da "AURORA" n° 46 (Febbraio 1998)

LE RADICI

Ab Urbe Condita
il mito rivoluzionario della fondazione

Vìndice

 

Roma nasce nel 753 a.C. ma il suo territorio era popolato da tempi molto più remoti come attestano le tracce d'un centro abitato dell'ottavo secolo e la scoperta d'una tomba del X. Romolo, tracciando il solco con l'aratro, la vacca all'interno e il toro all'esterno, nel rito propiziatorio di fecondità all'interno delle mura, potenza virile all'esterno, consacra l'unità del popolo ivi stabilito.

La fondazione inizia la sacra storia dell'inveramento delle leggi divine sulla terra. Le mura rappresentano il perimetro inviolabile contro il disordine esterno.

Che la città abbia assunto il nome del fondatore o viceversa il fondatore dalla denominazione del luogo (ruma-mammella nell'antico latino, dal profilo simile a mammelle dei colli palatini), non ha eccessiva importanza. Molto più conta la tempra, il genio del fondatore serbato dalla narrazione simbolica, importa penetrare nel «grande e inesplicabile» senza il quale «Roma non avrebbe potuto assurgere a tanta potenza» (Plutarco, "Vita di Romolo"); scoprire come mai un popolo si elevò per sapienza sacra su ogni altra gente o nazione: «omnes gentes nationisque superavimus» (Cicerone, Har. resp. IX, 19).

I fili del destino di un popolo risalgono agli impulsi, alle sfere creatrici, alle direttici di marcia della sua origine.

La storia di Romolo ci è stata tramandata oralmente (la scrittura compare un secolo dopo la fondazione), tradotta in archè culturali.

La sua nascita dall'unione di una mortale con un Dio non è una pia leggenda ma lo svelamento in lui di un elemento soprannaturale che gli conferisce dignità sacrale: Marte, figurazione divina della virilità guerriera, associato al sacro fuoco della vita (simbolicamente una vestale), Rea Silvia.

Amulio strappa Romolo dalle braccia della madre e ne ordina la morte per esposizione sul Tevere in piena, ma le acque del fiume lo salvano, si ritirano lasciando in secco il canestro. Troviamo qui un tema ricorrente in molte tradizioni: il re babilonese Sargon, Mosè, l'eroe indiano Karna, Edipo, Perseo, Tristano, Sigfrido. Le acque raffigurano la corrente del tempo, l'elemento-base della vita mortale, instabile, contingente, passionale, fuggente. Capace di stare sulle acque, di non affondare nelle acque è il veggente.

Rapito dalle acque o dalle acque trasportato è il debole. Salvato dalle acque -o capace di stare sulle acque, di non affondare, è l'eroe, l'asceta, il profeta. Gesù cammina sulle acque. Nella tradizione vèdica gli asceti sono «nature sovrane che stanno sulle acque».

Reso dal Tevere presso il fico Ruminal (fico del palatino) viene nutrito da una lupa in una grotta in quei pressi.

L'albero è in genere simbolo della vita universale, l'albero cosmico; l'albero di fico si presenta, nella tradizione indo-ariana, quale albero «ashuatta», le cui radici sono in alto, nei «cieli».

La grotta è l'antro in cui discende l'uomo per acquistare sapienza, la fase in cui si sceglie la solitudine per far emergere in se stessi, a livello consapevole, l'armonia naturale inscritta nell'anima. Si pensi a questo proposito al ritiro di quaranta giorni di Gesù nel deserto, dopo l'incontro con Giovanni Battista, e alla sua vittoria contro la «potenza oscura».

La lupa esprime due significati. Luciano e l'imperatore Giuliano osservano, sulla base della somiglianza fonetica delle parole, che l'idea di buio e di luce venivano spesso associate: lykos, che in greco vuol dire lupo si connetteva ad Apollo concepito come idea del sole e da Virgilio associato alla grandezza romana. Ma, d'altra parte, nell'Edda l'«età del lupo» contrassegna un'età oscura, un'epoca di scatenamento delle forze selvagge ed elementari, quasi delle potenze del caos, contro la forza degli «eroi divini». Ora, questa dualità spiega lo sdoppiamento figurativo in due soggetti distinti, la componente dionisiaca e quella titanica, potremmo dire, del fondatore di Roma (Romolo e Remo). La tradizione, infatti, parla di due gemelli solo dal III secolo a.C. e Kovaliov ricorda che nella lapide del IV secolo la lupa allatta un solo bambino. Il tema di un unico principio da cui si differenzia una antitesi rappresentata dall'antagonismo di due fratelli, gemelli, o di una coppia, lo ritroviamo in Caino e Abele, Osiride e Set, e, in tutti i casi, uno incarna la potenza luminosa del sole, l'altro il principio oscuro «infero», la generazione del quale è chiamata «figli della rivolta impotente».

