo nella storia del marxismo e non solo nella storia d'Italia. Vediamo di riassumere la posizione di Bertinotti nella recente crisi di governo. Per comodità, distinguiamo solo di sfuggita la parte che in questa posizione appartiene all'On. Cossutta.

Bertinotti ha detto con chiarezza che non si può più sostenere un governo la cui politica «di rigore» non avrebbe potuto praticare nemmeno il governo Berlusconi. Il centrosinistra non può fare impunemente una politica antipopolare senza che, anche in tempi molto brevi, non ne tragga vantaggio lo stesso Berlusconi o chi per lui. Quanto alla pregiudiziale delle «35 ore» -ci sembra- Bertinotti ne fa una questione politica (il suo rifarsi continuamente a Jospin è indicativo), ben conscio degli effetti dubbi se non sicuramente deleteri della riduzione dell'orario di lavoro a parità di salario. Cossutta avrebbe voluto meglio definire il peso politico di Rifondazione con una formale partecipazione al governo: una proposta anche coraggiosa, ma che avrebbe tolto spazio di manovra al suo partito e che pertanto, secondo noi giustamente, è stata accantonata.

Come è noto, la crisi di governo è rientrata, secondo modalità che a qualcuno sono parse «italiane». Lo ha fatto notare, per esempio, il premier inglese, mostrando che l'odio britannico per l'Italia, risalente alla Seconda Guerra Mondiale, è trasversale ed accomuna sia la destra che la sinistra albionica, ed è destinato, a quanto sembra, a divenire «atavico».

Ma i «poteri forti» sono di diverso avviso riguardo alla realtà della trascorsa crisi di governo. Wall Street manifesta «preoccupazione» e le fa eco il prestigioso quotidiano francofortese. Si ventila, rispolverato, il «pericolo comunista» in Italia. Ma è ad un altro «pericolo» che si allude, visto che la temibilità dei comunisti italiani, caduto il Muro di Berlino, esiste solo nelle strumentali farneticazioni del cavaliere azzurro, che la Cina è pericolosa per ora sui mercati (non considerando il pericolo di una futura possibile alleanza col Giappone che mai potrà realizzarsi sulla base di un socialismo di tipo marxista), che, infine, Fidel Castro (amico di Bertinotti), è un pericolo come autorità morale di ciò che rimane del comunismo rivoluzionario. Castro tuttavia potrebbe diventare molto pericoloso, se l'avvicinamento appena iniziato all'autorità morale del cattolicesimo romano, auspice Bertinotti, dovesse prendere consistenza e sviluppi del tutto imprevedibili.

Accade ancora che, durante la visita del Presidente Scalfaro in Libano (di colui che tanta parte ha avuto nella liquidazione di Berlusconi e più o meno indirettamente nelle fortune bertinottiane), delle bombe cadano «per caso» a poca distanza dall'albergo dove il Presidente italiano è ospitato, proprio dopo che questi ha criticato la perdurante occupazione del Paese arabo da parte di Tel Aviv. Se fosse un «avvertimento», il quadro che stiamo delineando dei motivi della recente crisi di governo potrebbe acquistarne in verosimiglianza. Se poi dovesse corrispondere alla realtà oggettiva, le cause della trascorsa crisi di governo dipenderebbero assai poco dalla «ingovernabilità» dell'Italia e dalla sua «immaturità congenita» per il «moderno» bipolarismo puntualmente rinfacciateci dagli statunitensi e più ancora dai loro tirapiedi britannici. Avrebbero poi un significato non necessariamente soltanto negativo le «manovre» in atto per ricompattare il «vecchio» Centro attorno al sen. Cossiga: potrebbero essere un utile diversivo per occultare la strategia di fondo della politica italiana (che noi, malgrado tutto, crediamo esista - e deve pur esistere, se l'Italia ed alcuni protagonisti della sua scena politica, suscitano le vive preoccupazioni dei «poteri forti»).

 

Italiani allo specchio

Molto semplicemente: è difficile guardarsi allo specchio; ancora più difficile quando non ci si piace affatto; difficilissimo quando si è nati poco dopo il 1945.

