da "AURORA" n° 50 (Luglio - Agosto 1998)

RICOGNIZIONI

 

Religione e «virtù» comunitaria in Robespierre

e nel pensiero politico giacobino

Renato Pallavidini

 

 

Il movimento giacobino francese, soprattutto nel pensiero e nell'azione politica dei suoi più illustri dirigenti e teorici, Robespierre e Saint Just, ispirandosi alla filosofia di J. J. Rousseau -che noi abbiamo interpretato in alcuni brevi saggi critici come la prima organica reazione critica ai modelli antropologico-culturali e sociali del nascente capitalismo liberale (1)- all'interno dei momenti più drammatici della Rivoluzione francese, si è contraddistinto in senso fortemente antiborghese, seppure con una faticosa preminenza del piano teorico rispetto a quello della concreta prassi politica, la quale dovette sottostare a gravi compromessi con i settori più moderati della Convenzione Nazionale, diretta espressione delle borghesie possidenti. Proprio Robespierre, Saint Just e la componente giacobina, più coerente e lucida, dei Comitati dell'anno II cercarono di orientare strategicamente il processo rivoluzionario verso un modello di comunità politica o una tipologia umana antitetiche alla Weltanschauung liberal-capitalista e agli interessi alto borghesi (2).

La nostra intenzione è quella di soffermarci non solo sui programmi economico-sociali (oltre modo noti) di Robespierre o Saint Just e della componente giacobina del Grande Comitato dell'anno II, ma anche di meglio focalizzare il concreto sforzo di fondare la Repubblica solidaristica e comunitaria dei «citoyen» su basi religiose; sforzo culminato nell'istituzione, l'8 giugno 1794, dell'«Essere Supremo».

Per quanto riguarda progetti e concreti atti di politica economica, nonché il quadro antropologico-culturale di riferimento, che si sintetizza nel termine «logica del citoyen», sono sufficienti -nell'economia del nostro lavoro- alcuni ben noti riferimenti che dimostrano lo stretto legame con la filosofia di Rousseau e la ferma volontà robespierrista e giacobina di oltrepassare gli orizzonti borghesi del pensiero rivoluzionario.

Proprio sul rapporto Rousseau-Robespierre, ricordiamo, citandole, le conclusioni di A. Mathiez, tratte dal discorso del 14 gennaio 1920, con il quale egli inaugurava un corso accademico di lezioni su Robespierre; proponendosi apertamente come suo fervente estimatore e proponendolo, alla sinistra leninista del suo tempo, quale punto di riferimento storico per ripensare teoricamente e realizzare il socialismo:

«I discorsi di Robespierre erano i princìpi del Contratto Sociale nell'atto di realizzarsi, in lotta con le difficoltà e gli ostacoli, era la teoria che dal cielo scendeva sulla terra (...) Spingendo fino in fondo il pensiero di Jean Jacques, Robespierre non credette che la democrazia risiedesse interamente nelle sue forme politiche (...) la democrazia sarebbe stata sociale o non sarebbe stata democrazia». (3)

In queste parole è rintracciabile la tesi di fondo che divise A. Mathiez -di formazione giacobino-repubblicana e non marxista- dagli storici marxisti come Lefebre, Soboul, Vovelle, Boulisean, etc., che ne proseguirono gli studi, dando enfasi al momento montagnardo-giacobino della Rivoluzione: la svolta sociale antiborghese che, a parere del Mathiez, Robespierre concretamente tentò, negli ultimi mesi del Terrore, incentrandola sui «decreti di Ventoso» (4) e che radicalizzò il sempre più forte scontento borghese nei confronti del Governo Rivoluzionario sino a culminare nel colpo di stato del 9 Termidoro.

Noi personalmente (sulla base di un'attenta rilettura dei discorsi di Robespierre e di Saint Just, pur non essendo storici di professione) su questo importante nodo storiografico, concordiamo con la tesi del Mathiez, anche in virtù dell'organica e coerente ispirazione rousseauiana di programmi e azione politica del movimento giacobino, nonché della politica religiosa del Grande Comitato che, come vedremo, va persino oltre le indicazioni del Contratto sociale, sul piano della fondazione della «Virtù del citoyen» e sulla base di un'essenziale apertura dell'uomo in quanto al Divino e alla Trascendenza.

