da "AURORA" n° 49 (Giugno 1998)

EDITORIALE

Dalla sudditanza all'antagonismo
(prima parte)

Costa Luigi

Determinare quali siano gli sbocchi delle dinamiche innescate dal recente varo dell'euromoneta è, al momento, problematico. Anche coloro che, come noi, pur tra diffidenze, distinguo e dubbi, hanno ritenuto indispensabile pagare l'alto prezzo imposto dalle strettoie economiche del Patto di Maastricht per dare maggior concretezza alle prospettive unitarie del Vecchio Continente, faticano a districarsi nel ginepraio politico che, diversamente dalle strutture economiche di cui l'Europa si è dotata, appalesa tutta la sua insufficienza strategica.

Il «braccio di ferro» tra Helmut Kohl e Jacques Chirac a proposito della Presidenza della Banca Centrale Europea, al di là delle superficiali interpretazioni e delle note di colore, con le quali l'hanno descritto i mass media, ci appare unicamente come il prodromo inevitabile -e per molti versi augurabile- delle divergenze tra le diverse sensibilità ideologiche che hanno concorso alla nascita dell'Euro, nonché il chiaro segnale dell'inconciliabile antagonismo tra due posizioni: quella «minimalista» dei tedeschi e quella «ottimale» dei francesi.

La nomina di Wim Duisemberg (già presidente dell'IME, Istituto Monetario Europeo) al vertice della BCE è stata fortemente voluta dalla BundesBank e fermamente contrastata dai francesi non solo per mere questioni di prestigio nazionalistico -anche se una certa dose di sciovinismo è sempre presente nella politica dei Cugini d'oltralpe-, ma per ragioni di merito relative al ruolo della moneta unica nella cosiddetta economia planetaria.

I tedeschi infatti, attribuiscono all'Euro un ruolo essenzialmente tecnico: la moneta, ad immagine e somiglianza del marco, deve solo garantire la stabilità economica interna dell'Unione; viceversa, per i francesi, essa è preminentemente uno strumento politico di grande valenza strategica, e come tale va utilizzato, ragione per cui il potere degli euro-banchieri va subordinato alle logiche delle politica, la sola in grado di svilupparne tutte le potenzialità.

Con simili premesse la complessità dello scenario è tale che qualsiasi sbocco diviene possibile anche se, a nostro parere, un dato comunque positivo va dato per acquisito: la realizzazione dell'unità monetaria polverizza di fatto un contesto economico planetario statico che resisteva fin dal '71 allorquando, gli Stati Uniti, denunciando gli "Accordi di Bretton Wood" stabiliti nel '44, imposero la non-convertibilità del dollaro e con essa la fine delle politiche economiche di ispirazione keynesiana, le quali avevano garantito una più equilibrata ripartizione della ricchezza tra le diverse classi sociali nei Paesi cosiddetti occidentali.

Le ragioni della svolta monetaria statunitense vanno ricercate nella necessità di attenuare i contraccolpi economici interni derivati dal disastroso epilogo della guerra imperialista condotta nel Sud-Est asiatico; ossia dalla necessità di attrarre risorse finanziarie che permettessero, oltreché la rapida riconversione di parte dell'industria militare, di tenere sotto controllo un debito pubblico di enormi dimensioni.

Quindi la svolta liberista, i ritmi della quale divennero impetuosi solo dopo l'implosione dell'Impero sovietico, rispondeva ad esigenze economiche precise e il risultato più evidente fu quello, a cavallo delle crisi petrolifere del '74-'79, di permettere al dollaro, svincolato dai lacci di una convertibilità politicamente imposta e internazionalmente garantita, di acquisire centralità monetaria (il cosiddetto «petrol-dollaro»), divenendo il perno attorno al quale era costretto a ruotare tutto il sistema finanziario mondiale, con gli intuibili vantaggi derivanti da questo posizionamento strategico anche per quello che concerne la sudditanza economico politico a cui sono stati costretti i Paesi del cosiddetto Terzo Mondo e in parte anche l'Europa occidentale.

Va rimarcato infatti che se l'opzione militare fu lo strumento precipuo della strategia imperialista statunitense nel corso degli Anni Cinquanta (Guerra di Corea), Sessanta e Settanta (Baia dei Porci, Vietnam, Cambogia e America Latina) e il dispositivo nucleare garantì il controllo dell'espansionismo ideologico-militare sovietico (la teoria della «risposta nucleare flessibile» anche nel caso di attacco convenzione da parte dell'Armata Rossa in Europa) non vi è alcun dubbio che negli Anni Ottanta e Novanta -pur non sottostimando l'aggressione all'Irak, il caso Somalia e l'intervento nei Balcani- vi è un evidente mutamento della politica di dominio imperialista.