Ci si guarda allo specchio nel tentativo di capire e di capirsi in un contesto che ci appartiene molto problematicamente, in cui la medesima «italianità», senza che lo si voglia e anzi volendo il contrario, è in discussione e -potremmo dire- si nega da sola. Ascoltando i principali esponenti politici, i naturali oltre che istituzionali depositari della «italianità», capita di restare sconcertati, anche quando, come nel caso di Bertinotti, se ne condividono in buona misura i discorsi. Ci preoccupa, ad esempio, che nessun deputato o senatore abbia quanto meno compreso l'opportunità di proporre seriamente che i politici, di qualsiasi livello, si diano uno stile di maggiore austerità e parsimonia, in maniera da offrire il buon esempio a quei «governati» a cui si richiedono i più grandi sacrifici. Una richiesta di farsi latore della proposta di autoriduzione dello stipendio dei parlamentari, è stata rivolta all'On. Bertinotti, nel corso di una recente trasmissione televisiva, da un imprenditore a sua detta costretto a chiudere la propria attività per gravi difficoltà economiche, il quale precisava che nulla aveva chiesto e intendeva in futuro chiedere allo Stato in termini di sovvenzioni. Ebbene, Bertinotti, che ha la buona abitudine di non eludere le domande, questa volta ha opposto un silenzio raggelante.

Ancora, si dice che alla bouvette del Parlamento il costo di un caffè sia passato da 500 a 900 lire, e che «per protesta» i deputati preferiscano consumare il loro caffè fuori da Montecitorio, al costo corrente di 1200 lire (!!!).

Tali episodi attestano, oltre che una certa atavica grettezza da parvenus di molti nostri deputati-peones, una condizione mentale e una qualità umana che, per carità di patria, ci asteniamo dal definire. Ma la «protesta del caffè» potrebbe anche essere il puntiglio di chi, ad onta dei conclamati e abusati «princìpi democratici» (a cui perfette nullità devono tutte le loro «meritate fortune»), non tollera di rinunciare nemmeno a un'inezia di quelli che sono i «privilegi dovuti a chi comanda».

Le ragioni di simili comportamenti vanno ricercate nel carattere piccolo borghese che, a partire dagli Anni Sessanta, è venuto sempre più distinguendo la società italiana, senza più alcuna specificità di classe. Non è da stupirsi se questo processo involutivo di omologazione sociale e culturale si riflettesse sui ceti dirigenti e in specie su quello politico. La diffusa mentalità piccolo borghese si è espressa in una mania esterofila in cui i miti dell'America e della Russia si confondono e si supportano reciprocamente. Il federalismo-secessionismo leghista è l'ultimo rampollo della mala pianta piccolo borghese, e al mito dell'America e della Russia, cui rimangono «pervicacemente attaccati» i «terroni del Sud», viene sostituito, nel migliore dei casi, il mito mitteleuropeo.

Si è forzati quindi a concludere che il superamento della crisi politica italiana non è ragionevolmente ipotizzabile se non attraverso una energica opera di contrasto della mentalità piccolo-borghese.

Questo certamente non è in grado di realizzare la cosiddetta destra del Polo, anzi non lo vuole essendo essa proprio la massima espressione della poltiglia piccolo borghese, con la sua difesa oltranzista di interessi di bottega, con la sua cieca acquiescenza ai «potenti», con le sue tartuferie controriformistiche, col suo umanitarismo untuoso, con la sua religiosità da sacrestia. Vizi che peraltro non devono ritenersi assenti nello schieramento opposto dell'Ulivo, dove essi pure allignano non poco, ma accompagnati da una «accortezza» e da un «senso del limite» indotti dalla gestione del potere che sul momento, e nell'attuale temperie politica internazionale, ne limitano la perniciosità.

Il tepore delle proposte che fra poco avanzeremo, e queste stesse proposte devono essere valutate in stretta relazione con la situazione contingente e con la provvisorietà che noi personalmente attribuiamo ed auspichiamo della «soluzione ulivista»; che non riteniamo affatto ottimale solo perché l'unica praticabile a tutt'oggi: e secondo valutazioni etiche irrinunciabili.