Sulla questione sociale, Mathiez, in un saggio del 1913, cita un discorso di Robespierre alla Convenzione Nazionale del 2 dicembre 1792, ritenendolo centrale sia per la «fortissima critica documentata alle tesi del liberismo», sia per il citato progetto di passaggio alla «fase sociale» della Rivoluzione che avrebbe dovuto creare un regime di proprietà diffusa e vincolate ed una economia fondata su un forte intervento pubblico, funzionale all'interesse collettivo e alla tutela dei ceti popolari ed operai:

«Nessun uomo ha il diritto di accumulare mucchi di grano accanto al suo simile che muore di fame. Il primo dei diritti è quello di esistere. La prima legge sociale è dunque quella che garantisce a tutti membri della società i mezzi per esistere; tutte le altre sono subordinate a questa. È innanzitutto per vivere che si hanno delle proprietà. Né d'altra parte la proprietà può mai essere in contraddizione con il sostentamento degli uomini, sacro quanto la vita stessa; tutto ciò che è necessario alla sua conservazione è proprietà comune all'intera società; solo l'eccedente è proprietà individuale ed è abbandonato all'industria dei commercianti». (5)

Il discorso di Robespierre, soprattutto alla luce di questi suoi passi centrali, si può riassumere attorno a tre tesi di fondo, che ritornano in un altro suo intervento alla Convenzione del 25 aprile 1793 e in diverse pagine dei «Frammenti delle Istituzioni repubblicane» di Saint Just (6):

a) il liberismo economico ha portato solo fame nel popolo e alle proteste sociali che ne sono conseguite il governo girondino ha risposto con la repressione più brutale;

b) i teorici del liberismo, che affama i ceti popolari e li allontana dalle istituzioni della nuova Repubblica, sono governanti e ricchi borghesi che pensano unicamente al profitto e non alla necessità di rendere felici gli uomini;

c) primo e fondamentale diritto naturale -che deve diventare legge sociale primaria della Repubblica del «citoyen»- non è il diritto alla proprietà ma il «diritto all'esistenza» alla quale sono subordinati sia il diritto alla proprietà che quello della libertà economica e in nome del quale la Repubblica -se vuole essere un'autentica Democrazia, come la intendeva Robespierre, a detta di A. Mathiez- può e deve porre vincoli ad entrambe, colpendo le grandi concentrazioni di ricchezza.

Analoghi sono gli argomenti svolti nel discorso del 24 aprile 1793 (7); Robespierre, pur respingendo l'uguaglianza completa della ricchezza e il «comunismo» -considerato una «chimera»-, afferma che il problema centrale della nuova fase repubblicana e democratica della rivoluzione è di «rendere onorevole la povertà» senza «proscrivere la ricchezza». Tuttavia egli insiste sul concetto che la proprietà non sia un diritto naturale, ma una «istituzione sociale» fondata su princìpi morali: in pratica la proprietà diverrebbe legittima solo nel quadro della Virtù repubblicana che le conferirebbe una funzione sociale e la costringerebbe sotto la tutela vincolante dell'interesse pubblico, della «sicurezza» dello Stato e del diritto all'«esistenza» di tutti i «cittadini», secondo quanto si evince chiaramente dagli articoli della "Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo e dei Cittadini" sottoposta, in chiusura del proprio intervento, da Robespierre alla Convenzione.

In questo discorso del massimo dirigente giacobino e dagli articoli della «Dichiarazione» (sottoposti al giudizio dell'Assemblea e da essa approvati) tornano i princìpi basilari sui quali Robespierre avrebbe potuto e voluto costruire un ordinamento economico sociale antitetico agli interessi della grande borghesia possidente, liberale e liberista, di vecchia come di nuova formazione: in primo luogo; un regime di proprietà fortemente diffusa e vincolata, in secondo luogo, il diritto dello Stato repubblicano e democratico ad intervenire e disciplinare l'insieme delle attività economiche così tutelando l'interesse pubblico e, con esso, i diritti dei cittadini più deboli, dai piccoli produttori indipendenti ai salariati.

Nei "Frammenti", Saint Just è ancora più chiaro, dimostrando anche una spiccata attitudine all'elaborazione teorica. Infatti, nelle ultime pagine del testo, egli muove da un rovesciamento dell'idea lockiana dell'individuo «proprietario di sé» per giungere ad invocare un «maximum» sulle proprietà da far seguire, probabilmente, all'applicazione dei «decreti di Ventoso»; applicazione decisa dal Comitato di Salute pubblica -in modo estremamente significativo per comprendere la sempre più forte ostilità che la politica sociale giacobina incontrava nei ceti possidenti, all'interno della Convenzione e negli stessi Comitati- solo pochi giorni prima della fatidica giornata del 9 Termidoro.

