da "AURORA" n° 46 (Febbraio 1998)

EDITORIALE

Limiti e prospettive dell'antagonismo

Luigi Costa

Risulta difficoltoso, nonostante l'estrema chiarezza delle nostre tesi, farsi comprendere da quanti, amici e avversari, da destra e da sinistra, continuano a muovere appunti, a sottilizzare su quanto, in queste pagine andiamo di volta in volta esponendo. Riconosciamo volentieri che, anche se raramente, tra gli scritti comparsi in "Aurora" vi sono tesi che esulano o sono in parziale contrasto con la «linea» editoriale del giornale. Ciò può essere variamente valutato, a seconda delle sensibilità culturali e politiche, come ricchezza o come limite; la libertà d'opinione è sacrosanta. Meno corretto, ci pare, il giochino in cui alcuni si sono specializzati: estrapolare da un discorso, complesso e definito, singole frasi funzionali a una critica quasi sempre artificiosa e distruttiva.

Riteniamo congrua questa premessa nel momento in cui ci accingiamo ad esporre, in occasione dell'incontro romano del 7/8 marzo, quelle che sono da anni ipotesi di lavoro, elaborazioni culturali e progettuali, indicativamente già contenute nei "Punti programmatici del Movimento Antagonista - Sinistra Nazionale", pubblicati su queste pagine nei primi mesi del '94. Piattaforma programmatica la quale conserva intatta tutta la sua validità, pur nella consapevolezza degli aggiustamenti, anche di capitale importanza, a cui hanno condotto analisi ed elaborazioni successive come, ad esempio, rispetto al punto 2 nel quale il Trattato di Maastricht veniva frettolosamente liquidato come «fantoccio dell'unità europea». Posizione corretta in virtù di una attenta analisi e di una più approfondita valutazione delle circostanze geo-economiche e geo-strategiche all'interno delle quali il faticoso processo di unità del nostro continente si va realizzando (Aurora n° 40 e n° 42; "Globalizzazione e unità europea" e "Considerazioni attorno al Trattato di Maastricht") e delle potenziali valenze ANTI-mondialiste insite in esso.

D'altro canto sarebbe sintomo di abissale ignoranza e di smisurata stupidità mantenersi coerenti alla «lettera» con un enunciato non più giustificato dall'evoluzione dello scenario planetario -l'aggrovigliarsi dei problemi economici e sociali all'interno delle società industrializzate, il repentino scaturire di problematiche ingovernabili nei paesi del Terzo Mondo, il disintegrarsi di economie ritenute solidissime, il capovolgersi di alleanze e l'affermarsi, qua e là nel pianeta, di antagonismi persistenti e spuri, strumentali e radicali- il solo che può oggettivamente imporre le coordinate per un'elaborazione programmatica aderente alla realtà quale essa e non quale ci piacerebbe o vorremmo che fosse.

Quelli che in una forza politica devono rimanere immutati e immutabili sono i valori, i princìpi ispiratori, le ragioni di fondo dei quali la proiezione programmatica è sintesi mutevole; adattabile alle esigenze imposte dagli scenari politico-sociali in perenne evoluzione.

Solo sui valori di fondo, sull'assonanza del «sentire», sulle singole sensibilità che compongono l'armonico «insieme» si concreta e si sviluppa un organismo politico con qualche possibilità di sopravvivenza in un momento storico nel quale la massa delle informazioni, più o meno manipolate, a disposizione del singolo individuo è tale da ingenerare la costante instabilità delle opinioni sui singoli avvenimenti. È solo questo comune «sentire» spirituale, nella sua eccezione gramsciana di «spirito della teoria», dell'aggregato umano può consentire all'entità politica antagonista di attraversare indenne, con qualche chance di affermazione, il deserto dei «non valori» della società consumistica e globalizzata con la quale siamo quotidianamente chiamati a misurarci.

 

* * *

Quanti si erano illusi che il venir meno nel duopolio USA-URSS avrebbe in buona misura contribuito a liberare le entità antagoniste ossificatesi nella logica perversa dei blocchi contrapposti e il crollo del socialismo reale fosse preludio ad una crisi di vasta portata del capitalismo occidentale, dato che per esso il confronto ideologico con l'Orso russo rappresentava un formidabile strumento di coesione interna, ha avuto il modo e il tempo di ricredersi. Non solo il capitalismo è stato ulteriormente rafforzato dal patetico tramonto di quello che era stato indicato come il suo nemico principale, ma esso, nel breve arco di un decennio, ha recuperato, utilizzando la finanziarizzazione planetaria come una clava, le «sacche» di autonomia economica che alcune nazioni si erano ritagliate.

