da "AURORA" n° 50 (Luglio - Agosto 1998)

QUESTIONI DELLA SINISTRA

 

Violante-Magris:

un ponte fra le due Italie della guerra civile

(parte terza)

Enrico Landolfi

 

 

Terza puntata del nostro saggio su "Dialogo tra Luciano Violante e Claudio Magris - Un nuovo 25 aprile per costruire la patria comune" pubblicato in primavera su "Il Corriere della Sera" a cura di Paolo Conti.

Ecco un brano del sen. Magris dedicato a impegnative e interessanti dichiarazioni sui temi della Liberazione e della Resistenza, meritevoli di considerazioni anche distaccatamente e costruttivamente critiche. I concetti raccolti nelle affermazioni magrisiane sono da analizzare, pur nella loro ovvia connessione, uti singoli, ai fini, si capisce, della precisione, della chiarezza della possibilità stessa dell'analisi.

Le parole di avvio dell'autorevole studioso sono queste: «A proposito di Resistenza. Tre o quattro anni fa sembrava la si volesse buttare a mare; sembrava, anche per reazione alla retorica con cui veniva "amministrato" un mito finito».

Secondo noi, il fenomeno disaffettivo verso l'evento resistenziale e le sue conseguenze, verso la memoria storica ad esso collegata, solo in parte è spiegabile con il surplus di retorica che, di certo, ha pervaso tutto il discorso relativo alla Resistenza a tutti i livelli: pubblicistico, storiografico, oratorio, celebrazionistico-ufficiale. Pensiamo cioè che, accanto a tale fattore, abbia operato, e in modo ben più incisivo e pure devastante quello che, a nostro sommesso parere, fu e resta il limite grave della gestione che dei contenuti e dei risultati della lotta partigiana si ritenne di dover fare in sede etica, ideologica, politica, storica dal 25 aprile '45 in poi.

Fosse dipeso da noi, non sarebbero successe le seguenti cose:

1) Non avremmo fatto agli angloamericani e ai ceti conservatori, ai partiti moderati, al capitalismo non solo italiano, tutti a essi collegati, il segnalato favore di mettere a morte, per di più indiscriminatamente, il più gran numero di erresseisti possibile per consentirgli di scatenare contro le Sinistre -ossia la vera spinta propulsiva del movimento partigiano, il cuore del ribellismo antifascista, la stragrande maggioranza del resistenzialismo attivo e operante- l'odio implacabile non soltanto di congiunti e sodali delle migliaia di soldati, militi e m'arò della RSI ma anche delle masse benpensanti alieni dall'odio e dal sangue. A ben vedere, egregio prof. Magris, il 25 aprile '45 fu il capolavoro della borghesia italiana e della sua direzione politica internazionale; il logico avvio del processo di incubazione di due date nefaste per la Sinistra: la loro cacciata dal governo nei mesi d'avvio del '47, la loro definitiva disfatta con relativa maggioranza assoluta della Democrazia Cristiana nell'aprile del '48.

Non sappiamo se De Gasperi, Truman, Churchill, Scelba, Gedda e compagnia cantante abbiano sentito il bisogno, il dovere, di porgere i più sentiti ringraziamenti ai vari «giustizieri» del Nord, intendendo per tali gente ben più importante dei vari Audisio, Lampredi, Moretti, Bellini delle Stelle, Lazzari e via discorrendo, puri esecutori di direttive politicamente errate e devastanti, ammesso che siano stati davvero loro a mettere in moto la macchina del terrore. Se non l'hanno fatto il minimo che si può dire è che erano dei maleducati. Il massimo di cui li si può accusare è di essere stati degli ingrati. Perché il vero padre della travolgente, trionfale, irreversibile avanzata democristiana-confindustriale/americana del 18 aprile '48 non è Alcide De Gasperi, bensì Pietro Secchia, non a caso oppugnatore anche presso Stalin della linea più moderata e responsabile di Togliatti.