Saint Just, ponendosi il problema di trovare «una regola invariabile e solida dello stato civile» conclude che, questa regola, «è la proprietà e il possesso»: «La legge sociale non è altro che la proprietà, le legge civile (che deve adattarsi a quella sociale e che è considerata da Saint Just come legge positiva dello Stato, garante e regolatrice dei rapporti sociali che dovrebbero sorgere, in modo naturale, fra uomini socievoli e reciprocamente benevoli - N.d.A.) è il possesso; l'una deriva naturalmente dall'altra». (8)

Il «possesso» cui s'allude, in queste riflessioni frammentarie, può assumere l'aspetto del godimento in usufrutto di un lotto di terra, che come tale non è vera proprietà privata alienabile e commerciabile; tant'è vero che Saint Just definisce, di seguito, la proprietà del territorio come «impero», distinto dalla proprietà di sé, «composto da tutti i singoli possessi». In questo quadro si comprende la portata della seguente affermazione:

«Se nella legge sociale, l'uomo è proprietario di sé e possessore del suo campo, la legge civile deve regolare il godimento della sua proprietà senza alterarlo. Non vi è luogo e proprietà dello stato civile, tutto vi è possesso; eccone la ragione: la proprietà è inalterabile e non può entrare nel giro del commercio». (9)

Queste brevi ma dense riflessioni, a nostro giudizio, si possono sintetizzare in due concetti fondamentali, in grado di ispirare e fondere sul piano teorico la «fase sociale» della Rivoluzione, ipotizzata da A. Mathiez:

a) la proprietà che ogni uomo ha di sé -e che la legge civile deve tutelare- lungi dal portare alla proprietà privata dei mezzi di produzione e all'utilizzazione del lavoro salariato per estenderla, come nello stato di natura di Locke, si rovescia, già a livello di legge sociale e naturale, in semplice possesso, ossia in usufrutto del proprio campo da lavorare personalmente, nella logica del «citoyen»-produttore indipendente;

b) la «legge civile» dello Stato repubblicano -chiamata a regolare proprietà di sé e possesso del proprio lotto di terra senza consentire alienazioni- ha il potere e il diritto di intervenire nei rapporti economici per impedire la compravendita dei singoli possessi e dunque le grandi concentrazioni capitalistiche della ricchezza. All'interno di questa logica meglio si comprende l'ipotesi finale di «maximum del possesso territoriale», un'ipotesi che, per altro, viene ad avere una sua legittimazione speculativa in parte svincolate dalla filosofia di Rousseau.

«Solo il maximum del possesso territoriale sarà determinato nell'interesse della popolazione; l'incidenza di tale maximum sarà permutata contro moneta, né si potrebbe rifiutare di venderla a chi si presentasse per acquistarla, affinché ogni privato possa essere possessore ed avere una patria». (10)

Se queste sono le basi economico-sociali del «citoyen» e della sua Virtù repubblicana, il terreno della quale essa deve trarre alimento e slancio costanti, con tutto l'insieme positivo di Valori e di solidarietà civica, di benevolenza, di bontà, etc., è quello religioso: ed è su questo punto che si innesta il progetto d'istituire il culto ufficiale dell'«Essere supremo», il quale, negli intenti dei giacobini, avrebbe dovuto cementare l'unità del corpo sociale nella repubblica democratica, agevolando la svolta antiborghese della Rivoluzione. L'idea robespierrista del nuovo culto travalica i limiti della «religione civile», teorizzata da Rousseau nel "Contratto", ispirandosi direttamente alla «professione di Fede del Vicario savoiardo», de "l'Emilio" e alla religiosità «naturale» rousseauiana espressa nella "Nuova Eloisa", in molta parte delle "Confessioni" e nelle pagine delle "Passeggiate del pensatore solitario". (11) Rousseau infatti, proprio nel "Contratto" distingueva nettamente la «religione dell'uomo» da quella del «cittadino».