Atteso che in nulla noi attenuiamo la nostra critica alla «democrazia» dei borghesi (e non solo a quella truffaldina dei piccoli borghesi), comprendiamo bene che le acquisizioni «positive» della liberaldemocrazia -lo «Stato di diritto» nelle sue più astratte connotazioni giuridiche- confliggono con la legge interna dello sviluppo capitalistico, e in misura tanto maggiore e distruttiva, quando il capitalismo attraversa una crisi profonda come quella attuale.

Pertanto, la difesa della «democrazia» e della più rigorosa legalità «democratica» dovrebbe in teoria favorire l'esplosione delle contraddizioni esistenti fra la «struttura» capitalistica e la sua «sovrastruttura» giuridica, dovrebbe, in definitiva, spingere il capitalismo verso la sua crisi finale ed irreversibile.

Proponiamo quindi un nuovo legionarismo rigidamente quanto sinceramente rispettoso dello «Stato di diritto», un legionarismo non violento teso a smascherare la violenza insita nel diritto borghese, tanto maggiore e «sottile» quando esso si presenta come fautore dei più elevati valori «umanitari», della kantiana «pace perpetua» e della «repubblica universale». Questa violenza costituzionalmente propria del diritto borghese si manifesta oggi mediante un uso parossistico del formalismo della «legalità», che sarebbe ciò che garantisce la libertà dell'«individuo»‚ che si spaccia come un «valore sociale», anzi come il fondamento primo della socialità. Si ha quindi un uso diciamo pure terroristico della legalità borghese laddove ciò corrisponde agli interessi del sistema capitalistico. La Guerra del Golfo diventa una «operazione di polizia internazionale»; in Italia ci si serve di «Mani Pulite» per sbarazzarsi di una classe politica sicuramente disonesta, ma che soprattutto ha la colpa di non essere più funzionale, dopo la fine del comunismo, alla strategia globale del capitalismo. In definitiva il nuovo legionarismo, pretendendo il rispetto assoluto del diritto borghese e denunciandone l'uso sempre strumentale da parte della borghesia, dovrebbe oggi saper ritorcere contro il capitalismo «trionfante» la violenza, mai prima da esso sperimentata, del «terrorismo legalistico». Ma a tal fine è indispensabile una partecipazione sempre più larga, matura, consapevole del popolo-nazione. Il nuovo legionarismo deve pertanto impegnarsi in un'azione energica di contrasto di tutto quanto nel popolo si esprime della mentalità piccolo borghese, e per cui il popolo è stato ridotto alla stregua di «gregge» e «informe massa» oggi più che in passato, grazie a un sistema sempre più sofisticato di condizionamenti, adoperato con grande maestria -è da dire a onor del vero- non soltanto da Berlusconi, da questo campione dell'arrivismo «vincente» dell'italico piccolo borghese, che ha imparato dalla mamma (come non si stanca di ripeterci) «come si ha da vivere» e in specie che «bisogna sempre diffidare del comunismo».

 

L'Ulivo e la «classe media» piccolo borghese

In tema di risveglio della coscienza politica del popolo-nazione (cioè di una non folclorica identità nazionale), può essere utile analizzare gli effetti che Mani Pulite e la pressione fiscale esercitata dal governo Prodi hanno avuto sulla «classe media», quella che secondo noi più delle altre, con effetti nefasti per la vita nazionale nell'ultimo ventennio, è caratterizzata dalla mentalità piccolo borghese.

Occorrono preliminarmente due precisazioni.

1) Il crollo del Muro di Berlino e quanto ne è seguito hanno impresso una brusca accelerazione al fenomeno preesistente della proletarizzazione progressiva della «classe media» mutandone profondamente il significato. Prima, questa proletarizzazione era stata causata dall'ampliamento della «classe media» sulla base di un più o meno fittizio aumento della ricchezza del Paese. Dopo, è stata causata dalla «necessità» di riforma dello Stato sociale.