2) Non avremmo demonizzato i cosiddetti «repubblichini», gente non della Sinistra ma di sinistra, andata volontariamente o meno alle armi sotto le insegne della Repubblica Sociale Italiana non soltanto perché traumatizzata da un armistizio di incredibile bassezza morale e politica, vera e propria resa incondizionata con aspetti punitivi, vendicativi, umilianti anche sotto il profilo formate e gestionale. L'ulteriore motivazione che condizionava l'applicazione sulle mostrine della divisa del Gladio al posto della Stelletta era la rivoluzione sociale sintetizzata nel motto ufficiale «Italia - Repubblica - Socializzazione». Si trattava, dunque, di patrioti nazionalpopolari, repubblicani, rivoluzionari, socializzatori, in perpetua lite con i tedeschi odiatori di tale programma non meno dei capitalisti anche in quelle parti che prevedevano la convocazione appena possibile della Costituente per dare alla Repubblica le sue tavole fondative, la fine della guerra con l'Unione Sovietica, un Ordine Nuovo Europeo che capovolgeva l'interpretazione datane dal Terzo Reich nel concreto di pesantissime occupazioni militari di netto taglio imperialista.

 

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Gentilissimo sen. Magris, andiamo forse oltre il segno, facciamo delle provocazioni, spaziamo nel blu dipinto di blu di modugniana memoria se affermiamo che gli odiatissimi erresseisti -così i comunisti chiamavano i «repubblichini» in una fase dialogica che verso la fine degli Anni Quaranta ebbe a caratterizzare una vera instaurazione di rapporti- erano, stringi stringi, i naturali interlocutori, o addirittura alleati, della Resistenza? Che forse non c'era una persuasiva «parentela» fra i decreti dell'aprile '44 instaurativi della Socializzazione delle Imprese emanati dal governo della Repubblica Sociale Italiana e quelli del governo Parri creativi dei Consigli di Gestione? I primi messi in non cale dal Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia nella non invidiabile compagnia delle autorità angloamericane; i secondi spazzati via dalla restaurazione capitalistica operata dal centrismo degasperiano con la partecipazione straordinaria del prof. Vittorio Valletta, capintesta della FIAT, e, soprattutto, degli esponenti civili e militari degli stati capitalistici che avevano sostituito la occupazione tedesca con quelle inglese e americana con relativo codazzo di truppe di stati e staterelli satelliti. Che forse la RSI non aveva inserito nel suo scadenzario politico-istituzionale, la convocazione di una Costituente anche più «avanzata» di quella che sarà convocata nel '46 dagli antifascisti per la fondazione dell'attuale Repubblica perché pluralisticamente fondata non solo su tutti indistintamente i partiti che avessero richiesto di parteciparvi ma anche sulla presenza di delegazioni di soldati di operai e di contadini, sulla falsariga dei primissimi Soviet autonomistici e libertari dei tempi inaugurali della rivoluzione russa?

Indoviniamo, On. Magris, la sua replica, ammesso che vorrà farci l'onore di confrontarsi con le idee che rispettosamente sottoponiamo a Lei e al Presidente Violante e di farsi vivo con noi, Ella, riteniamo, di certo penserà che tutte queste belle cose Mussolini le offriva troppo tardi, in articulo mortis e quindi non era credibile dopo un ventennio di collusione con il capitalismo. Di più: la guerra civile aveva scavato un tale fossato di odio e di sangue fra le parti in contesa -le due «minoranze», ricordiamo, di cui parla Romolo Gobbi ne "Il mito della Resistenza"- da rendere astratta, impossibile, inagibile, qualunque ipotesi sinergica atta a coinvolgere in un comune disegno rivoluzionario o comechessia riformatore quelli di Salò e gli uomini della macchia.

Per ciò che attiene alla prima, supposta obiezione, facciamo presente che Mussolini era credibile proprio perché nel Ventennio aveva, bon gré, mal gré tarpato le ali alla rivoluzione e, dunque, specie dopo le sconfitte militari e politiche patite, non aveva altra via per consegnarsi alla Storia che quella di profittare della eccezionalità e anche della confusione dei tempi per tornare agli ideali della giovinezza mettendo le sue indubbie qualità personali al servizio della costruzione di un nuovo assetto sociale nel quale risaltasse l'egemonia delle classi lavoratrici.

