da "AURORA" n° 46 (Febbraio 1998)

MONDIALISMO

Rullo di tamburi del Grande Satana: Guerra!

Stefano Greco

 

A otto anni dal tentativo iracheno di ricostruire l'unità nazionale, incorporando lo staterello feudale e fantoccio del Kuwait (perfidamente inventato dall'Inghilterra colonialista dopo il secondo conflitto mondiale), tentativo incoraggiato dalla Francia e giustificato da esperti americani, continua l'embargo ONU alla faccia delle incredibili sofferenze dei civili. I conti bancari delle ambasciate di Bagdad nei paesi occidentali restano bloccati.

Continua pure ad essere vietato il sorvolo di aerei nazionali nel nord Iraq per assicurare, si dice, la difesa della popolazione curda. Ebbene in questa stessa regione il PUK (Unione patriottica del Kurdistan) ha denunciato all'ONU ripetuti bombardamenti sulle sue postazioni ad opera dell'aviazione turca. La circostanza che la Turchia possa passare impunemente i confini, ogni qual volta lo voglia per svolgere azioni militari anche con mezzi pesanti è piuttosto interessante, se si pensa che il cielo nord-iracheno, scorrazzato da cacciabombardieri turchi, è stato proclamato da Gran Bretagna e Stati Uniti «zona vietata al sorvolo», un divieto rivolto evidentemente solo agli aerei iracheni che sarebbero i soli a trovarsi in spazi aerei propri. Se la zona vietata al sorvolo è destinata a difendere la popolazione curda, non si capisce perché nessuno sollevi obiezioni al governo di Ankara, responsabile, negli ultimi quattordici anni, del massacro di 27mila Curdi. E questa è solo la cifra ufficiale, di più non è dato sapere. La Turchia non ammette intromissioni; per essa la questione curda è una faccenda interna, un'emergenza terroristica da combattere con esercito, polizia, servizi segreti, ma Saddam Hussein non può certo sentirsi lusingato dal fatto che uno Stato confinante possa mettere a ferro e fuoco una sua regione, solo perché alleato a USA e Inghilterra, mentre egli non può neanche sorvolarla.

Se Saddam è punibile di lesa maestà al padrone del mondo perché si consente a Benjamin Netanyahu di violare gli accordi presi con i palestinesi e gli USA? Intenzionalmente si esaspera il governo iracheno, lo si costringe a un più che legittimo segno d'insofferenza.

Gli ispettori ONU setacciano l'Iraq da sei anni: hanno trovato e distrutto 38mila armi chimiche, 480mila litri di agenti chimici attivi per armi chimiche, 48 missili operativi, 6 rampe di lancio, 30 testate speciali per armi chimiche, centinaia di attrezzature correlate. Ciò nonostante le ispezioni e le sanzioni continuano senza limiti di tempo. Chi lo tollererebbe? Dopo sei anni Bagdad avrà ben il diritto, se non di esigere la fine dell'ispezione, almeno di espellere dal patrio suolo i propri aguzzini, gli ispettori di nazionalità americana! Ebbene, per gli USA e l'Inghilterra (la special relationship anglo-americana resiste a tutte le stagioni) questa decisione è un affronto da purgare con un bagno di sangue e l'eliminazione fisica di Saddam Hussein, capro espiatorio delle ben più vaste resistenze all'infernale "pax americana".

Le aperture di Bagdad (libera ispezione di tutti i siti sospetti; Tereq Aziz apre ai diplomatici stranieri il palazzo presidenziale più sospetto e non s'è trovata neppure una pistola ad acqua) sono cadute nel vuoto.

Il 5 gennaio Clinton e Blair, prima in una colazione di lavoro alla Casa Bianca, poi in una cena trimalcionesca, scandita dalle ugole «d'oro» di Elton John e Stevie Wonder, concertano la strategia militare da intraprendere. Nel Golfo arriva la portaerei "Invincibile" della marina inglese; il Pentagono annuncia lo spostamento del ventiquattresimo corpo dei Marines, a bordo della portaelicotteri "Guam", che si aggiungerà alle tre portaerei, due incrociatori, due sottomarini d'attacco, centosettantaquattro aerei e millecinquecento soldati già in posizione strategica. L'attacco si prevede violentissimo, il più massiccio dalla guerra del Golfo. Bombardamenti a tappeto per quattro o cinque giorni con l'utilizzo di missili sparati dalle navi da guerra di stanza nel Golfo, dalle portaerei e dai cacciabombardieri dell'aviazione. L'operazione ha già un nome in codice: "Desert Thunder", "Tuono del deserto".