2) La mentalità piccolo borghese deve in generale ritenersi originata dall'adattamento traumatico della mentalità contadina ai mutamenti sociali provocati dall'industrializzazione selvaggia, ed è tanto più viva in un popolo quanto più è recente l'industrializzazione (questo sia detto per non sopravvalutare gli aspetti anche positivi della protesta degli allevatori padani).

Per quante siano le virtù dei contadini, tuttavia, non valgono a bilanciare il difetto proprio della gente di campagna, consistente in un gretto individualismo materialistico che può essere tenuto a freno e anche trasformato nel sentimento opposto, solo grazie alla religione e fintanto che la religione non mostra più o meno accentuati processi di decadenza (in un certo senso è vero ciò che afferma Marx: che il vero socialismo non appartiene al mondo contadino).

Poiché la «classe media» italiana è sostanzialmente di origine contadina e i tempi dell'industrializzazione del nostro Paese sono stati relativamente molto brevi, già questo basta a spiegare ciò che stiamo denunciando, vizi e difetti per sanare i quali occorrono metodi energici, non certo le politiche «democratiche» che, quando decidono di diventare «energiche», lo fanno per «necessità» esterne e comunque esteriori, non certo mosse da quello che dovrebbe essere il «bene del popolo».

Ciò premesso, affermiamo che la nozione di «classe media» va ridefinita secondo criteri scientifici e non di «opportunità politica». Bisogna escluderne i commercianti, gli artigiani, gli impiegati di basso livello, restringendola ai professionisti e burocrati forniti di istruzione universitaria, secondo un criterio che privilegia determinate competenze e funzioni essenziali nella vita dello Stato moderno, invece che la pura e semplice valutazione del reddito in funzione del cosiddetto «benessere». Secondo questa concezione, non il benessere materiale dovrebbe contraddistinguere la «classe media», ma la competenza professionale e il prestigio morale. Gli stipendi dovrebbero essere sufficienti a garantire il decoro della funzione e l'eccessiva ricchezza dovrebbe essere considerata incompatibile con il decoro. Si può ritenere «irrealistica» una simile concezione della «classe media», ma non si può negare che la concezione opposta, sostenuta in passato dalla DC, dal PCI e dallo stesso MSI, tutti d'accordo per una concezione allargata della «classe media», ha portato al disastro attuale.

Gli errori delle più rappresentative forze politiche della «Prima Repubblica» sembrano essere in via di «correzione» grazie alla linea di austerità imposta al Paese dal governo Prodi, linea che però non nasce da un'autonoma scelta ma da una serie di condizionamenti esterni tutti riconducibili alla caduta del Muro di Berlino e al prorompente affermarsi del neo-liberismo. La «classe media» è stata penalizzata con «restrizioni» di ogni sorta a quelle che parevano posizioni di privilegio definitivamente acquisite, restrizioni fra le quali l'inasprimento del carico fiscale non è, a conti fatti, la più grave. È ovvio che non abbiamo nulla, da eccepire verso tale politica «punitiva», che riteniamo giusta, in sé stessa, sotto vari aspetti. Molto da eccepire abbiamo invece circa le sue intenzioni, che non ci sembrano rispondere all'esigenza di rinnovamento morale della società né, tanto meno, a una rigenerazione della «classe media» secondo le indicazioni di un Max Weber o di un Vilfredo Pareto, senza fuorvianti circonlocuzioni: secondo noi la «classe media» va anzitutto parecchio ridimensionata in ordine a quegli «agi» che la hanno resa fiacca, sensibile al solo pseudo-valore di una imprecisata «qualità della vita»; in secondo luogo, va rieducata, e non proprio secondo le indicazioni dei ministeri culturali ulivisti, i quali, dietro la facciata di «sinistra», operano scelte ben più destrorse di quelle fatte dai ministri democristiani della «Prima Repubblica».