Il ridimensionamento delle economie tedesca e giapponese è, infatti, emersa in tutta evidenza nella crisi finanziaria che ha travolto le economie del Sud-Est asiatico; ossia, quando è stato loro impedito di intervenire unilateralmente allo scopo di salvaguardare i loro consistenti investimenti nell'area. Gli USA hanno preteso che la crisi fosse gestita, senza nessuna ingerenza, del FMI, da loro strettamente controllato, allo scopo di allargare il proprio mercato e di conquistare una posizione preminente in una zona del mondo alla quale, la progressiva apertura del mercato cinese, conferisce grande rilevanza strategica.

È doloroso ammetterlo, ma doveroso prenderne atto: oggi siamo tutti meno liberi che nell'Ottantanove; sia come singoli che come popoli. Ciò può essere percepito come un'atroce beffa della Storia da quanti con estrema convinzione e in totale buonafede si batterono contro l'ideologia bolscevica. Ma rimane insindacabile la circostanza che questa calmierava in misura consistente l'arroganza planetaria del gigante statunitense.

Per quanto paradossalmente gli spazi antagonisti si sono andati restringendo nell'ultimo decennio e gli stessi margini di libertà di pensiero e di confronto dei quali il singolo disponeva sono stati progressivamente erosi non tanto, e non solo, da misure repressive o coartive ma dalla rassegnata indifferenza e acquiescenza delle grandi masse umane, ammaestrate, dall'enorme potenza degli strumenti mass-mediatici, alle logiche totalitarie del «libero» mercato.

 

* * *

Rassegnazione e indifferenza sono, infatti, le caratteristiche peculiari di questo fine millennio, spesso impastate a logiche individualiste o corporative onde per cui la prospettiva dei singoli si riduce al meschino orizzonte delimitato dagli interessi personali o, nel migliore dei casi, da quelli del gruppo di appartenenza. La Comunità e le sue esigenze non solo sono estranee ad un sistema in cui la preminenza degli interessi privati è considerata Vangelo, ma essa viene percepita come un pericolo quando non come un vero e proprio nemico.

È quest'ottica gretta e limitata ad alimentare in Italia fenomeni localistici come la Lega Nord e a costituire il brodo di coltura di successi elettorali, altrimenti inspiegabili quali ad esempio quello che premiò qualche anno fa un videocrate del calibro di Silvio Berlusconi.

Né serve a rimuovere il problema continuare e tacere di questi «cartelli», sui postulati che li ispirano e sui criteri di aggregazione evidenziando, nel caso bossiano, solo gli aspetti anti-nazionali e, per quanto riguarda il Creso di Arcore, unicamente l'impasto informe di interessi personali (giudiziari ed economici) e di fumose istanze politiche che ne avrebbero determinato prima la »discesa in campo» e poi il successo elettorale.

In verità Bossi e Berlusconi non sono scaturiti dal nulla in quanto esprimono, piaccia o non piaccia, umori largamente diffusi nella società civile. Ne si può dire, come qualcuno che si definisce antagonista ha sostenuto, che la degenerazione localistica sia la ricerca di un'appartenenza identitaria, la «piccola patria», prodotta dalla crisi dello stato nazionale. Viceversa, noi siamo dell'opinione che la frantumazione degli Stati nazionali, specie quelli europei, sia parte integrante di una strategia tesa a destabilizzare il Vecchio Continente, introducendo elementi del tutto artificiosi, come dimostra la pretesa dell'esistere di un'identità storica padana, nel momento in cui, seppure con grande fatica e non poche contraddizioni, esso si avvia verso un simulacro di unità. Bossi e Berlusconi altro non sono, in rapporto alla situazione sociale del Paese, che due concorrenti, non alternativi, in prospettiva alleati, i quali incarnano, con strumenti e toni diversi, l'egoismo sociale della piccola e media borghesia.

La diversità tra i due movimenti è più formale che sostanziale. Umberto Bossi ha, sia pure rozzamente, nobilitato la dissociazione sociale (della piccola e media borghesia settentrionale non più disposta -con qualche ragione- a tollerare oltre il massiccio trasferimento di ricchezze da essa prodotte nelle regioni meridionali) in secessione politica partorendo dal nulla la mendace favoletta della Padania, terra popolata da Celti (sic!), da duemila anni sfruttata dalla «sanguisuga» romana.

