da "AURORA" n° 48 (Aprile - Maggio 1998)

L'ANALISI

Omosessuale e maestro

Francesco Moricca


 

«Nemmeno Laronia potè sopportarlo e sorridendo disse: "... Ritorni pudica Roma, ora che dal cielo le è piovuto un terzo Catone. Dimmi però dove compri questo profumo che ti esala dal collo peloso (...) Gli uomini (...) quante ne fanno più di noi; ma son tanti a farne che il numero stesso li difende (...) Come vanno d'accordo questi rammolliti! Mai tra noi donne si troverà esempio così deplorevole. Media non lecca Cluvia, né Flora Catulla. Ispone invece si sottomette ai ragazzi, pallido sempre per l'uno o per l'altro vizio. Forse che noi discutiamo (come lui) cause in tribunale, studiamo diritto civile, o veniamo a far baccano ai vostri comizi? (...) Voi uomini invece cardate la lana e riempite cestelli coi vostri filati, voi torcete il fuso, gonfio di fili sottili, più abili di Penelope e più leggeri di Aracne»

Giovenale, Satira, IIª (invettiva della meretrice Laronia)

 


 

Scandalizzanti e scandalizzati

Il giudizio dell'On. Fini sui «maestri omosessuali», comunque lo si voglia interpretare, non è casuale né avventato. Molto probabilmente hanno ragione quanti vi hanno visto una premeditazione al fine di ricompattare quella che un tempo si chiamava «maggioranza silenziosa». La quale, per essere «maggioranza» e pure «silenziosa», non ci piace affatto. Peraltro fra essa allignano quei Tartufi invertiti con cui se la prende Giovenale nella immortale IIª Satira; Tartufi che, apparentemente senza ipocrisia, si trovano in eguale numero nello schieramento «progressivo»; anzi qui, propagandisti di se stessi, sono riusciti a convincere il mondo che l'eccezione debba diventar regola, il vizio virtù e la virtù vizio.

Se tartufesco politicamente è stato Fini volendo rinfocolare l'odio dei benpensanti per gli omosessuali, è stato superato dall'On. Veltroni con quel suo istituzionale e spocchioso invito affinché il Presidente di AN andasse a rivedere il film interpretato da Mastroianni e dalla Loren sulla condizione dell'omosessuale nel Ventennio; film che, a nostro modo di vedere è più che altro paradigmatico del conformismo sociale esistente in tutti i «regimi», compreso quello fascista e non escluso quello comunista o quello democristiano che questo conformismo hanno più o meno «intelligentemente» strumentalizzato (e poiché vogliamo concederci una malignità, osserviamo che Veltroni, da conoscitore della storia del cinema quale è, avrebbe anche potuto raccomandare a Fini il film di Manfredi sul caso Girolimoni; ma che non lo ha fatto; forse se ne è «dimenticato»?).

Noi diciamo che è la retorica permissiva della cultura dominante, ciò che condanna definitivamente l'omosessuale -e non solo lui- ad essere assai più che «diverso», ad essere intrinsecamente e irreversibilmente un individuo spregevole. Siccome «tutto è consentito», l'omosessuale come chiunque, non soffrendo per la conquista della propria personalità, non solo non potrà mai averne una che non sia «giuridica», ma sarà privato della possibilità stessa di oltrepassare il dato immediatamente empirico della sua esistenza, di percepire in quale che sia modo il proprio «io» come valore. Viene preclusa l'esperienza religiosa autentica, perfino la possibilità di una attività intellettuale o artistica che valgano per se stesse e non come «merce». A lui come a chiunque.

Bisogna allora convenire che la qualità umana dell'omosessuale interpretato da Mastroianni, posto che esista davvero, è funzione proprio della «oppressione fascista», che non era semplicemente «conformistica». Alla stessa maniera, ciò che di buono può trovarsi in Oscar Wilde (per esempio nell'ostentazione esibizionistica del suo garofano verde da collegarsi alla tematica de "Il ritratto di Dorian Gray") dipende dagli aspetti più negativi della società vittoriana che non coincidono proprio col suo proverbiale perbenismo. Ancora, l'omosessualità voluta come esperienza liminale da un Rimbaud e perciò non paragonabile a quella vera di un Verlaine; è impensabile fuori dal contesto non solo «politico» della Comune parigina, del 1870; ed è più carica di valore rispetto all'omosessualità latente di un Van Gogh, che si esaurisce nell'atto di un'automutilazione e dell'invio simbolico dell'orecchio tagliato all'amico Gauguin.