«La, senza templi, senza altari, senza riti, limitata al culto puramente interiore del Dio supremo e agli eterni doveri della morale, è la pura e semplice religione del Vangelo, il vero, ciò che si può chiamare diritto divino naturale». (12)

Essa è sentimento e amore di Dio, da cui conseguono il sentimento dell'immortalità dell'anima e della beatitudine eterna, l'«amore dell'ordine» della natura e dell'universo, di tutti gli esseri che lo popolano e che si richiamano vicendevolmente, come gli uomini idealmente inseriti in una società solidale e strutturata secondo l'ordine totalizzante dell'intera realtà. La religione dell'uomo appare dunque come religiosità individuale ed intima che proietta la oggettività umana verso la Trascendenza, avvicinandosi all'ideale pascaliano di un Dio che parla al «cuore» in modo amorevole e consolatorio. Certamente consolatoria, per l'uomo Rousseau, è la religione professata nelle "Passeggiate". (13)

Diversamente la «religione del cittadino» è «circoscritta ad un solo paese», con un «culto esteriore prescritto dalle leggi», con il compito specifico di far amare ad ogni cittadino «i suoi doveri»: la dedizione al bene pubblico, il sacro rispetto della legge -espressiva dell'interesse generale-, i sentimenti di socialità, di benevolenza, di solidarietà che ciascuno deve nutrire verso i propri compatrioti. Nel complesso la religione «civile» deve ispirare «virtù» in ogni membro della comunità e quindi garantire l'unità del corpo sociale. (14)

Nella concezione robespierrista -condivisa appieno da Saint Just-, invece, il culto dell'«Essere supremo» non è la pura e semplice trasposizione nel concreto di questa «religione del cittadino», con una spiccata funzione sociale, come sostiene il Mathiez e, sulle sue orme, l'intera storiografia marxista e «giacobina» sulla Rivoluzione francese. La religione dell'«Essere supremo», nelle convinzioni di Robespierre, sintetizza «religione dell'uomo» e «religione del cittadino», formulando un'ideale di «citoyen» originato, fondato e contraddistinto, nel suo ordine di valori e nel suo concreto comportamento privato e pubblico, da una Fede religiosa che lo apre primariamente alla Trascendenza, all'immortalità dell'Anima, alla Beatitudine eterna e, solo conseguentemente a quest'apertura primaria -individuale e interiore-, ai suoi doveri civici e sociali.

Infatti Robespierre -nel suo rapporto tenuto alla Convenzione Nazionale del 7 maggio 1794, sull'istituzione del nuovo culto- esordisce proprio con questi riferimenti alla religione rousseauiana dell'uomo, dimostrando di ispirarsi sia alla «professione» sia alle "Passeggiate", proponendo la Fede nell'«essere supremo» anzitutto come promotrice di elevati sentimenti e consolatoria per le anime degli uomini:

«Cosa dobbiamo concludere da tutto quello che vi ho detto finora? Che l'immoralità è il fondamento del despotismo, così come la virtù è l'essenza della Repubblica (...) La rivoluzione, che mira a stabilirla, non è altro che il passaggio del regno del crimine a quello della giustizia ...». (15)

Il regno della giustizia e della virtù repubblicana si edifica sulla base di una Fede religiosa, di un'autentica apertura dell'uomo e del «citoyen» ad un sacro cristianamente inteso come Trascendenza, non certamente sul fanatismo cattolico più retrivo e meno che mai sull'ateismo e sulla scristianizzazione forzata del culto.

«Ogni istituzione, ogni dottrina che consola e che innalza le anime dev'essere accolta. Respingete quelli che tendono a degradarla ed a corromperla. Risvegliate, esaltate tutti i sentimenti generosi e tutte le grandi idee morali che si sono volute spegnere, ravvicinate con il fascino dell'amicizia e con il legame della virtù gli uomini che si è voluto dividere. Che vantaggio trovi nel persuadere l'uomo che la sua anima non è che un soffio leggero che si spegne alla porta della tomba? L'idea del suo nulla gli ispirerà forse sentimenti più puri e più elevati che non quella della sua immortalità? Gli ispirerà forse più rispetto per i suoi simili e per se stesso, più devozione per la patria, più disprezzo per la morte e per la voluttà? Voi che rimpiangete un amico virtuoso, non preferite forse pensare che la parte migliore di lui sia sfuggita al trapasso? Infelici che spirate sotto i colpi di un assassino, il vostro ultimo sospiro è un appello alla giustizia eterna! (...) E se l'esistenza di Dio o se l'immortalità dell'anima fossero anche dei sogni, tuttavia essi sarebbero ancora la più bella di tutte le concezioni dello spirito umano». (16)

