da "AURORA" n° 46 (Febbraio 1998)

POLITICA E SOCIETÀ

E la chiamano libertà

Filippo Ronchi

Funzionamento della liberaldemocrazia italiana

Negli Italiani, la parola «regime» si identifica con l'idea di governo autoritario e dittatoriale. Per antonomasia, il «regime» e stato quello fascista con tutto il suo armamentario: manganelli, olio di ricino, camicie nere, Tribunale Speciale, OVRA, Starace, ecc. Se questo e il significato comunemente accettato del termine, allora si può con tutta tranquillità dire che oggi in Italia non esiste un «regime». Al tempo stesso, bisogna essere ciechi e sordi per non accorgersi che nella situazione politico-sociale attuale c'è qualcosa di molto preoccupante. Il fatto è che non si trova un'opposizione reale organizzata allo schieramento di governo (consistente peraltro in un coacevo di forze variante dai cosiddetti Rifondatori Comunisti ad Antonio Di Pietro e agli ex-funzionari del Fondo Monetario Internazionale Ciampi e Dini).

Il Polo e la Lega si distinguono non solo per il carattere dilettantesco della loro azione, che oscilla in permanenza fra le dichiarazioni di guerra totale e le transizioni più o meno sottobanco, ma anche e soprattutto per la condivisione del liberismo che li accomuna alla maggioranza di centrosinistra. Di caratteristico, queste presunte forze di opposizione ci mettono l'esasperazione assurda dei provvedimenti via via proposti dal governo Prodi.

Se non esiste un «regime», esiste però qualcosa di viscido, ossia la tendenza a creare una condotta generale improntata al conformismo liberaldemocratico, alla docile partecipazione, al bonario buonsenso della «gente» trasformato in appoggio mediatico all'Ulivo. L' ultima tornata di elezioni amministrative del novembre-dicembre '97 ha fornito una conferma eclatante della condizione attuale, da una parte segnando il venir meno del potere di condizionamento di cui si era fatta forte Rifondazione Comunista, dall'altra sancendo apertamente la crisi di Polo e Lega.

Per la verità, la tentazione di correre in soccorso del vincitore non è una peculiarità italiana, ma il «trasformismo» è un dato storico della politica del nostro Paese ed esempi significativi ne hanno dati proprio molti sindaci «progressisti» del '93 costituendo «cartelli» zeppi di notabili di vecchio e nuovo stampo, creati principalmente per raccattare più voti moderati possibili.

Quanto poi al consenso dei cittadini, alla loro effettiva partecipazione alla vita pubblica, l'elemento veramente importante delle ultime elezioni amministrative è che, grosso modo, mezza Italia non si e recata alle urne tra primo e secondo turno. Considerando anche le schede bianche e nulle, per la prima volta a livello nazionale meno della metà degli elettori ha espresso un voto valido. Una minoranza ha determinato un esito che riguarda tutti.

Il fenomeno, ormai, non interessa più soltanto le elezioni locali, ma sta assumendo carattere generale. Gli analisti si sono sforzati di dimostrare che la minore percentuale di votanti e frutto della «razionalità» del sistema uninominale a doppio turno; si sono rallegrati per il fatto che l'Italia si avvia lungo la strada degli Stati Uniti, che per metà non votano. Anche Romano Prodi si e compiaciuto vedendo che gli italiani si allineano ai comportamenti comuni nelle liberaldemocrazie occidentali «in modo più rapido del previsto», tanto che -come ha affermato Andrea Mignone, professore di Scienze Politiche dell'Università di Genova (città dove ben il 40,5% degli aventi diritto ha preferito disertare la cabina elettorale)- ci si deve abituare «all'idea che la democrazia può reggersi anche se quasi la metà dei cittadini non vota».

 

Sulla via della delegittimazione

Le tendenze in corso da tempo dimostrano, invece, che il sistema politico liberaldemocratico comincia ad essere corroso da una delegittimazione passiva e silenziosa, Gli italiani in questo modo reagiscono ad un ceto politico che li disgusta. Il meccanismo del maggioritario contribuisce potentemente a rendere confuso il confronto, nei carrozzoni elettorali non si riescono più a individuare scelte politiche che si situino al di là delle barriere imposte dal liberismo. La metà degli Italiani, insomma, piuttosto che dare il consenso ad un «candidato marionetta» preferisce restare a casa. Tantissimi cittadini, a questo punto, non si sentono più rappresentati dall'attuale quadro politico e la crescita smisurata delle astensioni, nonché delle schede bianche e nulle, svela le mistificazioni su cui si regge la liberaldemocrazia.

