da "AURORA" n° 48 (Aprile - Maggio 1998)

SCUOLA E SOCIETÀ

Berlinguer e i Talebani

Filippo Ronchi

Blocco Sociale

Passano i mesi ed il blocco sociale uscito vincitore dalle elezioni del 21 aprile 1996 si rivela saldo. A prima vista, l'attuale maggioranza politica espressione di quel blocco sociale si presenta come un'accozzaglia di cose disparatissime e fra di loro antitetiche: Rinnovamento Italiano e Rifondazione Comunista, i Verdi e il movimento di Di Pietro, per citare i casi clamorosi. Eppure il gruppo, nonostante le differenze «di colore» e i variopinti costumi indossati dalle comparse è molto più compatto di quanto appaia. Cementata intorno ai valori essenziali della Costituzione repubblicana, la cui accettazione è l'unica vera pregiudiziale politica in grado di coagulare i vari partiti di centrosinistra, perennemente pronti a rivolgere inviti alla mobilitazione contro la fantomatica possibilità della «risorgente barbarie nazifascista», una maggioranza siffatta è sicuramente in grado di durare a lungo. Si tratta infatti di una entità capace di ingoiare tutto ciò che si agita e passa a tiro, financo la presunta radicalità antagonista dei Centri sociali, uno dei cui leader -ad esempio Luca Casarin, coordinatore di quelli del Nord Est- ora fa il consulente dei ministro Livia Turco sui giovani e fiancheggia il movimento federalista-ulivista inventato da Massimo Cacciari. O quantomeno di controllarla senza troppe difficoltà, come si è visto nella dimostrazione degli «squatters» a Torino il 4 aprile scorso.

Così la maggioranza di governo contiene al suo interno tutto e il suo contrario: i liberali e i comunisti, i riformatori e i conservatori, i tecnocrati e i populisti, i garantisti e i giustizialisti, i filo-americani e gli anti-americani. Ma questo, in un Paese come l'Italia, è una garanzia di durata, non di rapida consunzione e crisi, tanto più con un'opposizione impresentabile quale quella formata da Forza Italia, Alleanza Nazionale, vari gruppetti cattolici alla Buttiglione-Mastella e Lega Nord. Si è avviata così una lenta ma inesorabile marcia verso una egemonia politica e sociale davvero totalizzante. L'idea classica del regime inteso come dominio violento di una sola parte è legata alla figura del colpo dì Stato, al putsch. Gli strumenti e i mezzi di cui oggi il potere politico dispone e la possibilità di neutralizzare i controlli, permettono, invece, di realizzare egemonie senza colpo ferire, ovattando ogni mossa, da quelle legislative a quelle per l'occupazione di centri nevralgici economici e politico-amministrativi. Gli intellettuali, per citare un ceto importante ai fini della costruzione del consenso e influente sui circuiti di comunicazione, sono stati fino alla vittoria dell'Ulivo e di Rifondazione Comunista per lo più all'opposizione. Dal dopoguerra alla fine degli anni Ottanta si appoggiavano su un compatto e autorevole partito come il PCI. Oggi stanno al potere o nei paraggi. Il «modello tosco-emiliano» è dunque in via di realizzazione nell'intero Paese. Si tratta di un modello avvolgente, che tende a cloroformizzare qualsiasi forma di antagonismo riducendo l'opposizione nel ruolo, al massimo, di portatore d'acqua. A livello istituzionale, perno dì questa strategia è il coinvolgimento contrattato nel disegno della riforma dello Stato diretto da D'Alema a partire dai lavori della Bicamerale. Il blocco sociale che supporta questa politica risulta estremamente forte perché il suo nucleo è costituito dalla grande industria del Nord protetta dallo Stato (Fiat in testa) e dai sindacati confederali, realtà anch'esse peraltro storicamente legate da una forma di alleanza competitiva. La vicenda della «rottamazione» delle auto usate è stata, in tal senso, esemplificativa dello scambio di favori dati in campagna elettorale e resi dopo la vittoria del 21 aprile '96 tra determinate categorie produttive e il centrosinistra. Perciò, nonostante una strumentale dialettica interna, nella maggioranza Ulivo-Rifondazione Comunista esiste di fatto una unità profonda che funziona egregiamente ai fini del mantenimento del potere.