Solo dopo questa caratterizzazione squisitamente religiosa, umanitaria, consolatoria, evangelica del culto dell'«Essere supremo» (sempre associato all'idea dell'immortalità dell'anima), Robespierre procede a definirne la sua funzione civica e sociale, sviluppando il discorso su due piani: la promozione dei valori civici e solidaristici da un lato, e della tolleranza religiosa contro ogni fanatismo dall'altro. Si leggano con estrema attenzione questi altri passi dell'intervento di Robespierre:

«L'idea dell'Essere supremo e dell'immortalità dell'anima è un richiamo continuo alla giustizia; essa è dunque sociale e repubblicana. La natura ha messo nell'uomo il sentimento del piacere e del dolore che lo costringe a fuggire gli oggetti fisici che gli sono nocivi ed a cercare quelli che gli sono convenienti. Il capolavoro della società sarebbe di creare in lui, riguardo alle cose morali, un istinto rapido che, senza il soccorso tardivo del ragionamento, lo portasse e fare il bere e ad evitare il male (...) questo istinto prezioso (...) è il sentimento religioso che imprime nelle anime l'idea della sanzione data ai precetti della morale da una potenza superiore all'uomo». (17)

Ogni parola, ogni frase sono dense di significati concettuali. Il culto dell'«Essere supremo» è ben di più di una sistemazione delle feste rivoluzionarie, della spontanea fede nella Rivoluzione da parte dei ceti borghesi e soprattutto popolari, che l'hanno fatta e sostenuta, con un carattere puramente razionalista e deista e una pura e semplice funzione sociale, come conclude il Mathiez. Esso è Fede religiosa autentica, ispirata, come la religione rousseauiana sull'uomo, al Vangelo: una Fede sostanzialmente cristiana che determina primariamente l'uomo in rapporto ad un Dio Trascendente, irraggiungibile dalla ragione, oggetto solo di sentimento (come ne "l'Emilio" e nelle "Passeggiate" di Rousseau); principio superiore di una giustizia eterna che premia negli uomini la bontà e i sentimenti elevati, castiga la malvagità, il dispotismo, le passioni grette ed egoistiche, solo in virtù di questo suo carattere autenticamente religioso, di fede in un Dio e in un ordine trascendente il mondo umano, il nuovo culto può avere una funzione «sociale e repubblicana» promuovendo nella comunità politica giustizia, virtù civica, bontà, solidarietà, etc.

Solo in quanto l'uomo, in ogni paese del globo terrestre, è apertura alla trascendenza ed è animato da quella autentica e cristiana fede può essere un «citoyen» nel senso più compiuto e pregnante del termine: lo è istintivamente e non razionalmente, perché solo istintivamente sente la generosità premiate dalla Giustizia eterna di Dio e l'Egoismo da Essa castigato.

Ne segue, nel discorso, una forte polemica con l'ateismo e gli «enciclopedisti», accusati di propugnare un materialismo che era solo di stimolo all'egoismo edonistico e utilitaristico e di essere sostanzialmente asserviti al despotismo monarchico.

Infine il culto dell'Essere supremo è definito come religione naturale, che può accogliere in sé ogni idea religiosa e/o morale compatibile con i princìpi della Giustizia Eterna di Dio; sostanzialmente tollerante e rispettoso di ogni altro culto che non degeneri nel fanatismo, nella superstizione e nella violenza, con un evidente riferimento negativo al cattolicesimo più reazionario, che aveva fomentato la controrivoluzione soprattutto nel Nord-Ovest della Francia.

«Senza violenza, senza persecuzione, tutte le sette devono confondersi da se stesse nella religione universale della natura (...) Che sia rispettata la libertà dei culti per il trionfo stesso della Ragione; ma che essa non turbi l'ordine pubblico e non divenga un mezzo di cospirazione. Se la malvagità controrivoluzionaria si nascondesse sotto quel pretesto, allora reprimetela; e per il resto, riposate sulla potenza dei princìpi e sulla forza insita nelle cose». (18)

Di seguito si riscontrano affermazioni ove i nessi di conseguenzialità fra religione, morale pubblica, tolleranza civile emergono in modo nitido.