All'interventismo militare si è via via sostituito il ricatto finanziario e lo strangolamento delle economie dei cosiddetti «Stati fuorilegge» (tali sono considerati dagli Stati Uniti, ad esempio, l'Iran, l'Irak e la Libia) con l'utilizzo di strumenti solo sulla carta sovranazionali: la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale e le diverse Agenzie dell'ONU; vere e proprie armi letali al servizio della Superpotenza. Basti qui considerare ciò che le politiche dei «prestiti» hanno determinato nei Paesi del Terzo Mondo: impoverimento generalizzato, indebitamenti folli, totale asservimento finanziario e politico, spoliazione di ogni residuo di sovranità nazionale con accorte politiche di contenimento dello sviluppo allo scopo di evitare a questi paesi, in specie quelli ricchi di materie prime, di giungere a qualsiasi autosufficienza alimentare.

D'altro canto c'è da rilevare che lo strumento militare oltreché rivelarsi non risolutivo (rispetto a popoli tradizionalmente combattivi come quelli indocinesi, arabi e balcanici) è fonte di infinite complicazioni politiche interne in una società democratica come quella statunitense (la «sindrome del Vietnam» ancora oggi è ben presente nell'immaginario collettivo dell'americano medio) non in condizioni di supportare uno sforzo bellico massiccio e prolungato, nel quale il numero dei caduti a stelle e strisce divenga significativo, senza contraccolpi sociali devastanti. In tale contesto la scelta delle èlites politico-finanziarie che gestiscono in regime di quasi monopolio il «potere duro» planetario (: gestione delle fonti energetiche, controllo fisico e satellitare del territorio, forza militare, gestione e controllo del sistema finanziario internazionale, capacità tecnologica) di privilegiare, tra le opzioni disponibili, quelle percepite come meno rischiose e dispendiose.

 

Una lezione alle «Tigri», affinché Cina e Giappone capiscano

Solo qualche anno fa, gli allarmi della stampa europee sugli effetti devastanti della concorrenza economica dei Paesi del Sud-Est asiatico erano quotidiani. Il cosiddetto «Asse del Pacifico» (: cioè il rapporto privilegiato tra economia USA ed economie emergenti asiatiche) era destinato nel medio-lungo periodo a sostituire l'«Asse atlantico», ossia quello intercorrente tra Stati Uniti ed Europa.

Economisti, opinionisti, leaders politici erano costantemente impegnati a magnificare le virtù proprie al sedicente «capitalismo confuciano»: informe impasto di anarco-capitalismo occidentale e feudalesimo autoctono. Corea, Formosa, Tailandia, Indonesia, Singapore rappresentavano, per il liberisti occidentali, il non plus ultra giacché coniugavano la più totale deregulation economico-finanziaria con una società civile fortemente gerarchizzata in cui i diritti dei lavoratori -e in generale di tutti i cittadini non appartenenti alle ristrette oligarchie industriali, politiche e militari- erano praticamente inesistenti o erano totalmente subordinate agli interessi delle grandi compagnie che monopolizzavano il potere.

La notevole espansione di queste economie negli Anni Ottanta e Novanta, con una crescita del PIL del 7-8% annuo, era la risultante di ricette che mescolavano abilmente elementi ideologico-produttivi estrapolati dalla lezione iper-liberista dei "Chicago Boys" (: rimozione di qualsiasi vincolo di solidarietà sociale, salari variabili, orari flessibili, libertà di licenziamento) all'intervento dello Stato il quale, attraverso continue e strumentali svalutazioni monetarie, consentiva alle imprese d'accrescere la loro competitività sul mercato internazionale allo stesso tempo riducendo, con l'erosione surrettizia dei salari, i costi di produzione.

Un'espansione economica in cui le contraddizioni erano evidenti se solo si fosse considerata la debolezza strutturale dei mercati interni, continuamente calmierati, nei quali la crescita della domanda di beni e servizi era eccessivamente lenta e rendeva la crescita economica confusa e selvaggia, ostaggio della speculazione borsistica, puntualmente verificatasi con contraccolpi sociali devastanti.

Una crisi attribuibile, come dicevamo, alla fragilità dei sistemi economici ed ai mercati borsistici gonfiati ben al di là del loro valore reale e quindi non in grado di resistere alle scorrerie degli speculatori occidentali. Ma, al contempo, non va sottovalutata e taciuta la valenza geopolitica di quanto accade in un'area del pianeta da sempre ritenuta vitale per gli interessi strategici della Superpotenza e gli effetti riflessi, ma tutt'altro che secondari, su Cina e Giappone, entrambe impegnate, con risultati, che a noi appaiono più che modesti, e mantenere sotto controllo la tempesta penetrata anche all'interno dei loro confini.