Romolo traccia il contorno della città, stabilisce un principio di limite -di ordine, di legge- avendo ricevuto il governo dell'Urbe dall'apparizione di dodici avvoltoi.

Significativamente gli avvoltoi, sorvolano Roma senza posarvisi: l'allusione è l'assenza di carogne, metaforicamente assenza o superamento di un infelice passato di cui nutrirsi; altrettanto significativamente appaiono in dodici, numero solare che vaticina alla nuova città il destino di abbracciare, come il sole, tutto il mondo.

Dicevamo dunque che mentre Romolo segna il limite, Remo lo vìola e per questo è ucciso. Il proposito di Romolo è di non lasciare alcuna possibilità di azione alla «potenza oscura» in sé, è efficacemente reso da una rottura, la rottura di un cranio. Si potrebbe dire che la forza primordiale delle origini romane, nei suoi aspetti luminosi, di ordine, forza guerriera purificata, sia consequenziale all'abbattimento delle potenze oscure.

Romolo e Remo sono anche, verosimilmente, le figurazioni simboliche dei colli Palatino e Aventino. Il Palatino, come si sa, è il monte di Romolo, l'Aventino quello di Remo. Sul Palatino Ercole avrebbe innalzato un tempio alla Dea Victoria dopo aver ucciso, in una caverna dell'Aventino, Caco, figlio del Dio pelasgico del fuoco sotterraneo.

Romolo è chiamato alla guida dell'Urbe dal Fato ma anche dal popolo che, dal momento in cui il pastore Faustolo lo raccoglie infante dalla caverna e lo affida alle cure della moglie Laurenzia, ammira il suo valore, la sua audacia nello smascherare e vincere le bande di ladri che infestavano la zona.

Dicendo che i primi abitanti dell'Urbe fossero dei bruti, lì riparati per fuggire il castigo nei paesi di origine, si intende dire che i primi cittadini, attraverso l'opera illuminata di Romolo, addivengono a tale altezza, morale e civile, da risultare quasi altre persone.

Romolo stabilisce infatti la comunione dei beni, l'«ager publicus» alla cui ripartizione annuale provvedono i padri di famiglia riuniti in assemblea «senatus» (dal latino senex-vecchio). Tutti i problemi dell'oppidum (città) sono risolti dai senatori. Non ci sono né ricchi, né poveri. Patrizi sono semplicemente i coltivatori della terra, plebei gli artigiani e commercianti. Mancano le disparità economiche, le contese, mancano gli odi.

Come uomini costretti a vivere ferocemente tra loro, in mancanza di regole, o castigati dalla legge del più forte, agiscono di conseguenza, così i romulei, affrancati dalla condizione belluina, ritenuti e fatti capaci di agire liberamente per il proprio bene e della propria comunità, danno prova di eccelse virtù.

Romolo poteva essere un despota, invece sceglie di essere un servitore del popolo, della volontà generale, e lo fa con lo spirito di abnegazione di un sacerdote, quale vuol essere anche formalmente facendosi scortare, come i sacerdoti etruschi, da dodici littori.

Il ratto delle sabine rimembra i costumi nuziali della prima Roma ed esprime il desiderio di stringere relazioni stabili con i popoli vicini. I romani capiscono quanto sia più civile affidarsi, anziché al predominio di un uomo, all'unione degli uomini. I sabini abitavano sui colli Quirinale e Capitolino. La pacificazione e l'appellativo di Quiriti esteso a tutti i cittadini conferma la Civitas romana come graduale, continua formazione civica, con ampliamenti e assimilazioni. Quiriti deriva probabilmente da Kiria-città o parte di una città. Quiriti significa quindi cittadini. Leggendo bene le pagine dello storico Tito Livio, l'ipotesi appare convincente. Scrive infatti Livio che, appena fatta la pace, «per concedere pur qualcosa ai Sabini, questi furon chiamati Quiriti». Gli ex-nemici diventano quindi cittadini, concittadini, figli della stessa Kirià, pur abitando in un diverso quartiere, su diversi colli dal loro. Latini e sabini si chiamarono col nome di Quiriti. Da Kirià deriva anche il nome di curie dato alle parti amministrative di Roma. Non si sottomettevano i popoli vinti ma li si aggregava.