«Dobbiamo vincolare la morale su basi eterne e sacre; dobbiamo ispirare all'uomo quel rispetto religioso per l'uomo, quel sentimento profondo dei suoi doveri che è la sola garanzia della felicità sociale; dobbiamo nutrirlo con tutte le nostre istituzioni: e l'educazione pubblica sia diretta soprattutto verso quello scopo». (19)

Questo brevi riflessioni su progetti e azione politica del giacobinismo francese, soprattutto sul tentativo di aprire una fase popolare, sociale, antiborghese del processo rivoluzionario, sulla base di una fede religiosa ancor più nitida e profonda, rispetto a quella che si trova nell'opera politica di Rousseau, ripropone la filosofia del grande pensatore ginevrino come una reazione globale alla Weltanschauung liberale e illuministica, in tutti i suoi contenuti antropologico-culturali, sociali e politici, una vera e propria critica organica al nascente capitalismo e alla sua ideologia, dalla quale già sorge il tentativo di delineare un modello di società e di uomo alternativi, che il movimento giacobino cercherà di tradurre in atto nel quadro della Rivoluzione francese, innescando un vero e proprio scontro ideologico prima con la borghesia girondina poi con quella «dantonista» e «termidoriana».

Ci si può chiedere quali siano i motivi del fallimento di questa prima sana reazione globale all'ascesa della «modernità» liberale e capitalistica.

La risposta, a nostro giudizio, si dovrebbe articolare su due piani: quello dei progetti economico-sociali e quello del progetto religioso; tutti quanti, per altro, sviluppati con organicità solo nell'ultima fase del «governo rivoluzionario», allorquando il blocco sociale giacobino-montagnardo si era già irrimediabilmente sfaldato, la mobilitazione popolare era stata bloccata, i sanculotti avevano perso slancio, entusiasmo e, in parte, fiducia nei dirigenti giacobini, mentre, al contrario, montava la marea borghese e «dantonista» che sarebbe esplosa tra il 9 e il 10 Termidoro 1794. (20)

Tuttavia, al di là di queste motivazioni contingenti, si devono cercare i fattori strutturali di questo fallimento.

Sul piano economico, crediamo sia ancora valida la critica marxista che contestava l'arcaismo antistorico di strategie sostanzialmente basate sulla strenua difesa della piccola proprietà privata nel momento in cui si apriva la fase di passaggio al capitalismo agrario e industriale, sulle base di precise esigenze di sviluppo economico e con il sostegno di sempre più potenti e aggressive forze produttive borghesi.

Sul piano religioso, non può sfuggire la genericità e l'astrattezza di questo culto dell'«Essere supremo» che, seppure ispirato essenzialmente dal cristianesimo e lontano dal «deismo razionalistico», non proponeva princìpi o dogmi articolati e precisi, né s'innescava concretamente sulle tradizioni religiose della Francia popolare e contadina.

Nel complesso, con la filosofia di Rousseau o con il tentativo giacobino di tradurla in realtà, ci troviamo di fronte ad una critica della «modernità» borghese, liberale e liberista, che non si muove organicamente ed efficacemente sul piano della «modernità» stessa, recependone le spinte allo svecchiamento dei rapporti economico-sociali, dei rapporti politici, del costume di vita.

Al di la può del suo fallimento il giacobinismo, con tutti i suoi riferimenti ai modelli del «citoyen» e di una società fondata su forti vincoli solidaristici e comunitari, lascerà una traccia profonda sull'intera sinistra rivoluzionaria e anticapitalista sino al marxismo della IIIª Internazionale e oltre.

 

Renato Pallavidini

 

Note:

1) R. Pallavidini, "Hegel critico dell'autoritarismo", Arnaud Firenze '92; "Estetica e politica in Rousseau", in "Filosofia", anno XLIV fascicolo III, settembre-dicembre '93, Torino; "Morfologia e aspetti sociali del sentimento nella filosofia di J. J. Rousseau", in "Paradigmi", anno XII n° 36, Bari; "Per una critica ai fondamenti antropologici del liberalismo borghese - Percorsi trasversali da Hobbes a Marx", in "Filosofia", anno XLVII, fascicolo I, gennaio-aprile '96, Torino;

2) per un'essenziale inquadramento storico del movimento giacobino e del Terrore rimandiamo ai seguenti testi: A. Mathiez, "Robespierre", ed. Newton Compton, Roma '76; A. Mathiez, "Carovita e lotte sociali nella Rivoluzione francese", Newton Compton, Roma '74; A. Mathiez, "La Rivoluzione francese", vol. II, "La Gironda e la Montagna", vol. III, "Il Terrore", Einaudi Torino '55; A. Soboul, "La Rivoluzione francese", Laterza Bari '71; A. Manfred, Rousseau, Mirabeau, "Robespierre", Ed. Progress Mosca '79; M. Bouliseau, "La Francia rivoluzionaria. La Repubblica giacobina", Laterza Bari '75; G. Rudè, "Dalla Bastiglia a Termidoro", Editori Riuniti Roma '66;