Berlusconi, viceversa, alla dissociazione sociale borghese ha conferito caratteristiche più ampie, meno nobili o nella fattispecie, apparentemente, meno pericolose, tentando di coniugare gli interessi, e le paure, della borghesia produttiva del Nord con quelli della borghesia, essenzialmente parassitaria, del Meridione. Nulla vi sarebbe di strano, e già certi segnali sono significativi, se la Lega Nord -annacquando alquanto il proprio secessionismo e retrocedendo su posizioni federaliste- e Forza Italia rientrassero in totale sintonia.

 

* * *

Al poco entusiasmante panorama vi è da aggiungere, per soprammercato, la resa senza condizione della sinistra istituzionale, la quale, in tutte le sue componenti ha abdicato alla propria funzione storica di punto di riferimento delle grandi masse di produttori e al proprio ruolo di tutela delle categorie sociali più deboli. La necessaria e meritoria politica di risanamento economico intrapresa dal governo Prodi ha profondamente segnato il partito di D'Alema intrappolandolo nel labirinto del tecnicismo economico dei Ciampi, dei Dini e dei Maccanico. È avvenuta, in seno al PDS, una vera e propria mutazione antropologica -non solo nel vertice nazionale, ma anche nei quadri periferici- in virtù della quale la stella polare dell'interesse collettivo è stata disinvoltamente sostituita da quella del pareggio di bilancio e da una politica tutta imperniata sulla necessità di rendere competitive le grandi aziende private.

Mai come in questa fase storica è venuto in evidenza il cordone ombelicale che da qualche decennio lega gli ex-inquilini di Botteghe Oscure alle grandi famiglie del capitalismo italiano. Si potrebbe dire che mentre Berlusconi, Cossiga, Bossi e Fini fanno garrire al vento la bandiera dell'anarco-liberismo dei Chicago Boys (: i cui inarrivabili fuoriclasse sono stati Ronald Reagan, Margaret Thatchers e il generale Pinochet) i quali ritengono che «i mali del mondo hanno origine negli inaccettabili lacci imposti al libero sviluppo del capitalismo», per cui sarebbe necessario ripristinare oggi le stesse condizioni di deregulation che permisero al capitalismo inglese di affermarsi nel secolo scorso, Massimo D'Alema e Walter Veltroni innalzano quella del capitalismo ecumenico il quale, almeno in Europa, ma anche negli USA, negli anni del «New Deal» rooseveltiano, tentò, in parte, di conciliare l'interesse privato con quello collettivo.

Il PDS pare non aver recepito (o l'ha recepito sin troppo bene?) in tutta la sua portata il mutamento dello scenario geo-strategico determinato dal venir meno della minaccia ideologica e militare della superpotenza social-imperialista sovietica. Lo Stato sociale o in Italia fu scelta «ideologica» di Mussolini e quindi imposto al ceto padronale obbligato a rispettarlo senza discuterlo, mentre ben altre caratteristiche aveva negli altri paesi, Stati Uniti in testa, per i quali si trattò di una sorte di percorso obbligato, imposto dalla necessità di limitare la penetrazione delle idee comuniste.

Accodarsi al «sogno» blayrian-clintoniano dell'Internazionale di Centrosinistra (una sorta di «delirio» thatcheriano in salsa liberal) significa retrocedere su posizioni che, ad essere buoni, possiamo definire «miglioriste» (: ossia, sommamente rispettose del libero mercato; «coscienti» della necessità della deregolamentazione planetaria, sacrificando quanto resta dello Stato sociale; occidentalista, tanto da giustificare l'arroganza statunitense al punto da giustificare, come nel caso di Veltroni sull'Iraq, qualsiasi aggressione e di addirittura partecipare con contingenti militari alle sedicenti operazioni di polizia internazionale decise dalla Casa Bianca) allo scopo di salvaguardare un riformismo di facciata che, nella sostanza, non è in grado di riformare nulla.

Rifondazione comunista, condizionata dalla consistente presenza di elementi antagonisti al suo interno, è costretta ad abbozzare, barcamenandosi tra le politiche antipopolari del governo e le spinte solidaristiche e anti-NATO delle sue componenti sociali più avanzate. Bertinotti e Cossutta danno sempre più la sensazione degli equilibristi in bilico sulla corda; non si sa mai dove vadano a parare. Condizione negletta quella del partito di opposizione e di governo.

 

* * *

Uscire dalla condizione di marginalità politica è, a nostro parere, il primo obiettivo che deve porsi una formazione antagonista, ed è compito di tutti i militanti individuare e produrre strumenti e mezzi.