Lo specchio a due facce

Il mondo della scuola riflette, come sempre, i processi in atto nella società. Ormai quasi quotidianamente i giornali espressione del blocco storico precedentemente delineato ("Corriere della Sera", "La Stampa", "la Repubblica", "l'Unità") riportano interviste del ministro Berlinguer e sintesi dei suoi mirabolanti progetti di riforma -definita «la prima rivoluzione dopo l'era Gentile»- sulla nuova scuola dell'obbligo fatta di «mappe e zaini dei saperi» che dovranno costituire «i contenuti essenziali per la formazione di base di un giovane del Duemila». I riflettori sono perpetuamente accesi sul nulla. I giornalisti amplificano, enfatizzano, rincorrono il consenso, fanno chiasso e retorica. Tutto ciò serve soltanto a nascondere la realtà di una sostanziale prosecuzione della politica -inaugurata agli inizi degli anni Novanta- dei tagli, della mera riduzione delle risorse, dell'aumento del numero degli alunni per classe e sezioni, dei tentativi di modifiche unilaterali dell'orario di lavoro dei docenti. CGIL-CISL-UIL annunciano stati di mobilitazione della categoria (prima a dicembre, poi ad aprile) sempre revocati dinanzi alle presunte rassicurazioni del governo amico. La Confindustria, da parte sua, rincara la dose pubblicando un "Rapporto verso la scuola del 2000, cooperare e competere" che fornisce una serie di dati parziali e tendenziosi per dimostrare che la scuola statale italiana è da buttare e per arrivare alle note conclusioni: occorrono l'autonomia reale (cioè finanziaria) degli Istituti, la legge di parità fra Istituti statali e privati ma soprattutto nuovi contratti di lavoro per il personale, che diano la possibilità di attuare un grande progetto di mobilità professionale per gli insegnanti in eccesso (ossia, tradotto in parole chiare, licenziamenti di massa al fine di abbattere i costi del sistema di istruzione pubblico, ritenuti evidentemente insostenibili con il drastico ridimensionamento del Welfare State necessario per il rispetto dei parametri di Maastricht). Nonostante tutto, una rabbia sorda viene dal basso, lo scollamento fra classi dirigenti e giovani generazioni diventa sempre più forte, tant'è che sia D'Alema sia Berlinguer non riescono a mettere piede nei convegni organizzati dagli Atenei universitari senza essere bersagliati con feroci contestazioni di studenti subito bollati come «talebani» perché incapaci di partecipare ai civili dibattiti costruttivi prendendo a modello le organizzazioni giovanili filo-governative, quali ad esempio l'Unione degli Universitari. Episodi del genere hanno visto protagonisti il segretario dell'allora PDS alla fine del '97 e lo stesso ministro della Pubblica Istruzione agli inizi di aprile.