Per quanto viceversa concerne la seconda, ancor più prevedibile contestazione, non può esserci altra osservazione che questa: una grande forza politica, egemonica, del movimento operaio -quale indiscutibilmente risultava dalla sommatoria del PCI, del PSIUP, della componente socialista del Partito d'Azione (Lombardi, Codignola, Lussu, Vittorelli, Banfi, Anderlini, etc.)- non aveva il diritto di lasciarsi dominare da istinti reattivi, da impulsi moralistici, da comportamenti irrazionali, da spirito di rivalsa. Avrebbe, invece, dovuto analizzare -magari anche marxisticamente- le realtà umane, culturali attive, disponibili offerte dalla situazione dell'immediato dopoguerra, gestirle, indirizzarle, organizzarle indipendentemente dalla scaduta militanza nei precedenti schieramenti e collocarle nel quadro di una strategia atta a realizzare, magari nella prospettiva, un rapporto di forza suscettibile di pervenire a una riforma del costume, a un rinnovamento sociale in profondità. Insomma, si trattava di esercitare, al più alto e nobile livello politico, un ruolo di guida delle masse popolari pilotandole oltre la siepe dello scontro fascismo-antifascismo -anche perché la RSI era stata una realtà che aveva tracimato il perimetro del fascismo inteso sic et simpliciter proiettandosi ben oltre lo spirito di partito- onde aggregare una concentrazione di forze strettamente collegate ma autonome, caratterizzatissime nella identità, nella tradizione, nella propulsione programmatica.

 

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Sappiamo benissimo che nell'area complessiva dell'antifascismo ci furono apprezzabili iniziative volte alla distensione e alla pacificazione: amnistie come quella promossa da Togliatti, la normalizzazione psicologica e politica a livello militare voluta da Randolfo Pacciardi quando assunse la titolarità del Ministero della Difesa, la restituzione della salma di Mussolini alla famiglia da parte del Presidente dei Consiglio Adone Zoli, la rivista "Il Pensiero Nazionale" di Stanis Ruinas come strumento di dialogo fra «fascisti di sinistra» e PCI etc. etc.. Tutte cose giuste, utili; e tuttavia prive di grande respiro culturale e storico, Onorevole Senatore Magris, perché costrette da una imperante concezione dell'antifascismo moralistica, angusta, restrittiva, infeconda entro i vincoli dell'umanitarismo e del perdonismo («erano giovani, non si rendevano conto di ciò che facevano», «sono stati ingannati da una cricca di traditori al servizio dei tedeschi», «erano deviati dal retto sentire da una educazione al limite della criminalità», «è stata colpa della dittatura» etc. etc.). Tutto considerato, la linea risultante dal dialogo inter eos er erga omnes, pur con sviluppi positivi e interessanti, non fuoriesce da questo perimetro «recuperativo», che si evidenzia anche con qualche nequizia e alcune illogicità.

Nequizie. Le tombe sono di Serie A quando accolgono le spoglie del partigiano, del «resistente», di chi indossava l'uniforme dell'esercito del Regno dei Sud. Sono di serie B se le ossa ivi collocate appartengono a un m'arò della Decima MAS, a un legionario della Guardia Nazionale Repubblicana, a un milite delle Brigate Nere, a un soldato o a un ufficiale dell'Esercito della RSI.

Illogicità. Si dice della nostra Repubblica che è nata dall'antifascismo ed ha le sue radici nella Resistenza. Ci perdonino il Presidente Violante e il prof. Magris, ma se così fosse da essa sarebbero storicamente fuori, a oltre mezzo secolo dalla instaurazione, tutti gli italiani che non soltanto nei seicento giorni della RSI ma lungo l'arco del Ventennio stavano unanimamente (i defeliciani «Anni del consenso») oppure in notevole misura col Duce. Orbene, perché essere così riduttivi nella formulazione o nell'analisi delle basi di una democrazia che tanto più rappresentativa è tanto più forte si appalesa? Non sarebbe meglio affermare apertis verbis, urbi et orbi che la nostra Repubblica appartiene a tutti gli italiani; comunque si siano schierati nel Ventennio e nella stramaledetta guerra civile, comunque abbiano votato nel referendum istituzionale del 2 giugno '46; comunque i loro rappresentanti si siano comportati durante i lavori della Costituente? E non sarebbe supremamente onesto ricordarsi, e ricordare, che la Repubblica superò la Monarchia solo per una breve incollatura, e che se avessero votato anche gli abitanti delle terre sequestrate dalle truppe titoiste, nonché le file di prigionieri ammassate nei campi di concentramento delle potenze vincitrici il risultato delle urne avrebbe potuto essere diverso? Inoltre, perché dimenticare che un contributo alla soluzione repubblicana venne anche dal fascismo postbellico segretamente organizzato, in conseguenza degli accordi stretti dagli esponenti dei partiti di destra con il vice segretario del Partito Socialista Repubblicano, Pino Romualdi, con il colonnello della GNR Jean Pollin ed altri gerarchi, per il voto contro i Savoia in cambio dell'amnistia? Infine, inoltre: come dimenticare la contraddizione insita nella formula «Repubblica nata dalla Resistenza» quando una rilevante quota del movimento partigiano è stata di netto orientamento sabaudo (gli «autonomi», ossia i Fazzoletti Azzurri del comandante Martini Mauri) e ha potuto vantarsi della presenza nelle sue file di un personaggio come Edgardo Sogno dal quale, politicamente parlando, ci dividono trilioni di anni luce ma di cui non possiamo ignorare che trattasi di una Medaglia d'Oro dall'eccezionale coraggio (veniva chiamato la «Primula rossa della Resistenza»), di un diplomatico di razza, di uno scrittore di polso? Di più: anche alle Fosse Ardeatine riposano le ceneri di due eponimi del filone monarchico, valorosissimi e decorati ufficiali di stato maggiore, discendenti da magnanimi lombi: il De Grenet e il Cordero di Montezemolo.