Rompere la cortina del silenzio rimuovendo il muro dell'indifferenza è di per sé un traguardo ambizioso, di difficile attuazione, irragiungibile se l'impegno del militante non è rafforzato dalla consapevolezza dello scopo finale del suo agire. È questo un nodo da sciogliere, consapevoli che, nonostante tutto quello che si è detto e scritto, permangono all'interno della nostra visione politica zone grigie, ambiguità latenti e contraddizioni palesi scaturenti dalla «parzialità» delle analisi, spesso avulse dall'unitarietà necessaria ad imprimere una direzione di marcia senza intoppi, senza continui estenuanti chiarimenti. Perché se è vero che la pluralità è ricchezza, è altrettanto scontato che il successo di un'orchestra è proporzionato alle capacità dei singoli strumenti di sintonizzarsi con gli altri, eseguendo senza sbavature la sinfonia precedentemente concordata.

Solo se si è capaci di armonizzare, anche sul piano personale, le diverse sensibilità concordanti sulla validità dello spartito si rende possibile un'apprezzata esecuzione. Ciò crediamo sia incontestabile; a patto che non si voglia prendere in considerazione la tesi, da alcuni sostenuta, dell'impossibilità di organizzare e mantenere unita un'entità politica antagonista in quanto sarebbe più proficuo puntare sulle singole individualità libere di agire all'interno del sistema, creando una rete di resistenza capillare.

Una riesumazione, a ben vedere, del cosiddetto individuo «differenziato», del «ribelle» jüngeriano: il mito del «ritiro al bosco» e del «cavalcare la tigre» riproposto in funzione antimondialista, che già negli Anni Sessanta, Settanta e Ottanta dimostrò tutta la sua pericolosità allorquando centinaia di giovani si illusero di cavalcare e furono cavalcati dagli apparati del sistema in quell'orrenda pagina della storia nazionale ricordata come «strategia della tensione». In ogni caso si tratta del riemergere di uno dei tanti «miti incapacitanti» dietro i quali tanti pseudo rivoluzionari hanno occultato l'incapacità di collegare la loro azione ai bisogni e alle attese delle grandi masse. Un delirante elitarismo forse funzionale ad attenuare il malessere esistenziale in cui si dibattono certi avventuristi ma estremamente pericoloso per quanti vi si lasciano coinvolgere.

Siamo convinti dell'inanità di ogni azione oppositiva, all'affermarsi del libero mercato e all'uniformalizzazione planetaria, avulsa dal contesto sociale, storico, culturale e psicologico delle comunità di appartenenza. Allo stesso modo riteniamo inconsistente qualsiasi iniziativa tesa a frenare la devastante avanzata dei grandi trusts finanziari multinazionali se alla loro politica di sfruttamento e rapina non si contrappone un organica alternativa economica che certo non può incardinarsi sull'egoismo della piccola e media borghesia né può concepirsi come un rafforzamento di quello che resta del sedicente capitalismo nazionale.

La necessità di riportare in primo piano e di mantenere alta l'attenzione dei lettori di "Aurora", e di quanti mostrano interesse alle tematiche della Sinistra Nazionale, sulla Socializzazione dalle Imprese deve essere uno dei punti cardine della nostra azione. In quanto la socializzazione dei mezzi di produzione è la sola vera discriminante tra la S.N. e gli altri aggregati che si professano antagonisti.

Nella stessa misura ci pare urgente definire quali sono i limiti invalicabili rispetto al problema nazionale. Noi da sempre ci professiamo europei e guardiamo all'Europa con la consapevolezza che solo attraverso l'unificazione dell'intero Continente, da Lisbona a Vladivostok, si possano affrontare e vincere le sfide del Terzo Millennio. Ma con ciò non intendiamo rinunciare alla nostra identità di italiani e non per mero sciovinismo nazionalistico ma nella convinzione che l'Europa costruita rinnegando le appartenenze e le peculiarità dei singoli popoli sarebbe monca. Ridotta ad artificiosa costruzione finanziaria ad immagine e somiglianza della superpotenza stellata alla quale, viceversa, noi speriamo l'Europa sia da subito alternativa, non solo nella competizione finanziaria ma nell'organizzazione sociale, nei rapporti con i Paesi terzi e soprattutto in termini di civiltà.

Arricchimento della prospettiva, maggiore consapevolezza e responsabilità è quanto chiediamo ai militanti più consapevoli e preparati accompagnati ad uno sforzo organizzato volto a garantire una maggiore presenza politica esterna a sostegno di una maggiore visibilità delle nostre tematiche. Questo è quanto ci auguriamo accada già nella prossima riunione romana, e nelle altre che presto seguiranno, consci di quanto sia per noi vitale che la voce fuori del coro giunga a tutte le orecchie sensibili.

Luigi Costa

 

articolo precedente Indice n° 46 articolo successivo