La condizione di spirito in cui versa attualmente la «classe media» italiana è di pressoché totale mortificazione (a causa della pressione fiscale e del «terrorismo legalistico») e di completo inebetimento (da stress per superlavoro, e da nevrosi di vario tipo dovute alle trasformazioni «culturali» dell'età post-industriale da poco iniziata). Questo è particolarmente evidente nel mondo della Scuola, nella bovina acquiescenza con cui i docenti, che dovrebbero essere la coscienza alta della «classe media», hanno accolto la cosiddetta «Riforma», attuata se non progettata dall'«ex-comunista» Berlinguer nell'intento manifesto di distruggere l'istituzione più importante dello Stato sociale, allo scopo di fare della Scuola un luogo di addestramento di futuri schiavi della tecnocrazia capitalistica, e di forgiare le menti degli allievi alla stregua di mere appendici del computer. Anzi, nessuno più del docente tipo italiano incarna la mentalità gretta del piccolo borghese. Egli si da un gran daffare per ricavare dalla «autonomia gestionale» qualcosa di meno del «piatto di lenticchie» di biblica memoria, quando, più prosaicamente, non mediti di andare in pensione, concependo la lotta sindacale al solo scopo di abbassare il più possibile il limite minimo dell'età pensionabile.

È da sottolineare che, anche su questo punto, la sola forza politica che abbia idee prossime alle nostre sia Rifondazione comunista che, difendendo le primarie funzioni formative della scuola e il suo carattere non privato, mostra in concreto di possedere una concezione della «classe media» che non è ancora del tutto borghese e sicuramente non è piccolo borghese.

Resta da vedere quale potrebbe essere la fisionomia, che la «classe media» italiana verrà ad assumere in futuro, per effetto della duplice azione «correttiva» su essa esercitata dai partiti dell'Ulivo e da Rifondazione comunista, tenendo nel dovuto conto, per quanto attiene a quest'ultima, che la sua reale autonomia, a meno che essa non operi scelte coraggiose di ordine strategico che non sono incompatibili con la linea attualmente seguita, sarà strettamente condizionata, oltre che dalla sua volontà rivoluzionaria, dalla necessità di non favorire la destra economica che oggi si identifica nel partito di Berlusconi, nel partito dei beoti piccoli borghesi per eccellenza.

Ove Rifondazione comunista riuscisse ad essere autonoma rispetto all'Ulivo ovvero a future coalizioni analoghe, il volto della «classe media» ne guadagnerebbe senza dubbio, epperò in un ottica radical-borghese, giammai radical-proletaria, a meno che -e ciò è sul momento inverosimile- non sorgesse una potenza mondiale analoga a quel che fu l'Unione Sovietica. In caso contrario, l'azione di Rifondazione comunista diventerebbe, accentuatamente ed esclusivamente, quel che adesso è solo in parte: cioè perfettamente omologa all'azione del PDS, che è quanto dire perfettamente funzionale al sistema capitalistico usurocratico: (e qui bisogna dire che il regime usurocratico è il destino finale dello stesso «capitalismo ecumenico», che dall'«anarco capitalismo» si distingue per i mezzi più raffinati di un certo «umanismo», ma non per i fini, che sono e sempre saranno «disumani», caratterizzati dal soggiacere dell'umanità (anche di quella del capitalista) alla schiavitù del capitale, dal sacrificio dell'essere all'avere e all'apparire. In questo caso, il destino della «classe media» sarà certamente la proletarizzazione, ma senza «coscienza di classe», perché l'indirizzo attuale della «cultura» capitalistica, col suo tecnicismo e settorialismo paranoico, tende a distruggere alle radici ogni potenzialità della «cultura», non solo la «dialettica del pensiero» ma il pensiero in quanto tale, quella «coscienza di ciò che sta oltre l'orizzonte» che Marx riconosceva nell'uomo «primitivo», nello sciamano e in ogni membro del clan e della tribù.

Ecco perché sosteniamo che Bertinotti deve (e quasi certamente sa che lo deve) portare alle estreme conseguenze la sua «rifondazione» del comunismo. Se vuole salvare l'istanza rivoluzionaria di fondo del comunismo marxista -nella quale noi vogliamo credere facendo violenza alle nostre convinzioni maturate in un'esperienza non breve- deve operare una «rivoluzione culturale del tipo di quella a suo tempo condotta dal socialista Mussolini. Uno scenario non del tutto virtuale.