E se il compito del Gigante cinese, impegnato a sostenere il mercato di Hong Kong, è relativamente arduo per il Giappone (impegnato in una strenua resistenza alle imposizioni USA), i cui interessi nelle economie delle «Tigri» in crisi sono ben più consistenti, la situazione si è fatta drammatica. Il fermo divieto imposto dagli USA a qualsiasi intervento unilaterale di Tokio e la conseguente delega, in esclusiva, al Fondo Monetario Internazionale, ci fa ritenere che l'obiettivo strategico degli Stati Uniti sia quello di impedire un possibile consolidamento nell'area di un'entità economica-politica integrata che, saldando le Tigri all'Impero del Sol Levante, vada a costituire un solido nucleo (il riaffacciarsi della «sfere di co-prosperità asiatica») geograficamente e numericamente rilevante tale, anche in virtù della tradizionale flessibilità nipponica in politica estera, da attrarre e sé l'immenso mercato cinese che, come dimostra il recente «pellegrinaggio» di Clinton, è vitale per gli Stati Uniti impegnati a confermare il proprio ruolo di potenza egemone politico-finanziaria planetaria.

La clausola di «nazione favorita» -conferita alla Cina e confermata nonostante le «violazioni dei diritti umani» e le asserite forniture di tecnologia militare, anche nucleare, a Iran e Pakistan-, la fermezza di Clinton nel confermare il viaggio cinese (a dispetto di precise e pressanti indicazioni contrarie del Congresso) e nel presenziare, durante la visita al fu-Celeste Impero, ad una cerimonia in Piazza Tiennanmen (ove nel 1989 fu repressa, con l'utilizzo dei carri armati, una rivolta studentesca) è la giusta e logica, da un punto di vista degli interessi statunitensi, prosecuzione della tradizionale politica americana che, sin dai tempi del conflitto cino-giapponese in Manciuria, passando per la «politica del ping-pong», in funzione anti-sovietica, di Nixon e Kissinger, attribuisce alla Cina il ruolo di naturale contrappeso ad un ritorno di potenza giapponese e all'inevitabile riemergere, nel medio-lungo periodo della potenza «eurasiatica» russa nonché il naturale antagonista dell'India la cui volontà di «contare» è stata confermata dai recenti esperimenti nucleari.

 

Il mondialismo tra mito e realtà

In queste pagine è sempre stata stigmatizzata la vacuità di forme antagoniste alla cosiddetta «Globalizzazione» non sorrette da una progettualità alternativa strettamente connessa ai reali e complessi problemi posti dalla modernità. La mitizzazione del mondialismo è giunta a livelli parossistici e non già sulla base di concrete analisi della realtà fattuale ma in virtù di criticabili e del tutto soggettivi assemblaggi ideologici, deambulanti tra metapolitica e fantasticherie, la cui risultante è una sorta di complotto attraverso il quali un presunto «Re del Mondo» o un'altrettanto irreale «congrega di fanatici» intende giungere al dominio dell'orbe terracqueo.

Per quanto ci riguarda siamo pervenuti alla conclusione che l'attuale spinta alla globalizzazione dei mercati altro non sia che uno dei mezzi dell'imperialismo di procrastinare nel tempo la sua posizione di supremazia. Spacciare l'attuale tentativo di integrazione economico-ideologica planetaria come una novità assoluta nella storia dell'umanità è infatti una colossale falsificazione. Non sono pochi e isolati gli storici che sostengono, dati alla mano, che la fase di massima integrazione politico-ideologico-finanziaria del pianeta non sia quella che noi stiamo attraversando giacché nei primi decenni dell'attuale secolo «il mondo era un'entità politica coesa come mai prima e dopo nella storia dell'uomo». Gli Stati europei, all'apice della loro potenza coloniale, controllavano oltre l'84% dell'intera superficie terrestre; spazio destinato a dilatarsi ulteriormente nei primi anni '20 a seguito della spartizione dell'Impero ottomano. (1)

In quegli anni la sola Gran Bretagna esercitava la sua rapace sovranità diretta su 26,4 milioni di chilometri quadrati di territorio e su 390 milioni di sudditi e sia gli investimenti internazionali che gli scambi commerciali ammontavano a cifre percentuali addirittura superiori a quelle attuali. Tutto ciò non determinò nessuna definitiva integrazione ideologica tra i popoli e le lotte di liberazione nazionale, dalle quali scaturirono decine di entità statuali, furono condotte nell'esaltazione delle differenze etniche, culturali, sociali e religiose. Né si può obiettare che l'Impero inglese -e in genere tutti gli imperi europei- non avesse caratteristiche «globali» e non fosse determinato ad intervenire a difesa dei propri interessi economici laddove questi venivano in qualche misura minacciati. La Guerra dell'oppio fu provocata dal rifiuto dell'Impero cinese di consentire il libero commercio della droga -del quale gli inglesi detenevano il monopolio- nei loro territori e la sanguinosa espansione delle varie compagnie commerciali britanniche, olandesi e francesi è sin troppo nota.