La proposta del Movimento Antagonista - Sinistra Nazionale

Eppure sembra oggi di vivere in un'epoca in cui l'impegno di opposizione al Sistema ha sempre meno peso. Sembra che i movimenti d'opinione suscitati da una cultura capace di esprimere una critica «allo stato di cose presente» siano archeologia. C'è la sensazione diffusa che sia impossibile, nell'attuale fase storica, contrastare la liberaldemocrazia capitalista e questo anche perché il mondo non è più diviso in due blocchi. Ebbene, il Movimento Antagonista - Sinistra Nazionale parte dalla convinzione che proprio l'impegno culturale può rivelare ancora ingiustizie e imposture, può servire ancora a leggere la realtà, può essere ancora arma efficace per combattere la pericolosissima diffusione del cosiddetto «Pensiero Unico» liberaldemocratico, una vera e propria cospirazione che si realizza attraverso le forme del «politicamente corretto», del «buonismo», delle «compatibilità». L'impegno del Movimento Antagonista - Sinistra Nazionale ambisce, invece, ad offrire un progetto diverso, alternativo, radicando la consapevolezza che la dittatura del «Pensiero Unico» si trasmette attraverso uno strumento democratico per eccellenza, il «mercato», che per se stesso implica pluralità e concorrenza, ma in realtà porta all'uniformità dei comportamenti e delle scelte di vita. È in questo contesto che si colloca il crescente interesse del M.A.-S.N. per ciò che sta accadendo nel nostro Paese in uno dei luoghi deputati della trasmissione e della formazione della cultura, cioè nel mondo della scuola. Con le «riforme» che il governo Prodi e la maggioranza Ulivo-Rifondazione Comunista stanno introducendo, l'Italia perderà definitivamente una istituzione su cui si fondavano in larga parte le speranze per la formazione della cittadinanza e, quindi, per la rimozione degli ostacoli che impediscono la nascita di una identità comunitaria. L'azione disgregatrice portata avanti dal centrosinistra (il quale -non lo si ripeterà mai abbastanza- non trova opposizione, per quanto riguarda l'ispirazione liberista di fondo, nei partiti del Polo e nella Lega, che si limitano ad esasperarne talune impostazioni) ruota attorno ad alcuni capisaldi. L'autonomia scolastica, così come si sta delineando, si rivela uno strumento per accorpamenti e per nuovi tagli che desertificano parte del territorio nazionale, creando ghiotti «mercati» per le scuole private. All'autonomia scolastica sono inoltre collegate la dirigenza per i Presidi e le proposte di revisione degli organi collegiali. Esse prospettano una organizzazione delle scuole autoritaria e aziendalistica, basata non sulla socializzazione, ma sulla competizione individuale interna, sulla lotta di tutti contro tutti, esautorando di fatto insegnanti, studenti e genitori dalla gestione, che viene affidata a uno staff non elettivo di non meglio identificabili «figure professionali intermedie». È in atto, poi, il trasferimento delle scuole professionali statali alle competenze delle regioni, cui verrebbe decentrata anche la formazione del primo biennio delle secondarie, creando due canali della scuola dell'obbligo stratificata così in maniera nettamente classista. È in arrivo, soprattutto, la legge sulla parità scolastica e sul sistema d'istruzione integrato che, nelle intenzioni del governo di centrosinistra, dovrebbe risolvere la questione del finanziamento pubblico alla scuola privata. Si tratta dell'attacco più grave, perché favorisce quella che giustamente è stata definita la «balcanizzazione» del sistema scolastico italiano, con la possibilità di consentire e finanziare, nel prossimo futuro, scuole di tendenza, di ideologia, di classe, di censo, di etnia.

Per il M.A. - S.N., dunque, la cultura e la scuola hanno un'importanza strategica altrettanto alta dei temi del lavoro, della disoccupazione, dello Stato sociale, dell'indipendenza nazionale dal prepotere statunitense. In questo senso, siamo convinti che, se passa nell'ambito del sistema formativo la realizzazione dell'integrazione pubblico-privato, non ci saranno soluzioni accettabili né per lo Stato sociale, né per il lavoro, né per lo svincolamento dai modelli culturali anglosassoni. Un capovolgimento così snaturante dei princìpi che avevano cominciato ad affermarsi, seppur contradditoriamente e parzialmente, fin dall'epoca fascista non potrà non riflettersi sull'organizzazione stessa dei valori della società. Domani la scuola integrata, con il suo stesso modello, sancirà la divisione degli Italiani, anziché combatterla, rendendo più che mai impossibile la realizzazione di quella comunità di destino presupposto per fronteggiare la sfida lanciata dal capitalismo del XXI secolo, dopo che nel Novecento che si chiude si sono consumate le alternative antisistemiche che hanno tentato di contrapporglisi. La scuola dello Stato, ossia la scuola di tutti e per tutti, è infatti l'unica difesa rimasta, a livello di massa, contro l'invasione del «Pensiero Unico» e dell'adesione acritica alla logica del «mercato». L'accanimento con cui si vuole demolirla è il segnale più evidente del suo valore civile. Essa, nonostante l'abbandono e il boicottaggio, continua ad infastidire perché si oppone ad un disegno integralista: farla diventare luogo di conformismo mercantile.

Filippo Ronchi

 

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