3) A. Mathiez, "Robespierre", op. cit. p. 103

4) i «Decreti di Ventoso» furono votati della Convenzione Nazionale subito dopo l'eliminazione di Hobert e della sua fazione che rappresentava l'estrema sinistra del blocco giacobino-montagnardo. Prevedevano la distribuzione gratuita, a piccoli lotti, dei beni nazionali a favore degli indigenti e dei nullatenenti, in linea con l'orientamento sociale giacobino a creare una repubblica democratica di «cittadini»-piccoli proprietari indipendenti;

5) A, Mathiez, "Robespierre", op. cit. p. 21;

6) L. de Saint Just, "Frammenti sulle Istituzioni repubblicane", a cura di A. Soboul, Einaudi Torino '55. Questi scritti risalgono secondo l'autorevole opinione di Soboul al periodo che intercorse tra l'eliminazione di Danton e il 9 Termidoro. Nei mesi in cui più nascosta e subdola ma anche più forte, recepita da Robespierre come da Saint Just, si sviluppò la marea montante della reazione borghese contro il «governo rivoluzionario», la sua politica economica dirigista e la sua sensibilità sociale ai problemi dei ceti popolari

7) M. Robespierre, "La Rivoluzione giacobina", a cura di Umberto Cerroni, Editori Riuniti Roma '77;

8) L. de Saint Just, op. cit. pp. 292-293;

9) L. de Saint Just, op. cit. p. 293;

10) L. de Saint Just, op. cit. p. 304;

11) sulla dimensione religiosa del pensiero di Rousseau si vedano i capitoli, dedicati alla sua antropologia, di R. Derathè in "Le rationalisme de J. J. Rousseau" (Pressos universitaires de France, Paris '49) e il testo di A. Bonetti, "Antropologia e teologia in Rousseau", "Vita e Pensiero", Milano '76, il quale si limita però a riesporre ordinatamente le tesi di Derathè, esaltando gli aspetti religiosi de "l'Emilio" e dell'ultimo Rousseau. Sul carattere della Fede religiosa -in cui spicca un carattere fortemente istintivo, che la propone, ne "la nuova Eloisa", ne "L'Emilio", ne "Le passeggiate di un pensatore solitario" come sentimento di Dio e dell'ordine totalizzante dell'universo- rimandiamo ai nostri interventi (vedi nota 1). Per quanto riguarda la "Professione di Fede del Vicario Savoiardo", vi si trova una religione naturale basata su tre postulati: a) «Credo vi sia una volontà che muove l'universo e anima la natura»; b) «La materia che si muove con determinate leggi mi mostra un'intelligenza», e con questo termine si designa l'Intelligenza Divina; c) « L'uomo è dunque libero nelle sue azioni e come tale animato da una sostanza immateriale». Di seguito si precisa che questa «sostanza immateriale è l'anima immortale» e «se è immateriale, l'anima può sopravvivere al corpo».

12) J. J. Rousseau, "Scritti politici", Utet Torino '79 (Iª ed. '70) p. 837;

13) Dalle "Passeggiate" come dalle "Confessioni" si evince che Rousseau, in tarda età, era dominato dall'ossessione di essere perseguitato dal mondo intero e cercava conforto nella Fede, in Dio e nella natura da Egli creata e ordinata, nella certezza, conseguente alla Fede, della Beatitudine eterna dopo la morte;

14) per intendere pienamente cosa intenda per «religione civile» il filosofo ginevrino e quali funzioni le attribuisca si leggano attentamente i seguenti passi tratti del "Contratto sociale", «L'altra (la religione del cittadino - N.d.A.) circoscritta ad un solo paese, gli fornisce i suoi dei, i suoi propri patroni tutelari; essa ha i suoi dogmi, i suoi riti, il suo culto esteriore prescritto da leggi; al di fuori della sola nazione che la segue, tutto il resto è per essa infedele, straniero, barbaro; essa non estende i doveri e i diritti dell'uomo oltre l'ambito dei suoi altari». «Vi è dunque una professione di fede puramente civile, di cui spetta al corpo sovrano fissare gli articoli, non già precisamente dogmi di religione, ma come sentimenti di socialità (...) Senza poter costringere nessuno e credervi, esso può bandire dallo Stato chiunque non vi creda in quanto asociale (...) i dogmi della religione civile devono essere semplici, pochi (...) L'esistenza della divinità onnipotente, intelligente, benefica, previdente, provvida, la vita futura, la felicità dei giusti, il castigo dei malvagi, la santità del contratto sociale e delle leggi: ecco i dogmi positivi. Quanto ai dogmi negativi io li riduco ad uno solo: l'intolleranza; essa rientra nei culti che abbiamo escluso»;