Un mondo culturalmente uniforme ed economicamente integrato appartiene alla fervida fantasia di qualche circolo occidentale o all'immaginazione di alcuni Don Chisciotte alla perenne ricerca di mulini contro i quali combattere. Ciò non significa certo che non esistano forze economiche, religiose e ideologiche i cui interessi collimano e per le quali il mito universalista, in tutte le sue possibili sfaccettature, non rappresenti «il fine», ma esse non coinvolgono che un'aliquota trascurabile di individui il cui pur consistente potere non è tale -e mai lo sarà!- da imporre una direzione obbligata al cammino del genere umano. Solo per citare qualche esempio: si parla tanto della cosiddetta «cultura di Davos» (dal nome della cittadina svizzera che ospita annualmente il Foro Mondiale dell'Economia) come uno dei momenti «provanti» l'esistenza del «complotto mondialista». Ma cos'è nella realtà la riunione annuale che si tiene a Davos? Chi sono coloro che vi partecipano? Perché i fautori del sedicente complotto mondialista si ostinano ad omettere nei loro parziali e manichei resoconti la partecipazione di membri autorevoli di governi come quello iraniano, libico, iracheno, cubano, sudanese e indiano, senz'altro poco propensi ad avvallare una globalizzazione che non tenga conto delle loro peculiarità culturali, ideologiche e religiose e non mostri di tenere nella giusta considerazione i loro interessi nazionali.

Rifugiarsi nell'ipotesi complottista è un modo per non fare i conti con la realtà. Con la complessità di una fase storica in cui la velocizzazione tecnologica ci pone di fronte a scenari in continua costante mutazione. Ma certo non basta, come ha impudentemente sostenuto Francis Fukuyama (2), l'uniformità nel vestire, nel mangiare, nel divertirsi e nell'informare del cosiddetto Villaggio Globale per obliterare le diverse pulsioni ideologiche, culturali, etniche e religiose tra le diverse civiltà esistenti.

A questo proposito vi è da considerare che mentre la pulsione identitaria occidentale tende a regredire nell'angusto terreno dei particolarismi geografici e degli egoismi economici, in vaste aree del pianeta, specie asiatiche ed islamiche, i radicalismi religiosi, etnici e culturali tendono a polarizzarsi in fronti compatti. Fronti nei quali le peculiarità etniche, gli interessi geopolitici e geo-economici degli Stati nazionali vanno saldandosi in entità culturali, ideologiche e religiose sovranazionali a quelle sub-nazionali delle patrie e delle identità negate (Curdi, Tamil, Palestinesi).

La Nazione, nonostante i molti aspiranti becchini, continua ad essere il centro motore della politica mondiale. Un ruolo destinato ad ulteriormente esaltarsi giacché solo la Nazione è in grado di suscitare le emozioni politiche necessarie a contrastare la protervia delle compagini economiche multinazionali ed evitare l'assoggettamento dei popoli alle politiche di sfruttamento e profitto.

Se l'uniformizzazione planetaria al libero mercato è, a detta del Fukuyama, un dato acquisito giacché l'attrazione esercitata dalla diffusione dei consumi e dei messaggi culturali occidentali diviene irresistibile e i «fenomeni di nazionalismo risorgenti, il risveglio religioso dei Paesi dell'Islam, la dialettica Nord-Sud (...) sono fenomeni che riguardano popoli e religioni impantanati nella storia (...) non in grado di contribuire all'evoluzione ideologica del mondo (...) per i nostri interessi importa veramente poco se idee bizzarre attraversano le menti e lo spirito degli abitanti dell'Albania e del Burkina Faso giacché siamo interessati unicamente all'eredità comune dell'umanità», non vanno sottovalutate o minimizzate le diversità culturali, ideologiche, culturali e persino economiche esistenti tra i diversi soggetti statuali che concorrono a formare il cosiddetto Occidente.