 

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Come uscire, Illustri Signori, dalle strettoie della «comprensione per i ragazzi che andarono a Salò» -affermazione, certo, da considerare, per la sua importanza e per l'autorevolezza e la ufficialità della sede in cui è stata espressa, una risorsa-, e così fare un ulteriore balzo in avanti verso quella che consideriamo una vera e propria rivoluzione nazionale e sociale?

Noi abbiamo in mente una proposta che a più di uno potrebbe apparire addirittura «folle» e probabilmente -in senso buono, s'intende- lo è. Noi pensiamo a una contaminatio, anzitutto psicologica storiografica ideologica e, quindi, politica, fra due aree culturali. Contaminazione destinata, progressivamente, a farsi integrazione; e, dunque, superamento non della sostanza di ciò che sono state e, magari, continuano a essere, bensì delle loro antiteticità, del vicendevolmente negarsi, della irrimediabile conflittualità. Non della essenza di ambedue, si diceva, giacché vengono in evidenza, ove viste senza gli occhiali deformanti della fazione storiografica e teorica, come risorsa forte e persuasiva. In altri termini, si tratterebbe di sostituire l'aut aut con l'et et.

Le aree culturali da unificare più che da unire, da sottoporre insomma, a un intelligente, accorto, graduale processo di reductio ad unum le descriviamo rapidamente, in poche battute, salvo spiegazioni estensive e approfondimenti congrui in altra occasione.

Anzitutto quella dei vinti. Noi facciamo riferimento a ciò che usiamo chiamare la componente creativa, ossia nazionale-popolare, socializzatrice, rivoluzionaria, pacificatrice, autogestionaria, libertaria della Repubblica Sociale Italiana. I nomi? Ci limitiamo ad alcuni. Giorgio Pini, Bruno Spampanato, Giuseppe Spinelli, Manlio Sargenti, Ugo Manunta, Luigi Fontanelli, Alberto Giovannini, Giuseppe Micheli, Stanis Ruinas, Olo Nunzi, Angelo Tarchi, Carlo Borsani, Carlo Alberto Biggini, Domenico Pellegrini Giampietro. Detta corrente, gioverà ricordare, non nasce come un fungo nell'autunno del '43, ma è storicamente filiata da quello che il De Felice chiama «fascismo movimento» contrapposto, forse in maniera un po' schematica, al «fascismo istituzione». Nella costellazione di pensatori, politici e sindacalisti del primo brillano stelle di eccezionale grandezza quali Berto Ricci, Amilcare De Ambris (stimatissimo da Giuseppe Di Vittorio), Ugo Spirito, Giuseppe Bottai, Giuseppe Landi, Edmondo Rossoni, Tullio Cianetti. Citiamo alla rinfusa come prima, ma, fior da fiore, piace a noi rammemorare di costoro l'anticapitalismo e il "Manifesto realista" di Berto Ricci e dei suoi collaboratori de "L'Universale", l'antigerarchismo di Guido Pallotta e dei suoi redattori di "Ventanni", la "corporazione proprietaria" di Ugo Spirito, il "corporativismo libertario e riformatore" di Bottai, l'antifranchismo, la solidarietà amicale e gli scambi culturali con il sindacalismo anarchico spagnolo della FAI del Cianetti presidente dei sindacati operai del Regime. Del gerarca di Assisi ci interessa ricordare pure i rapporti intersindacali e anche interpolitici con personalità delle correnti di sinistra del socialismo francese e del laburismo britannico. Ma, a nostro avviso, Tullio Cianetti raggiunse l'acme della sua autenticissima passione rivoluzionaria allorché nella primavera del '43, nominato ministro delle Corporazioni, riuscì a coinvolgere in un progetto di socializzazione delle grandi imprese dell'economia nazionale un Mussolini inizialmente perplesso non sulla sostanza ma sui tempi dell'operazione. Non è affatto da scartare l'ipotesi che le forze più di destra del regime, messe sull'avviso dal ministro della Giustizia, nazionalista e monarchico, abbiano fornito al re un motivo in più per affrettare la caduta di Mussolini.

