da "AURORA" n° 50 (Luglio - Agosto 1998)

L'INTERVENTO

 

Cittadinanza e diritti umani

Anna Moricca

 

Tutti i diritti fondamentali, con la sola eccezione dei diritti politici, furono proclamati dalla "Dichiarazione francese" dell'89 e poi dalle successive carte costituzionali, come diritti «universali», accordati a tutti in quanto persone e non in quanto cittadini.

È indubbio che simili proclamazioni avevano un valore marcatamente ideologico.

All'epoca della Rivoluzione francese e poi per tutto il secolo scorso, fino a quando scriveva T. H. Marshall, «persona» e «cittadino» di fatto si identificavano.

I rivoluzionari dell'89, quando parlavano di hommes pensavano evidentemente ai citoyen francesi e declamavano i diritti fondamentali come «droits de l'homme» anziché come «droits du citoyen» per conferire ad essi, a parole, una più solenne universalità.

E potevano farlo senza alcun costo non essendo verosimile né prevedibile che gli uomini e le donne del Terzo Mondo potessero arrivare in Europa e chiedere che le loro proclamazioni di principio fossero prese in parola. Nella crisi degli Stati e delle comunità nazionali che caratterizza questa fine di secolo, con i fenomeni connessi alle immigrazioni di massa, ai conflitti etnici e al divario crescente fra Nord e Sud, si deve riconoscere che la cittadinanza non è poi, come all'origine dello Stato moderno, un fattore di inclusione e di uguaglianza. Oggi, al contrario, si deve ammettere che la cittadinanza dei nostri ricchi paesi rappresenta l'ultimo privilegio di status, l'ultimo fattore di esclusione e discriminazione, ultimo relitto pre-moderno delle disuguaglianze personali in contrasto con la conclamata universalità e uguaglianza dei diritti fondamentali. E che essa contraddice non solo l'universalismo di tali diritti quali sono garantiti dalle Costituzioni statali, ma anche quello dei medesimi diritti quali sono stati sanciti, divenendo diritto internazionale vigente recepito dal diritto interno degli Stati aderenti, dalla "Dichiarazione dei diritti dell'uomo" del 10 dicembre '48 e dai due Patti sui diritti umani -civili, politici, economici, sociali e culturali- del 16 dicembre '66.

Prendere sul serio questi diritti vuol dire allora avere oggi il coraggio di disancorarli dalla cittadinanza in quanto «appartenenza» (ad una determinata comunità statale) e quindi dalla statualità.

E disancorarli dalla cittadinanza significa riconoscerne il carattere sovrastatale -nel duplice senso delle loro due garanzie, costituzionale ed internazionale- e quindi tutelarli non solo dentro ma anche fuori contro gli Stati, ponendo fine a questa grande apartheid che esclude dal loro godimento la grande maggioranza del genere umano in contrasto con il loro conclamato universalismo. Significa in concreto, trasformare i diritti della persona in due soli diritti di libertà oggi riservati ai cittadini: il diritto di residenza e il diritto di circolazione nei nostri privilegiati paesi. È ben vero che il problema della povertà dei paesi arretrati del Sud del mondo si risolve non tanto aprendo le frontiere, ma risolvendo in quegli stessi paesi i problemi dello sviluppo. Ma è altrettanto certo che l'Occidente non affronterà mai seriamente questi problemi se non li sentirà come propri. E non li sentirà mai come propri se non si sentirà, minacciato direttamente dalla pressione demografica che da questi paesi proviene e se non dovrà fronteggiare, dopo aver invaso prima con le sue rapine e poi con le sue promesse il mondo intero, l'invasione delle popolazioni affamate che oggi premono alle sue frontiere.

I diritti fondamentali, come la storia insegna, non cadono mai dall'alto, ma si affermano solo allorquando si fa irresistibile la pressione di chi ne è escluso alle porte di chi ne è incluso.

Ciò vuol dire ammettere, realisticamente, che non esiste, nei tempi lunghi, altra alternativa alle guerre e al terrorismo che non sia la loro effettiva universalizzazione, essendo sempre più attuale e ineludibile il nesso fra diritti fondamentali e la pace affermato nel preambolo della "Dichiarazione universale" del '48; e che dunque la pressione degli esclusi sul nostro mondo privilegiato non assumerà la forma della violenza incontrollata, solo se saremo costretti a rimuovere le cause del venir meno della cittadinanza quale status privilegiato e della garanzia a tutti dei medesimi diritti, incluse la libertà di residenza e di circolazione.

Oggi la nostra cultura ha dimenticato le luminose origini dell'illuminismo giuridico e dei diritti universali. Quei diritti -peregrinandi, migrandi, degendi- furono proclamati come astrattamente uguali ed universali allorché erano concretamente disuguali e asimmetrici, essendo impensabile la migrazione degli Indios in Occidente, e servivano a legittimare l'occupazione coloniale e la guerra di conquista dei nuovi mondi da parte dei nostri nascenti Stati nazionali. Oggi la reciprocità e l'universalità di quei diritti è stata negata. Questi diritti si sono tramutati in diritti di cittadinanza esclusivi e privilegiati, non appena si è trattato di prenderli sul serio e di pagarne il costo.

Per questo sulla loro effettiva universalizzazione si gioca nel prossimo futuro la credibilità dei valori dell'Occidente: dell'uguaglianza, dei diritti della persona, della stessa cittadinanza.

Probabilmente una simile prospettiva di universalizzazione ha oggi il sapore di un'utopia giuridica. Ma la storia del diritto è anche una storia di utopie (bene o male) realizzate!

Anna Moricca

 

 

articolo precedente Indice n° 50 articolo successivo