È vero poi che nei «regimi» la tolleranza dell'omosessualità è garantita dallo stesso disprezzo conformistico che ne circonda e perciò stesso ne tutela la «persona».

Non appena l'omosessuale è coinvolto nella politica, anche senza pretendere di far valere politicamente la sua diversità, diventa subito potenzialmente oggetto di vera e propria persecuzione. Ma anche qui bisogna distinguere. Prendiamo i casi di Röhm e di Jünger nella Germania nazista. I due notori omosessuali (il primo capo delle SA e oppositore della svolta a destra impressa da Hitler con l'assunzione del potere, il secondo eroe di guerra, pluridecorato e come esponente della «rivoluzione conservatrice» comunque fiancheggiatore del nazionalsocialismo) avranno un ben diverso destino. Röhm sarà assassinato durante la «Notte dei Lunghi Coltelli», ma non per la sua omosessualità. Jünger, nonostante la sua omosessualità, resterà indisturbato, sia perché la sua opposizione non appariva pericolosa, sia perché si riconosceva alla sua omosessualità il carattere superiore dell'omosessualità dorica (che bisogna riconoscere allo stesso Nishima, strenuo difensore dell'etica del Bushido fino all'estrema prova di un Harakiri effettuato alla presenza degli allievi dell'Accademia militare di Tokio, il 25 novembre 1970).

Anche nel comunismo si può trovare qualcosa di simile all'omosessualità dorica; epperò sulla base di qualità intellettuali e «culturali» di derivazione illuministica supportate da una dedizione alla «causa proletaria» senza riserve, la cui controparte esoterica è costituita, sul terreno della «lotta di classe», dalla propaganda della più ampia libertà sessuale, cinicamente utilizzata per scardinare il «sistema repressivo» capitalistico, e che poi, una volta conquistato il potere, o viene soppressa o viene di parecchio ridimensionata. Emblematico il caso di Pasolini, a cui verrà rinfacciata la «diversità» quando le sue critiche alla società borghese si discosteranno dalla «linea del partito» assumendo connotati «reazionari» e «para-fascisti».

In definitiva, la reprimenda veltroniana contro Fini appare del tutto destituita da serie motivazioni. È strumentale e può essere facilmente ritorta, con l'aggravante che Veltroni è assai meno «comunista», dal punto di vista ortodosso, di quanto Fini non sia «fascista».


Politica e conformismo

A giudicare con obiettività, sembra che i politici, quando affrontano problemi di «morale», non possano prescindere dalla considerazione del lato peggiore della «morale» che è il conformismo. Diversamente, in qualsiasi regime operino, perderebbero «credito». Il peggio è che -Veltroni lo sa fin troppo bene- la stessa «morale progressista» che è stata per lunga «tradizione» anti-conformistica, è oggi diventata quanto di più smaccatamente conformistico si possa immaginare. L'inversione sessuale in taluni campi è diventata una insostituibile credenziale; la perversione sessuale, poi, è un vero e proprio «business», tanto che non si è molto lontani dal vero se si afferma che la sua censura «morale» e «penale» è in funzione della legge del Mercato.

Lo spessore del politico si dovrebbe misurare dal modo con cui egli sa utilizzare il conformismo secondo una strategia pedagogica anti-conformistica, capovolgendo i termini utilitaristico-economici su cui poggia la «morale». Sicché la massima del comportamento dovrebbe essere, secondo il suo significato etico, quella della non utilità intesa come non convertibilità pecuniaria dell'azione. Nella misura in cui il politico mette in pratica questa massima fa opera di educazione anti-conformistica, «insegna al gregge come può essere un'entità organica solo se la pecora cessa di essere tale».