 

Cicciobello: una carriera italiana

Naturalmente, il sistema è ancora forte. Lo dimostra, in modo emblematico, la vicenda della rielezione di Francesco Rutelli a sindaco di Roma, su cui vale la pena soffermarci. Diciamo qualcosa sull'uomo innanzitutto.

Inizia la sua carriera alla metà degli anni Settanta nel partito di Pannella, dove ottiene incarichi, e acquista una qualche notorietà a livello nazionale attraverso azioni di «disubbidienza civile» programmate a tavolino, con tanto di presenza di avvocati e cronisti, allo scopo di finire sulle pagine dei giornali. Ma verso la fine degli anni Ottanta, quando -da furbo carrierista- avverte che il declino dei radicali è irreversibile, cerca nuovi lidi e li trova presso i Verdi, di gran moda in tutta Europa. Con il pretesto dell'ambientalismo entra nell'arena ecologista e si azzuffa con i rivali per conquistare nuovi spazi elettorali.

È, però, Tangentopoli che segna una svolta. La fine della «vecchia» classe politica, per Rutelli, rappresenta l'occasione del destino. Candidato dal PDS alla poltrona di sindaco di Roma nel '93, il cosiddetto Cicciobello scende in campo spalleggiato da un blocco mass-mediatico di tutto rispetto: la trasmissione televisiva Maurizio Costanzo Show, i quotidiani "Il Messaggero" (il più diffuso nella capitale) e "la Repubblica" (il più diffuso nel Palazzo), nonché il bollettino del PDS "l'Unità". All'operazione contribuisce in misura non irrilevante anche la moglie del futuro primo cittadino, Barbara Palombelli, pupilla del fondatore-direttore de "la Repubblica", Eugenio Scalfari.

L'ex-radicale Rutelli, «antipartitocratico» e amico dei craxiani, dopo aver desiderato a lungo una poltrona ministeriale fosse anche in un governo DC-PSI, si appresta dunque a trovare una sistemazione di tutto rispetto, mettendosi ai servizio degli ex-comunisti della Quercia che, quando era ancora fervido estimatore dei socialisti, aveva definito «oppressori e fallimentari». I programmi dell'aspirante sindaco sono generiche enunciazioni vagamente sinistresi e manageriali, come si addice ai tempi. Il personaggio scrive e parla molto, ma dimostra una formidabile insipienza. I suoi interventi sono infarciti di slogans, luoghi comuni, frasi fatte. Dalle sbrodolature retoriche del periodo rosa sulla guerra nucleare e sull'olocausto per fame, alle profezie del periodo verde sulla catastrofe del buco nell'ozono e sulle formule «non per andare contro il capitalismo, ma per correggere la logica devastante del pianeta», Rutelli si è sempre segnalato per la sua demagogia d'accatto, per la genericità e banalità delle proposte. La struttura portante della candidatura rutelliana, in occasione sia delle elezioni del '93 sia di quelle del '97, è stata, dunque, quella dell'«immagine», in piena sintonia con il tono della «nuova» classe politica della Seconda Repubblica. A divulgare, appunto, l'immagine stucchevole e ruffiana di Rutelli «sindaco col motorino», «giovane e nuovo», «laico e moderno», «borghese e popolano» ha provveduto ultimamente anche l'agenzia pubblicitaria Saathi & Saathi, a cui la giunta ha accordato buoni appalti ed il cui amministratore, Paolo Ettorre, è stato fra i promotori di una lista civica orientata a destra che ha appoggiato la rielezione di Rutelli.