 

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Ed ecco quella dei vincitori. L'ideologia nazionale-popolare di Antonio Gramsci e la relativa «via italiana al socialismo», la «democrazia progressiva» del gruppo dirigente comunista libertario del gruppo dirigente comunista del dopoguerra, il movimento per i «Consigli di Gestione» di Riccardo Lombardi, il presidenzialismo autonomistico e libertario di Piero Calamandrei, il «Vento del Nord» e lo spirito dell'unità operaia di Pietro Nenni prima dei fondamentali saggi antistalinisti del '56 sulle "Luci e ombre del XX Congresso del Partito Comunista della Unione Sovietica", la "Rivoluzione Liberale" di Piero Gobetti, il "Socialismo Liberale" di Carlo Rosselli, il "Liberal Socialismo" del laico Guido Calogero e del cattolico Aldo Capitini, la «socialdemocrazia fondata sull'etica cristiana» di Giuseppe Saragat, la democrazia rivoluzionaria ampiamente innervata sulle masse contadine e il sardismo di sinistra di Emilio Lussu, il mazzinianesimo puro di Randolfo Pacciardi, il cristianesimo integrale della sinistra sociale democristiana di Giuseppe Dossetti e di Giorgio La Pira, il liberal comunismo di Giorgio Amendola, l'occidentalismo critico di Paolo Vittorelli, le ricerche e gli approfondimenti sul mazzinianesimo e sul bakuninismo nel Risorgimento di Nello Rosselli, la teoria della contestazione dell'ordinamento capitalistico sui due livelli della società civile e delle istituzioni elaborata da Tristano Codignola, la linea della politica di piano e delle riforme di struttura ideata da Ugo La Malfa.

Va da sé che, riguardo sia gli uni che gli altri, stiamo citando alla rinfusa. E con ogni probabilità l'elencazione è tutt'altro che completa. Oltre che astratta, potrebbero aggiungere gli obiettori (di coscienza?) -sicuramente molti, tanti, troppi- alla nostra proposta. Forse inattuabile, addirittura respinta al mittente in men che non si dica. Ma noi teniamo duro, reputando non necessariamente sdoganato verso il futuro ciò che è oggi prevalente a livello psicologico.

Vogliamo dircela la verità senza infingimento alcuno, Illustre Signor Presidente della Camera dei Deputati, Illustre Professor Claudio Magris? Sui due fronti dello scontro fratricida si batterono -ed è, questo, un discorso che concerne, ovviamente, i combattenti, non gli assassini, i malfattori, i denunciatori, i paranoici- con grande valore e coraggio gli Italiani allorché la Nazione ebbe a spaccarsi in conseguenza più del modo e dei contenuti dell'armistizio, della resa incondizionata, della durezza e del disprezzo dei vincitori, del comportamento infame e ridicolo al tempo stesso del governo italiano, che dell'armistizio in sé. Ciò che di essi ancora resta -e, soprattutto, i discendenti, se ne accettano l'eredità spirituale- deve convincersi che quel coraggio, per quanto grande e manifestatosi anche, mai lo si dimentichi, nei confronti di tutti indistintamente gli stranieri che in Italia ritenevano di fare il bello e il cattivo tempo, non è sufficiente, completo, adeguato. Perché? Perché manca totalmente il coraggio più difficile da mettere in pratica, ma al contempo più grande se questo nemico è nato in Italia, parla italiano, vota in Italia, porta un nome italiano, è consapevole della importanza di essere italiano, ne è orgoglioso.

È questo il problema, è questo il punto, «Qui si parrà la tua nobilitate». Hic rodhus hic salta, secondo quanto correttamente dicevano i padri latini.

Ci rendiamo perfettamente conto che quanto suggeriamo è una vera e propria rivoluzione culturale. Di ardua attuazione, certo, ma... nihil impossibile volenti. Ma tale volontà, per esistere, ha bisogno di almeno tre elementi di propedeuticità. Necessità, cioè, di tre rivoluzioni preparatorie. Una psicologica, una spirituale, una storiografica. Sicuramente fra di loro strettamente connesse, eppure distinte, ancorchè non distanti.

(continua)

Enrico Landolfi

 

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