Se il politico in tal senso è anche un «maestro», è facile intendere il nesso che deve intercorrere fra la scuola propriamente detta e la politica. In questa prospettiva il giudizio di Fini acquista valore, sia perché a fronte del conformismo di regime è anticonformistico, (addirittura scandaloso), sia perché, a precise condizioni, potrebbe essere un modo intelligente di utilizzare il vecchio conformismo (positivo nel caso considerato perché non permissivo e «odioso») contro il nuovo (più «odioso» del primo per il fatto di risultare in ogni caso «vincente»).

Sembra di capire che, secondo Fini, agli omosessuali dovrebbe essere precluso l'insegnamento perché, se pure professionalmente eccellenti, non potrebbero conferirgli un taglio «particolare», incidendo anzi, tanto più profondamente nella formazione dell'allievo quanto più tecnicamente capaci e persino ineccepibili nel comportamento: con l'astenersi cioè -questo ammesso e non concesso- da tentativi; anche non premeditati di «approccio». A prescindere da considerazioni moralistiche, dovrebbe essere indiscutibile che il compito precipuo della scuola è educare alla «regola» piuttosto che alla «eccezione», consistendo la regola delle regole (che comprende anche il rispetto dell'eccezione ma non certo la sua omologazione) quella del più assoluto riconoscimento della personalità altrui che è sempre e comunque una identità differenziata (lo è l'omosessuale per l'eterosessuale, ma non può non esserlo alla stessa maniera e in forza dello stesso principio l'eterosessuale per l'omosessuale). Ove ciò non accada, ove il maestro, che è il modello in cui si incarna il fondamentale e irrinunciabile principio testé enunciato, inclini, persino contro la sua volontà, verso una «diversità» che il suo ruolo, la natura stessa del rapporto maestro-allievo impongono come perfettamente normale e anzi esemplare, allora la scuola piuttosto che «formare», deforma l'allievo. Si dovrebbe aggiungere che ove simili verità siano ignorate dai «ministeri culturali», ciò non può che significare due cose: o che essi non hanno alcuna idea della pedagogia, oppure che seguono un orientamento pedagogico che trascura del tutto la formazione a vantaggio della mera acquisizione di capacità esecutive. È chiaro nella seconda ipotesi, che se occorre soltanto saper scrivere due parole in lingua comprensibile o saper adoperare il computer, è del tutto indifferente se il maestro, o meglio l'istruttore, sia omosessuale oppure eterosessuale; interessa solo che egli possegga le conoscenze molto particolari e limitate che ha solamente il compito di trasmettere.

Se abbiamo ben compreso il pensiero di Fini e abbiamo aggiunto considerazioni che lo stesso non esiterebbe a sottoscrivere, è molto difficile non concordare con lui, per quanto possa costare ammetterlo.

Epperò a questo punto tanto vale portare il ragionamento fino alle estreme conseguenze: scandalizzare coloro che «da benpensanti» danno scandalo, dopo aver scandalizzato coloro che pensano male o non pensano affatto, e tuttavia rappresentano la «cultura» a cui conviene uniformarsi, ove non si voglia passare per «retrogradi» o peggio.


La lezione di un passato che si vuole rimuovere

Postulando per vera, sul piano astratto, la distinzione cara ai «benpensanti» fra eterosessuali (normali) e omosessuali (anormali invertiti che vanno tenuti a loro volta ben distinti dagli anormali pervertiti), è perfettamente legittimo, sul piano astratto, domandarsi se i «normali» siano oggi ancora tali perché è evidente che non si può dare idea di normalità se non esistono soggetti concreti che l'idea incarnino sia pure approssimativamente, tanto più quanto costoro pretendono di assurgere a paladini della «normalità».

La semplice constatazione del fenomeno della transessualità nella società «evoluta» contemporanea, che è in aumento -e lo si vede senza bisogno di essere suffragati da dati statistici-, dimostra che oggi, a prescindere da ogni pregiudiziale moralistica e perfino etica, è assai problematico parlare di normalità. Non solo. A guardare le cose in profondità e con la dovuta freddezza, si può giungere a conclusioni sorprendenti.