Questo dovere, indipendentemente da valutazioni etiche che per un marxista ortodosso non hanno valore alcuno e Bertinotti sostiene di essere comunque un marxista ortodosso, riguarda l'impegno forte a sostenere esperimenti di economia socializzata da affiancare, almeno, alle proposte di riduzione dell'orario di lavoro a parità di retribuzione, proposte, queste ultime, che hanno validità sul piano della tattica ma che strategicamente valgono ancor meno di un palliativo. Si tratterebbe, soltanto, di chiedere l'applicazione di un articolo della Carta costituzionale che non è certo un documento stilato tutto da marxisti di provata fede, che è in definitiva espressione della più avanzata e criticamente consapevole «borghesia illuminata», che, in quanto tale, non dovrebbe esser disatteso proprio nel momento in cui il «trionfo della borghesia» ad essa specialmente attribuisce intera la responsabilità storica di gestire le trasformazioni epocali in atto. Si tratterebbe, in una parola, di pretendere il rispetto della massima espressione della legalità, nell'ottica da noi indicata, inattaccabile da accuse di «idealismo» e anzi costruita quasi ricalcando le indicazioni marxiste e leniniste in ordine all'uso rivoluzionario del «diritto borghese».

Il nostro partito, qualora Rifondazione comunista decidesse di seguire questa linea politica, avrebbe occasione di venire ad una resa dei conti definitiva, non meramente teorica e soprattutto effettuata alla luce del sole e alla prova dei fatti, circa l'alterità della nostra politica economica rispetto a quelle del liberalismo e del marxismo. Essa consiste nel mettere al primo posto il lavoro e la fatica del lavoro (da intendersi non solo ma anche come fatica fisica), piuttosto che la loro «estinzione» in un orizzonte di «democratizzazione del capitale finanziario», oppure di «edonismo di massa» consentito da un sempre maggiore sviluppo tecnologico sciolto da qualsiasi controllo e limitazione: ciò che appunto riguarda la filosofia di fondo sottesa dalle proposte bertinottiane sulla riduzione dell'orario di lavoro, proposte che noi non mettiamo in discussione solo dal punto di vista della «economia borghese» (che di fatto è la «scienza economica» tout court), ma anche dal punto di vista di una concezione del mondo alternativa e antagonista: l'edonismo di massa, a prescindere da ogni condanna etica, è negativo perché nasce dalla noia e conduce immancabilmente alla nausea, condizioni della psiche che uccidono non solo la «spiritualità» ma anche quella «creatività» senza la quale tutte le attività umane, anche quelle economiche, languono e alla fine muoiono.

Infine, ci permettiamo una provocazione: sarà disponibile l'On. Bertinotti a discutere su quella che Ezra Pound definì «economia ortologica»: un orientamento della scienza economica i cui sostenitori «fascisti» portarono avanti tanto seriamente da proporre (nel 1942, e la data è oltremodo significativa e non in senso demagogico) la sostituzione della carta moneta con una «moneta-lavoro»?

Certo, quanto stiamo dicendo suonerà come irrealizzabile e «antistorico». I tempi sono mutati (in peggio, rispetto al '42 anche per i nemici, tutti i nemici di allora); è caduto il Muro di Berlino, ogni antagonismo è diventato impraticabile, a meno che non si voglia rispolverare un terzomondismo che potrebbe funzionare da ulteriore elemento disgregatore (è il principale dei rischi del terzomondismo bertinottiano), un terzomondismo che agisca a un di presso come agirono le invasioni «barbariche» nel determinare il collasso dell'Impero romano e della civiltà antica (che però ebbe il colpo mortale dalla nuova religione del cristianesimo). Come allora i «barbari» furono in principio «accolti» perché i Romani si rifiutavano ai «lavori umili», oggi gli extracomunitari sono «accolti» per un fenomeno simile, cui si aggiunge l'intento dei padroni «moderni» di abbassare al minimo il costo della mano d'opera. Ieri come oggi, si è in presenza di una grave e prolungata crisi economica a cui si accompagna, nel mondo «evoluto», una crescente denatalità e fatti assai gravi di degradazione morale e di disgregazione sociale, mentre le dimensioni planetarie dell'economia (rese possibili grazie alla informatizzazione selvaggia) lasciano dubitare fortemente sugli esiti positivi di una mescolanza di culture diverse come quella da cui trasse origine la civiltà medioevale.