In questo frangente quello che l'arroganza USA non capisce, o non vuole capire, è l'atteggiamento internazionale, ben diverso da quello del '91. L'Iraq non rappresenta una minaccia. Contro le arrugginite o presunte armi irachene, Israele dispone un potenziale bellico spaventoso. «Se Saddam non è completamente pazzo (dice Gerald Caplan, specialista di crisi internazionali), dovrebbe sapere che se sgancia una bomba su Tel Aviv, noi sganceremo una bomba atomica sulla sua testa».

Le malefatte del premier israeliano Netanyahu hanno rinsaldato la solidarietà dei sentimenti arabi. Se i governi dei paesi arabi si limitano a opporsi all'intervento americano, i loro popoli simpatizzano apertamente con Saddam, anche per il gesto di liberalità con cui ha liberato tutti i detenuti politici. Centinaia di bambini palestinesi manifestano in Cisgiordania con slogans anti-americani e di solidarietà con i fratelli iracheni, privati delle più elementari necessità. Perfino la Turchia e l'Iran solidarizzano con l'Iraq. A nessuno sfugge il reale movente dell'azione armata USA: riaffermare il ruolo di guardiani e padroni del Golfo, l'area più strategica e sensibile del mondo.

Dalla Russia, dalla Francia, dalla Cina, dalla India, dalla maggior parte dei paesi europei, dal Segretario Generale dell'ONU, dal mondo arabo, dalla Palestina, si leva un coro di protesta.

Le parole di Boris Eltsin sono dure: «Se gli Stati Uniti lanceranno un attacco contro l'Iraq rischieranno la terza guerra mondiale». Il ministro cinese degli Esteri, Qian Qichen, aggiunge: «L'intervento farebbe moltissime vittime, aggraverebbe la crisi nella regione e potrebbe creare nuovi conflitti». "L'Osservatore romano", organo del Vaticano, il 10 febbraio, riporta il messaggio congiunto dei Patriarchi e Capi della Chiesa del Medio Oriente, comprese quelle greco-ortodosse, nel quale si definisce «tragica» la situazione del popolo iracheno, attribuita «all'embargo ingiusto e ingiustificabile che provoca grave pregiudizio ai civili» e si invitano le Chiese nel mondo «a esprimere la loro solidarietà al popolo dell'Iraq e al suo diritto a una vita degna».

E l'Italia o, meglio, i governanti italiani cosa dicono? Niente! Per non scontentare nessuno non dicono niente. Il PDS e RC, pur contrari all'intervento, usano toni soft, attenti a non urtare la suscettibilità americana, avallando comunque le ragioni del più forte. In sostanza l'opzione statunitense risulta ben netta. A palazzo Madama si è discusso sull'opportunità di sbloccare il conto bancario dell'ambasciata di Bagdad presso il Vaticano. Il 26.11.97 la commissione Esteri del Senato, presieduta da Gian Giacomo Migone (PDS), ha dato parere negativo. La discussione iniziata da Tana de Zuleta (anch'essa PDS), definendo la proposta «scorretta», «che pone importantissimi e gravi problemi di politica estera nei rapporti con i nostri alleati», è terminata con la sconcertante dichiarazione di Migone: «Se proprio bisogna dividersi fra USA e Iraq, non mi sembra un crimine stare con gli USA».

Ora, alla stessa Commissione, è depositato un nuovo testo, a firma di Russo Spena e Folloni, per lo sblocco di tutti i fondi iracheni congelati nelle banche italiane dal tempo dell'embargo, un deposito valutabile intorno ai 240miliardi di lire. Vedremo chi lo appoggerà e chi lo respingerà, quali sono le forze politicamente credibili e quali no. È questa una di quelle occasioni storiche che, per dirla con Mussolini, «con la rapidità del fulmine opera la distinzione tra i forti e i deboli, tra gli apostoli e i mestieranti, tra i coraggiosi e i vili» (23.3.13). Certo la proposta avrebbe molte più possibilità di riuscita se fosse sostenuta dalla società civile, se chi l'avanza non si limita come Ponzio Pilato a dire... Si potrebbe e dovrebbe fare di più, innanzi tutto riconoscere onestamente nella crisi USA-Iraq un conflitto locale con effetti globali, una partita decisiva per la continuazione o per il superamento della divisione del mondo in popoli sfruttati e popoli sfruttatori. Da questa prospettiva la crisi del Golfo apre una questione squisitamente politica, umana, rivoluzionaria.

Il conflitto riguarda tutti e la politica dello struzzo non paga. Si abbia il coraggio di scegliere tra gli interessi in causa, tra le ragioni dell'umanità e quelle della borsa. Volendo, questa ennesima crisi internazionale, potrebbe essere un'occasione formidabile per ricompattare le frange sparse della sinistra (la vera sinistra), per avviare una nuova stagione rivoluzionaria affrancata dalle tragiche illusioni del passato.

Stefano Greco

 

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