Considerato che si può immaginare la transessualità come la fondamentale assenza di differenziazione propria al «Caos originario»; considerato che la transessualità umana è inferiore -perché incapace di generare- all'ermafroditismo di alcune specie di animali assai poco evolute quali i Cestodi, gli Anellidi, i Molluschi, si deduce che essa, pur non potendosi considerare una perversione, e proprio per questo, è al di sotto della stessa omosessualità persino sul piano strettamente naturale (ha poi un preciso significato, in relazione a ciò, il rifiuto generalizzato della procreazione nella società «evoluta», il quale rappresenta l'aspetto «consapevole» di qualcosa che -sembra inconcepibile- si situa al di sotto delle forme più primitive della natura organica). (4)

Si può sostenere che l'omosessualità, vista in relazione e nella prospettiva dei primordi, sia espressione di una volontà «aberrante» di differenziazione dal Caos: di concentrazione massima in un principium superiore di esistenza presupposto della successiva «divisione dei sessi»: una teoria che si trova espressa nella forma polisensa del mito nel "Simposio" platonico, per cui il «principium» in parola è da identificarsi nell'Uno di Parmenide; che è comunque il fondamento metafisico della «omosessualità dorica» praticata nella Grecia pre-classica, omosessualità solare, non inficiata di sensualismo terrestre e «femmineo» come accadrà nella sua degenerazione classico-ellenistica, nella romanità dell'età imperiale, nella omosessualità e nelle perversioni collegate proprie al mondo contemporaneo.

Anche l'omosessualità femminile dei «tiasi» (famoso quello dell'isola di Lesbo cui appartenne Saffo) aveva una netta connotazione spirituale, dorica, di segno virile. La dea Diana, a differenza di Venere, aveva addirittura caratteri quasi amazzonici. Nel mito di Apollo e Dafne (cfr. le ovidiane "Metamorfosi") che collega inscindibilmente, nel simbolo dell'alloro, l'idea dell'Arte civilizzatrice e dell'Impero soggetto della civilizzazione, Dafne è devota di Diana e la «imita» nell'abbigliamento. Nella celebre statua della Diana di Efeso, la dea mostra il torace coperto di testicoli di toro disposti in più file. Gli antichi Romani riconoscevano l'aspetto originariamente ed essenzialmente virile di Diana (identificata con la Luna) mediante il culto di Lunio. Stando alle testimonianze dell'antichità indo-aria, risulta che la femminilità era disprezzata solo per i suoi connotati naturalistici, afroditici e per così dire «morbidi». Che potevano però insidiare pericolosamente la virilità esprimendosi con inaudita e criminale violenza (Medea che, per vendicarsi dell'abbandono di Giasone, uccide i figli che ha avuto da lui). In questo caso, la perversione della femminilità da origine a una virilità mostruosa perché «monca», solo distruttiva e non anche costruttiva: a qualcosa di paragonabile alla donna che abortisce, che uccide il feto perché rifiuta la maternità. L'Amazzone, al contrario, rifiuta in blocco il contatto con la «natura», non solo la generazione ma anche l'eros. È come l'esatta duplicazione dell'eroe, e non per caso una delle dodici fatiche di Ercole consiste nel vincere le Amazzoni. La vittoria di Ercole è precisamente una riconferma del proprio sesso insidiato e il «dono» della femminilità all'Amazzone. Un rapporto analogo intercorre fra Sigfrido e Brunilde.

In definitiva, l'omosessualità che noi conosciamo non è affatto un dato «naturale», nemmeno nel senso di essere una anomalia della natura ovvero una «malattia» sul tipo dell'albinismo o del gigantismo. È, semmai, un portato del «progresso», una malattia morale. Si manifesta quando la femminilità abbandona quella che approssimativamente si definisce «aberrazione» (ma tale non è in effetti) amazzonica, quando si «cristallizza» prevalentemente sul modello della «Venere terrestre» (l'«etera») opposta alla «Venere celeste» coi caratteri demetrico-pitagorici che era venuta ad assumere l'Amazzone dopo essere stata vinta da Ercole. A questo punto, la stessa virilità eroica precipita nella pura «mascolinità». L'uomo pone al centro dei suoi interessi non già la conquista della Virtù, ma il «piacere della donna». Diventa egli stesso una donna quando non è capace più o di astenersi dall'eros, o di praticarlo epperò «trascendendolo», non restandovi invischiato, non diventandone lo «schiavo». Quando gli amanti non cercano che il proprio «piacere», essi, in realtà, è come se «si masturbassero in compagnia», come se, sotto un certo punto di vista, avessero un «rapporto omosessuale senza partner».