Il romano combatte decisamente, eroicamente, ma solo quando la guerra appare giusta e inevitabile. Nella lingua latina, e solo in essa, troviamo uniti al sostantivo bellum (guerra) gli aggettivi iustum, necessarium, sanctum, pium. Iustum, necessarium per quanto si riferisce, diremo così, all'interno, tale cioè che nella sua inevitabilità non offenda il senso dell'equità e della fede alla parola data; pium per quanto si riferisce all'esterno, tale cioè che non si opponga all'altra virtù romana della clementia; nella consapevolezza che il nemico di oggi può divenire, auguralmente divenga, l'amico di domani; non infligge pertanto al rivale danni maggiori di quelli indispensabilmente richiesti dall'azione bellica. Il concetto di giustizia, di «diritto» costituisce l'elemento fondante della civiltà romana, il suo massimo contributo allo sviluppo dello spirito umano.

Il popolo romano agisce con la fermezza di chi è stato investito da una missione universale: questo alto sentire ha operato come incitamento a ben operare, consapevolezza di dover lasciare ai posteri un patrimonio morale, di dover vivere nella storia. Il mite Virgilio non esita a riconoscere nella «gente che veste la toga» (Eneide, lib. VI): missionari di un nuovo ordine sociale improntato agli eterni princìpi di Roma, un popolo destinato dalla potenza della loro origine a indicare le nuove frontiere dello spirito. Da qui la valenza, il senso dell'attributo «civis romanus sum» che non è, o almeno non dovrebbe essere, fine a se stesso, ma incessante tensione a condurre la giustizia nel mondo.

Torniamo ora al discorso della comunione dei beni. L'urbe si ampliava incorporando nuovi territori entro le mura. Tre elementi etnici (tribù) costituiscono il populus: Romani, Sabini, Etruschi. Tutto il potere è nelle mani di tutto il popolo. La divisione di ogni tribù in dieci curie dotate di potere legislativo (in ogni curia la maggioranza dei voti individuali costituiva unicamente il voto del gruppo. Il voto decisivo era dato dalla maggioranza dei voti risultanti dai vari gruppi, in maniera da impedire che le comunità di cittadini più numerose potessero far prevalere i loro interessi particolari su quelli dello Stato), da esercitarsi insieme al Senato, è una riforma attribuita a Romolo, ma in realtà è posteriore. Nei primi tempi il Senato assolveva pienamente ai postulati della democrazia.

Gli accrescimenti territoriali dell'Urbe e le ricchezze che vi confluivano fanno nascere nei senatori la bramosia di costituirsi in classe esclusiva, di approfittare della situazione mettendo fine al regime di comunione dei beni. Romolo non è d'accordo e un giorno, mentre tiene una adunanza nel campo Marzio, per passare in rassegna l'esercito, una tempesta, scoppiata all'improvviso con gran fragore di tuoni, lo avvolge in un nembo talmente denso da sottrarlo alla vista dei presenti; da quel momento Romolo scompare letteralmente. Già allora alcuni sospettarono che Romolo fosse rimasto vittima di una congiura di senatori.

Il seme della sapienza era stato comunque piantato e in tutti i secoli a venire ha continuato a manifestarsi nel mondo come manifestazione trionfale di un principio di luce e di ordine, di un'etica, di una visione della vita.

La virtus, la clementia, ha continuato ad avvincere comunità e senso del sacro; la religio ad affratellare, in una coesa comunità, i membri delle famiglie e dello Stato. L'universalismo romano trova significativa conferma in occasione del primo millennario dell'Urbe, celebrato dall'imperatore Filippo l'Arabo, figlio di uno sceicco.

Con l'assassinio di Romolo il popolo si scinde in due componenti antagonistiche, una volta a sostenere, nutrire la vita (i figli eletti dell'Urbe dagli augusti seni, nel senso etimologico del nome), a ricostruire l'unità del popolo, l'altra volta a perpetuare i privilegi, la divisione sociale, a sacrificare la vita.

Non a caso il colore della rivoluzione è oggi il colore di Roma. Diciamo Roma ma l'Urbe è per noi, più che un luogo, un simbolo, un territorio spirituale, la bandiera intrisa del sangue versato per la causa degli oppressi.

La narrazione delle origini termina con l'apoteosi di Romolo. Asceso metaforicamente al cielo è il paradigma del sapiente, del virtuoso, del cittadino votato al bene comune, e come tale diventa oggetto di venerazione col nome di Quirino.

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