A fronte di queste molto serie difficoltà, come già accaduto quando venne meno l'Impero romano d'Occidente, è inevitabile che ci si rifugi nei «valori consolidati della tradizione», in un'attitudine dello spirito di smarrimento e perciò inevitabilmente conservatrice, in netta antitesi con i valori della Vera Tradizione, che non ammettono cedimenti di sorta, e meno che meno fughe dalla realtà e dalla impassibile lucidità con cui occorre guardare in faccia l'orrore senza restare inorriditi; impassibile lucidità che apparteneva all'uomo antico, all'uomo veramente libero perché quasi del tutto indifferente agli «accidenti naturali-storici», geloso della sua facoltà di resistere e contrattaccare sempre «finché la vita corporea non si consumi del tutto».

Il meglio dei «valori consolidati della tradizione» è oggi rappresentato dagli «ecumenismi» del cristianesimo, del marxismo, di tutta quanta la cultura occidentale che si riconosce europea, che rifugge da sincretismi orientaleggianti e specialmente prende le debite distanze da quella spuria anglosassone, che sia chiaro è per noi quella dominante e dunque imposta in Inghilterra e negli Stati Uniti.

Al riguardo, non possiamo tacere che, in occasione dell'esplodere del problema kurdo -dell'emigrazione kurda- si sono evidenziate notevoli difficoltà degli Stati europei a concertare una linea comune: difficoltà che da una parte dipendono dalla perdurante sudditanza, europea nei confronti degli USA, che impedisce agli Europei di risolvere il problema dell'emigrazione in una ottica funzionale non solo ai propri interessi politici ed economici; dall'altra dal fatto che l'identità europea, la comune tradizione culturale europea, è ancora sentita in termini prevalentemente conservatori, non veramente tradizionali e pertanto autenticamente rivoluzionari. Prevale ancora, nella forma più deleteria perché ormai anacronistica, il cosiddetto «egoismo delle nazioni» di ottocentesca memoria, per di più vissuto con un senso di frustrazione più fuorviante della stessa romantica «nostalgia».

Ma siccome le attuali potenzialità rivoluzionarie vanno ricercate proprio nella destrutturazione geopolitica seguita alla fine del comunismo e determinante la gigantesca ondata migratoria in atto, occorre elaborare un nuovo terzomondismo che consenta all'Europa una sempre maggiore autonomia dagli USA, che superi gli orizzonti inautentici della «doverosa accoglienza del diverso», che si estrinsechi in una direzione e secondo uno spirito irriducibili agli interessi della colonizzazione mondialista, che non solo «conservi» le diversità culturali per le divagazioni turistiche, ma le rispetti come realtà politiche veramente indipendenti e di pari dignità, con cui si hanno rapporti basati sulla reciproca utilità, senza mai far valere un senso di «superiorità» che trae origine più dal male della «civilizzazione» che non dalla Civiltà, la quale, come giustamente affermò qualcuno, si impone per sua forza interna, senza violenza, soprattutto senza la peggiore delle violenze, che è quella esercitata dalla frode.

Un'azione nel senso qui auspicato potrebbe svolgerla solo il cattolicesimo romano, a conti fatti. Per esso si presenta, con l'Europa e per l'Europa, una grande e probabilmente irrepetibile occasione di risollevarsi dalla propria decadenza come religione, come autorità non solo «morale» ma anche spirituale, che gli conferirebbe un potere infinitamente superiore a qualsiasi altro potere «secolare» (al riguardo il viaggio del Pontefice a Cuba potrebbe essere gravido di conseguenze positive e Bertinotti potrebbe giovarsene non poco).

Staremo a vedere. Vi sono motivi per «sperare». Ma è evidente che bisogna avere la forza per sperare. Bisogna prima aver attraversato la disperazione.

Francesco Moricca

 

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