Una tormentata consapevolezza di quanto stiamo dicendo, nonché della reciproca interazione fra fenomenologia della sessualità e forme economiche, è presente nelle Satire di Giovenale. Il quale osserva la decadenza della Roma imperiale inquinata di cosmopolitismo ellenistico con l'occhio d'un Catone Censore; però con un animo di gran lunga più esacerbato e con un «risentimento» che appartengono al conservatore filisteo, presupponendo un castrante senso di impotenza che nulla ha da spartire con la superiore impassibilità dello stoico; tanto meno con il «sorriso di Apollo», dell'uomo che giudica con freddezza oggettiva, senza farsi influenzare dalle proprie passioni, ma passandole al vaglio della critica con un procedimento che, implicando l'esser spietati con se stessi, fa si che lo si sia a buon diritto con gli altri, su un piano che esclude la pietà per se stessi da cui ha origine la «umana compassione» sia degli stoici che dei cristiani. È pertanto fondata l'impressione di alcuni critici contemporanei i quali hanno avvertito, al fondo delle Satire di Giovenale, qualcosa di sospetto e addirittura di equivoco nel senso di una potenziale omosessualità, qualcosa che destituisce di qualsiasi seria fondatezza la sua misoginia e misantropia. Le quali -si potrebbe aggiungere- valgono in sostanza lo stesso che il garrulo squallore di un Petronio o dell'autore della "Antologia palatina", con la loro compiacente descrizione dell'eros omosessuale e pederastico. Assai più delle tirate moralistiche giovenaliane, a nostro modo di vedere, vale la fredda notazione di un Aristotele -che pare abbia sofferto di una forma blanda di perversione sessuale- sulla misteriosa «tristezza» che subentra post coitum.

Sintomatica è la considerazione di cui godette Giovenale, presso i primi cristiani. La cosiddetta «sessuofobia» cristiana ha quasi certamente le medesime cause psicologiche, ma è più seriamente motivata come reazione a una decadenza dei costumi che andava sempre più aggravandosi nella fase ultima dell'età imperiale. Da San Paolo a Sant'Agostino, i Padri della Chiesa erano inoltre, assai preoccupati dal permanere, fra moltissimi dei seguaci della nuova religione, di una religiosità di tipo «pagano» e di un interesse per la sublimazione della sessualità, anche della omosessualità, che veniva dal dionisismo orgiastico, dalla teologia gnostica (come presso le eresie ofitica e palagiana), dalla influenza di un certo ebraismo rabbinico caratterizzato da un morboso interesse per la fisiologia del sesso.

Con la Scolastica e almeno fino a tutto il Settecento, la «sessuofobia» cristiana andò sempre più attenuandosi. Parallelamente, il cattolicesimo manifestò una certa indulgenza di fatto nei confronti del «peccato contro natura», tanto che Lutero con Calvino e i giansenisti francesi e italiani giunsero a rimproverare, non senza ragione, al cattolicesimo di restare comunque «invischiato» nell'eresia pelagiana, la cui ultima formale condanna si ebbe al Concilio di Trento. In altra maniera, se il cattolicesimo avesse imposto una seria morale sessuale -non di tipo codino e sostanzialmente permissiva come quella controriformistica- non si spiegherebbe il successo del libertinismo, la cui offensiva, iniziata nel Seicento, deve ritenersi oggi pienamente e forse irreversibilmente vittoriosa.