Sta di fatto che non sono né pochi né marginali quanti, economisti, politici, storici e politologi, sostengono apertamente, e con dovizia d'argomenti, l'estraneità degli stessi Stati Uniti alla civiltà Occidentale. (3)

Una tesi tutt'altro che peregrina, almeno per quanto riguarda l'Europa continentale (altro discorso va ovviamente fatto sulla continguità culturale intercorrente tra USA e Inghilterra), in quanto che essa ha subito, e mai del tutto accettato -basti pensare all'insofferenza francese- la costante ingerenza americana e l'ininterrotto afflusso di paccottiglie socio-culturali, ma rimane ben lontana dall'aver interiorizzato e assolutizzato il cosmopolitismo messianico, substrato indispensabile delle genti d'Oltreoceano e supporto indispensabile, come asseriscono gli esegeti della «fine della storia», del Nuovo Ordine Mondiale vagheggiato e suo tempo da George Bush e della Globalizzazione clintoniana.

Non a caso il crollo del Muro di Berlino ha acuito le tensioni tra le due sponde dell'Atlantico. Tensioni significative non solo sul versante economico ma anche su quello geopolitico di cui i primi incerti, timidi passi, che hanno prodotto la parziale rimozione del blocco economico imperialista a Cuba, sono un lampante segnale. Permane una sudditanza geostrategica da cui l'Europa non può affrancarsi senza l'univocità in politica estera e l'integrazione militare. Ma la nozione di «Occidente» è destinata nel Terzo Millennio ad essere radicalmente aggiornata.

 

Un ruolo per la Sinistra

La riflessione «revisionista» sui rapporti Europa -Stati Uniti è comunque destinata nel breve-medio periodo a ritagliarsi ampi spazi di dibattito anche all'interno degli apparati mass mediali inquinati dall'atlantismo più acritico e servile. L'evento dell'Euro, pur con tutti i limiti imposti da una visione economicista e tecnocratica destinata comunque ad essere superata, cambia la storia monetaria del mondo e i rapporti di potenza. Il tentativo statunitense di controbilanciare la nascente potenza europea privilegiando il rapporto con la Cina è comunque destinato al fallimento. L'Euro ha una forza d'attrazione per cui spodesterà il dollaro dalla posizione di rendita della quale gode. Il dollaro non sarà più l'unica moneta di riserva né sarà più valuta leader delle transazioni internazionali. Una forza d'attrazione della quale anche le due potenze asiatiche dovranno in qualche misura tenere conto. Ma una civiltà non si caratterizza solo per la capacità produttiva e per il ruolo di potenza che è capace di ritagliarsi e interpretare. Una Civiltà si caratterizza soprattutto per le sue peculiarità sociali, per il livello di giustizia, partecipazione e coinvolgimento che è in grado di determinare tra le sue componenti umane che, ben di più della fredda moneta, ne costituiscono l'anima.

Sotto quest'aspetto la latitanza della Sinistra ha qualcosa di spaventoso. E non ci riferiamo solo alla giravolte thatcheriane di Tony Blair o a quelle clintoniane di Walter Veltroni, ma è tutta la Sinistra, con parziale eccezioni in quella francese, ad evidenziare limiti incredibili di strategia nonostante il suo non trascurabile peso all'interno dei singoli governi e delle stesse istituzioni europee.

La conversione pro-NATO di gran parte dei leaders e l'acritica acquiescenza ad allargare ad Est un'alleanza le cui ragioni storiche, se mai le ha avute, sono state spazzate via dal crollo della Cortina di ferro contestualmente a quell'anticomunismo strumentale che è stato, in passato e ancora oggi -basti pensare a Silvio Berlusconi e alla sua tardiva e strumentale riproposizione dei crimini comunisti-, la foglia di fico dietro la quale l'imperialismo capitalista occulta le sue altrettanto inconfessabili nefandezze.

Queste semplici verità non vengono recepite da una Sinistra sorda, procliva al piccolo cabotaggio, compromessa col nemico di classe dai tatticismi esasperati di chi si accontenta di salvaguardare la rendita di posizioni acquisite con ben altre e ben più nobili motivazioni. Una Sinistra comunque al momento incapace di riannodare, dopo il devastante fallimento del marxismo, i fili della propria storia nella quale sono senz'altro rintracciabili le ragioni per motivare e riprendere con vigore la lotta per la Classe e per la Nazione.

 

Luigi Costa

 

Note:

1) Samuel P. Huntington, "Lo scontro delle Civiltà e il nuovo ordine mondiale", Garzanti 1997:

2) Francis Fukuyama, "La fine della Storia e l'ultimo uomo", Rizzoli 1992;

3) Gabriele Ciampi, "America versus Occidente", Limes n° 21.

 

(la seconda parte prossimamente)

 

 

Indice n° 49 articolo successivo