 

La prevalenza del Pacione

La città che quest'ultimo si è trovato ad amministrare è una Roma congestionata dal traffico, ammorbata dallo smog, devastata dagli abusivismi, umiliata, degradata e abbandonata nelle sue immense periferie. Anziché immergersi nell'immane e ingrato compito di restituire vivibilità al più complicato Comune d'Europa, Rutelli, politicante dell'«immagine» che copre mediocrità e inadeguatezze, si è impegnato ad ampliare il consenso facendo leva sui megaprogetti del Giubileo 2000 e delle Olimpiadi 2004. Nonostante la memorabile «trombatura olimpica», Cicciobello è riuscito ad accattivarsi le simpatie del generone romano che non l'aveva votato nel '93 con un'accorta politica di public relations, passando da una premiazione al circolo del Polo ad un'esibizione al circolo del Golf, e soprattutto con il varo di altri due megapiani edilizi.

Il primo (maggio '94) ha previsto la costruzione di 35.000 nuovi appartamenti, per un totale di 4 mila miliardi di investimenti. Il secondo (autunno '97, alla vigilia delle elezioni), deciso per consolare i palazzinari dopo la mancata torta delle Olimpiadi 2004, porterà alla colata di 6 milioni di metri cubi di abitazioni, anche nelle zone ai bordi del parco archeologico dell'Appia; una cascata di cemento e miliardi equamente ripartiti fra i palazzinari ex-DC e quelli delle Coop rosse. Il tutto, in una città che conta almeno 180 mila case sfitte sul mercato, come tuonava Cicciobello quando era ancora deputato verde arcobaleno alla opposizione.

Sullo sfondo si staglia minaccioso l'Anno Santo del 2000, il business epocale del Giubileo, incentrato su un enorme intreccio di interessi spartiti tra il Vaticano, il Comune di Roma e lo Stato italiano. Sono previsti 11 mila miliardi di investimenti per un complesso di 68 grandi opere (chiese, metropolitana, autostrade, parcheggi, centri di accoglienza, ecc.). La sinistra alla romana è contenta perché così ci saranno nuovi posti di lavoro. Ma i personaggi che hanno fino ad un certo momento (cioè fino a quando non sono stati inquisiti) affiancato o consigliato Rutelli nella gestione delle varie imprese, da Lorenzo Necci a Cesare Previti, fanno sorgere interrogativi inquietanti su ciò che potrà accadere nel corso del secondo mandato di Cicciobello.

Il suo trionfo elettorale nelle elezioni del novembre '97 fa affiorare, infatti, tutto il marcio della cosiddetta Seconda Repubblica, in cui Destra e Sinistra si confondono scambiandosi identità e valori. E veramente Cicciobello non si è risparmiato per preparare la sua conferma a sindaco. La lunga militanza anticlericale (lotta per il divorzio, per il diritto di aborto, guerra alle interferenze vaticane nella politica nazionale) del suo passato pannelliano è stata cancellata dalla conversione al cattolicesimo, dalle riverenze dinanzi a Sua Santità Giovanni Paolo II, dal matrimonio con la Palombelli ri-celebrato secondo il rito di Santa Romana Chiesa.

Sul versante politico, una accorta distribuzione di nuovi assessorati ha assicurato alla sua ricandidatura al Campidoglio il pieno appoggio dei Popolari, dei seguaci di Lamberto Dini e dei Rifondatori Comunisti, mentre il blocco mass-mediatico che già lo aveva sostenuto nelle precedenti elezioni contribuiva a spianare il terreno, rafforzando il mito del sindaco moderno e autorevole, abile e illuminato. Ma il capolavoro del trasformismo è stato raggiunto con la creazione delle liste civiche fiancheggiatrici, come quella in cui si è candidata l'imprenditrice di ascendenze nobiliari Alessandra Borghese, dichiarando: «Votai Fini, ma oggi credo nel Sindaco Rutelli».

 

Il pupo e i pupari

Il PDS, che e il vero burattinaio delle giunte di Cicciobello, si compiace di aver trovato un sindaco così poco di sinistra, così bello d'immagine e così ubbidiente. Il cocktail dei trasformismi, degli opportunismi, delle romanerie funziona a meraviglia nella seconda Repubblica. Ma la Roma reale langue, sempre più divisa tra un'oligarchia di vecchi e nuovi ricchi e una massa disperata che sopravvive nelle desolate periferie.

Filippo Ronchi


Per saperne di più:

Livio Giunio Bruto
"Cicciobello del potere. Francesco Rutelli politicante in carriera"
Kaos Edizioni

 

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