Vero è, tuttavia, che sia per i cattolici che per i protestanti la sessualità è teologicamente fondamentale, e non solo relativamente alla funzione procreativa per cui il cristiano è partecipe dell'atto con cui Dio conserva nel tempo l'essere «più perfetto» della Sua creazione. La «carne», concetto in cui si compendiano tutti gli «appetiti» umani, è precipuamente «bisogno di amore», in ultima istanza di essere amati dal Creatore, dopo aver richiesto, più o meno «errando», l'amore di altre «creature». È dall'insufficienza umana, da questa incoercibile bramosia di nutrire la «affettività» che trae la propria sostanza il Dio cristiano; per cui a Lui solo appartiene l'attributo della «abalietà» secondo la tarda Scolastica, «abalietà» che equivale alla «autarchia» degli stoici, ideale che era posto dagli uomini e non dagli «dei», che doveva essere realizzato dagli uomini anche contro gli «dei». Per gli stoici si trattava di ridurre al minimo i «bisogni», prima di tutto il bisogno di «affettività», perché la libertà consiste nell'autosufficienza. Questo per il cristiano è il peggiore dei peccati, paragonabile alla superbia luciferina. Lo stoico non «prega». Per il cristiano, invece, la «preghiera» è tutto. Per lo stoico si tratta semplicemente di dominare la «carne» per realizzare il suo ideale di libertà e di retta felicità. Anche il cristiano deve dominare la «carne», perché Dio glielo comanda, ma in pari tempo non deve dominarla del tutto. Il «peccato» è necessario quanto il «perdono». Dal punto di vista della sua «affettività», per il cristiano vi è una gioia ineffabile nel «perdono». Perdonando agli altri si afferma in realtà la superiorità degli «eletti». Essendo perdonati da Dio, ci si «ricongiunge» con Lui e si riceve come la conferma di questa superiorità.

Paradossalmente, nel cristianesimo si trovano le premesse sia del neo-dionisismo nietzschiano sia del pansessualismo freudiano (nel quale, ultimo potrebbe vedersi la riproposizione in chiave moderna e «scientifica» di quell'ebraismo rabbinico che influenza il cristianesimo primitivo e tanta ostilità, ebbe a suscitare nei Padri della Chiesa).

In dettaglio, la posizione del cristiano nei confronti della sessualità -del suo essere il «peccato» necessario per meritare il «perdono» e quanto vi si connette non solo teologicamente- è questa. Egli vede nella donna la effettiva padrona della sua «anima». Ella è anzitutto la «madre» e la prima dispensatrice di «amore». Nell'ipotesi teologica della Madonna, ella è altresì «madre di Dio» e, se non fosse per il dogma della Trinità, sarebbe addirittura superiore a Dio. Quando il cristiano «trasferisce» la propria affettività dalla madre a un'altra donna, la femminilità diventa per lui dispensatrice di una felicità immediatamente «peccaminosa», per una serie di divieti morali e giuridici. L'omosessualità presso il cristianesimo è sempre strettamente connessa alla centralità del ruolo femminile. L'«amasio» è infatti il sostituto della «femmina», non vale mai in quanto «maschio», come accadeva presso l'omosessualità dorica e ancora presso la sua degenerazione degenerata nel mondo classico-ellenistico. Pertanto l'omosessualità cristiana non può astrarre dalla fisicità ed è condannata sempre e senza speranza di riscatto a rimanere il vizio ripugnante che già fu nel mondo classico-ellenistico. Prova crediamo irrefutabile di ciò è data dal fatto che espressioni da trivio come «inculare» e «fottere» sono perfettamente omologhe e, fuori dalla sfera erotica, significano «avere il sopravvento su qualcuno con destrezza».

Occorre a questo punto chiarire il perché, presso l'omosessualità dorica, fra gli «amasi» non ve ne può essere uno che abbia la funzione della femmina: perché l'omosessualità dorica sia essenzialmente una amicizia fra uomini, che può essere aperta alle donne -come dichiara Platone- ma solo se esse, pur conservando le caratteristiche del loro sesso, hanno un cuore da uomini non essendo delle Amazzoni e delle «virago».

La ragione di ciò è che l'«amicizia fra uomini» non tanto «riproduce» comportamenti tipici della fraternità militare, quanto la peculiarità costitutiva dell'Uno di Parmenide: la sua solitaria «energheia» legislatrice, che è il fondamento dell'onore per cui ognuno degli «amasi» vale per se stesso, escludendosi qualsiasi promiscuità anche solo strettamente «affettiva», l'«unizione» della «philia» consistendo nella comunità degli intenti e nel marciare, «a stretto contatto di gomito», nella stessa schiera.