15) M. Robespierre, "La Rivoluzione giacobina", op. cit. p. 188;

16) M. Robespierre, op. cit. pp. 193-195;

17) M. Robespierre, op. cit. p. 195;

18) M. Robespierre, op. cit. p. 202;

19) M. Robespierre, op. cit. p. 202;

20) per un chiaro e sintetico inquadramento del problema rimandiamo ad A. Manfred, "Rousseau, Mirabeau, Robespierre", op. cit. pp. 368-369 e pp. 399-401. La Montagna e i giacobini rappresentavano «il blocco della piccola e media borghesia, dei contadini e delle plebi cittadine, di quelle classi cioè le cui rivendicazioni non erano ancore state soddisfatte dalla Rivoluzione e che, per questo motivo, aspiravano a proseguirla e ad approfondirla ...». Proprio durante il periodo del «governo rivoluzionario» e in virtù della sua rigorosa politica anti-feudale, settori crescenti delle piccole e medie borghesie montagnarde più agiate, uomini politici senza scrupoli come Danton, Tallien, Barras, etc. si arricchirono con la speculazione nella vendita dei «beni nazionali», e con ruberie di vario genere, sino a diventare la nuova grande borghesia possidente e capitalistica del paese. Per questo mostrano sempre maggiore insofferenza alla politica economica dirigistica del «governo rivoluzionario», alle rivendicazioni e alla presenza politica organizzata dei ceti popolari urbani e rurali (piccole borghesie di modeste condizioni economiche, salariati, braccianti, etc.). Nello stesso arco cronologico di tempo maturano malcontenti anche nelle campagne tra contadini agiati e proprietari ormai completamente liberati da ogni onere feudale e posti in condizione di rafforzare la loro condizione possidente attraverso le aste dell'enorme massa dei beni nazionali, espropriati ad aristocratici, clero e vecchie borghesie possidenti filo-monarchiche e girondine, tra il 1790 e il 1794. Neppure le classi lavoratrici e la piccole borghesie più minute poterono identificarsi totalmente con la politica economica dei Comitati, vista l'imposizione del «maximum» anche sui salari e i controlli insufficienti sul rispetto di quello dei prezzi da parte di commercianti e grossi mercanti. Le grandi borghesie, l'insieme dei proprietari urbani e rurali, arricchitisi proprio durante gli anni della radicalizzazione del processo rivoluzionario, tollerarono le politiche economico-sociali di Robespierre e Saint Just e i loro richiami alla «virtù» e alla modestia, i loro progetti di svolta antiborghese della Rivoluzione, sino a quando perdurarono i pericoli di restaurazione monarchica, i focolai di rivolta controrivoluzionaria del Nord-Ovest, di sconfitta militare in Belgio e sul Reno. Cessato il pericolo, grazie soprattutto alla vittoriosa battaglia di Fleurus del 26 giugno 1794 contro le armate delle potenze monarchiche coalizzate, vennero a mancare le ragioni per tollerare oltre politiche anche solo parzialmente lesive degli interessi borghesi e capitalistici. Maturò dunque una sempre più netta svolta a destra di tutti i ceti possidenti che trovò nella Convenzione Nazionale il suo punto di riferimento politico-istituzionale.

Su queste basi, sfruttando anche i contrasti personali interni ai Comitati, il disagio di molti settori del Movimento popolare nei confronti del gruppo dirigente giacobino e, in particolare, di Robespierre -accusato ormai da ogni parte, ingiustamente, di essere un despota sanguinario- si arrivò al colpo di stato del 9 Termidoro, che portò alla liquidazione del Movimento popolare, al ritorno del più selvaggio liberismo economico e, più in generale, ad una regressione della Rivoluzione ai suoi princìpi ed obiettivi borghesi.

 

 

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