Orientamenti

Nella prospettiva che si è delineata, l'omosessualità viene a configurarsi come un vizio solo perché all'origine è stata una virtù e anzi il fondamento onto-teologico di tutte le virtù, compresa quella relativa al modo corretto di concepire il rapporto fra l'uomo e la donna. Il quale, in base alla dottrina platonica (segnatamente al mito dell'Androgine) deve intendersi di reciproca complementarietà e non di radicale e irriducibile conflittualità, quale in effetti finì con l'essere con la decadenza classico-ellenistica (l'"Alcesti" euripidea allude proprio alla crisi del rapporto complementare dei sessi, e l'eroina mostra di possedere le qualità della spiritualità virile che sono invece del tutto assenti nel consorte Admeto, secondo una inversione dei ruoli che sarebbe già modernamente conflittuale se non fosse per l'intervento del «deus ex machina», nella persona di Ercole, il quale ristabilisce l'ordine turbato dalla viltà di Admeto: né è casuale che Platone citi espressamente Alcesti nel "Simposio").

Ma non può tacersi che la conflittualità dei sessi è fin troppo evidente, per chi sappia vederla, nel libro della "Genesi" in cui assai significativamente Eva è presentata come l'istigatrice del «peccato originale». E la composizione della Bibbia, nel senso della trascrizione di miti antichissimi trasmessi oralmente, precede con certezza la decadenza intesa storicamente, per cui ciò che di decadente vi è nel modo conflittuale di concepire il rapporto fra i sessi non è a rigore da concepirsi come conseguenza di mutati «rapporti di classe», e nemmeno della degenerazione delle aristocrazie guerriere. Il Serpente che «tenta» Eva può avere qualche relazione non secondaria con l'ebraismo rabbinico interessato alla sessualità di cui si è detto, e che influenzò, come sappiamo, l'eresia ofitica i cui seguaci adoravano un serpente attorcigliato alla Croce. Si tenga altresì presente che per il cristianesimo esiste una precisa e importante relazione teologica fra Adamo e Cristo (che è anche detto il «secondo Adamo»), e fra Eva e la Madonna (spesso raffigurata nell'atto di schiacciare il Serpente). (2)

Alla luce di quel che si è detto sin qui, dovrebbe essere chiaro che in una società, così fortemente, condizionata da duemila anni di cristianesimo (che ha influenzato perfino quanti hanno creduto e credono di poterlo ignorare), nessuno ha il diritto di disprezzare gli omosessuali. Altri meritano questo disprezzo, né possono vantare una certa «nobiltà originaria» del loro vizio come potrebbero, se effettivamente la conoscessero sia pure confusamente, gli omosessuali. Che essi abbandonino gli immondi feticci della cultura dominante e si volgano a considerare ciò che effettivamente potrebbe redimerli, liberandoli da ciò che li rende immondi, che, dietro compensi che si possono considerare vantaggiosi molto relativamente, li ha sempre strumentalizzati, come del resto ha strumentalizzato le stesse femministe. Le quali ultime non hanno fatto altro che portare, allo stremo il modello conflittuale del rapporto fra i sessi la cui origine crediamo di avere enucleato con argomenti non proprio campati in aria, mostrandone la radice inconfondibilmente reazionaria o almeno conservatrice. Fatte le dovute e piuttosto rare eccezioni, le donne si sono sempre mostrate ostili ai mutamenti radicali, molto raramente sono state amiche dell'uomo quando si trattava di compiere azioni totalmente disinteressate. Essendo pregiudizialmente «nemiche dell'uomo», lungi dal fare una rivoluzione le femministe hanno aiutato potentemente la controrivoluzione oggi vincente. E ne pagano le conseguenze, non a caso, per cominciare , in termini di disoccupazione. Il «maschio» ha vinto ancora una volta, ma noi certo non ci gloriamo della vittoria di simili «maschi», e respingiamo dal nostro cuore anche ogni sentimento di «pietà» per le «povere donne senza padre, senza marito, senza lavoro». Certamente, solo nel caso di quelle «povere donne» che hanno scelto il fronte del «progresso» e ne sono state ripagate come era inevitabile che fosse. Dell'omosessualità come vizio è responsabile il modello conflittuale che il sistema cristiano-bolscevico ha imposto nel rapporto dei sessi, e di questo sistema le femministe hanno costituita l'arma «segreta» più micidiale e risolutiva.

Non solo per gli omosessuali ma anche per le femministe -in quanto esiste un nesso di interdipendenza fra i due fenomeni- un confronto anche solo «dialettico» con la concezione della «philia dorica» potrebbe essere oltremodo fecondo. Omosessuali e femministe, per quanto nascondano la loro «delusione storica» oppure la rimuovano accontentandosi del loro «successo»; non possono negare -come non possono negarlo gli «ideologi del Progresso»- che la nostra proposta è realmente antagonista proprio in forza della sua «irragionevolezza»: della sua irriducibilità nei termini di quale che sia «storicismo», e per via della crisi -che non è solo «cultural-esistenziale» ma economica nel significato più estensivo e positivo della parola- in cui gli storicismi borghese e proletario sono venuti a trovarsi, per cui, se certi «automatismi» della storia si sono bloccati e se è comunque vero che la storia o progredisce o regredisce verso l'autentica barbarie, il solo modo per rimettere in moto la storia è quello di far intervenire in essa qualcosa che sia esterno ad essa e su di essa agisca come un colpo ai frusta.

Non possiamo chiudere, senza prendere in considerazione, dal punto di vista della «philia dorica», il caso limite in cui è dato di cogliere tutta la pregnanza etica. Come comportarsi qualora in una amicizia insorgessero complicazioni perché uno degli amici rivela inclinazioni omosessuali orientate «equivocamente», e viva la situazione come un vero conflitto in cui non può parlarsi in senso psicoanalitico di semplice «complesso»? È chiaro che il problema di coscienza si pone nella stessa misura anche per l'amico normale. A rigore, è suo dovere fare di tutto per aiutare l'altro a sublimare la sua inclinazione. La sua posizione è la più difficile, perché egli deve provare la superiorità della sua normalità, non può limitarsi a dire all'altro «tu non devi pretendere che io diventi come te». Se questi, onde evitare all'amico ma anche a se stesso l'insostenibile situazione, decide di non farsi più vedere, si comporta bene e anzi meglio e più virilmente dell'amico «normale»: muore in un certo senso come quell'Alcesti che nel "Simposio" Platone giudica superiore ad Achille sebbene donna. Se invece, come dovrebbe essere, è l'amico normale a prendere l'iniziativa (non scacciando l'altro ma spingendolo, non alla «rinuncia», ma alla sublimazione di un sentimento che così come si presenta si rivela in tutta la sua insufficienza), allora l'amicizia verrà trasposta su un piano più elevato; si distinguerà per un «quid» in grado di riscattare la stessa «colpa della normalità».

 

Francesco Moricca


Note:

(1) Dal punto di vista medico, è cosa complessa e al limite insostenibile affermare che i transessuali siano incapaci di generare. Noi lo affermiamo, tuttavia, in quanto, a differenza dei medici, non ci limitiamo a considerare la semplice fisiologia degli organi genitali (che può peraltro presentare nei transessuali disfunzioni che invece non esistono mai negli animali ermafroditi), ma anche la volontà di generare, che presso i transessuali si può dire non esista, essendo costoro, assai più delle donne, caratterizzati da una indecisione radicale, dovuta al fatto di volere contemporaneamente e con la stessa intensità cose diverse e contrapposte;

(2) La conflittualità del rapporto maschio-femmina esiste nel mondo degli animali: classico l'esempio della Mantide Religiosa, la cosiddetta «vedova nera» che uccide il maschio dopo il congiungimento. Non risulta che la Mantide trovi nell'uccisione del maschio un qualche «piacere erotico», ma se anche lo provasse sarebbe niente più che un momento della sua vita: la disponibilità al congiungimento è infatti negli animali limitata a certi periodi ben definiti. Negli esseri umani, invece, questa disponibilità sussiste sempre, in varie forme, lungo tutto l'arco dell'esistenza, e sembra essere all'origine dell'erotismo, presentando una tendenza sado-masochista anche nei soggetti normali. Vi sono donne che mostrano il bisogno di «uccidere» il compagno e di esserne «uccise» non limitatamente al momento del congiungimento, come lo fa la Mantide letteralmente e mostrando a modo suo una certa saggezza.

 

 

articolo precedente Indice n° 48 articolo successivo