da "AURORA" n° 51 (Settembre 1998)

QUESTIONI DELLA SINISTRA

 

Violante-Magris:

un ponte fra le due Italie della guerra civile

(Quarta ed ultima parte - le altre parti nei nn. 48 - 49 - 50 di "Aurora")

Enrico Landolfi

 

Concludiamo con questa puntata il saggio sul Dialogo fra il Presidente della. Camera dei Deputati, On. Luciano Violante, e lo scrittore Claudio Magris, apparso su "il Corriere della Sera" il 21 aprile, a cura di Paolo Conti, sotto il titolo "Un nuovo 25 Aprile per costruire la patria comune".

Seguiamo ancora il metodo fior da fiore, cogliendo nel corpo dell'ampio documento -una intera pagina del quotidiano di Via Solferino- le affermazioni di ambedue i dialoganti più meritevoli di chiosa.

Il Violante, a un certo punto, e nel quadro di un complessivo e più complesso discorso, parla di «effetti negativi di due fenomeni in sé positivi; la globalizzazione della comunicazione e la fine della contrapposizione tra le due grandi ideologie, capitalismo e comunismo». Non ci occuperemo della «globalizzazione delle comunicazioni", non essendo noi dei tuttologi e, soprattutto, non volendo trasformare questa chiusura del nostro scritto in una sorta di vetrina della Rinascente. Ma sulla vera o presunta fine del contendere fra capitalismo e comunismo abbiamo qualcosa da dire. Anzitutto, che, a nostro sommesso parere, non è scritto in nessun vangelo che l'avversario del capitalismo debba essere necessariamente il comunismo, come, ad esempio, dimostrato dalla stessa esperienza del PCI, il partito di provenienza dell'On. Violante, trasformatosi fra il lusco e il brusco in PDS prima e in DS poi proprio al fine di dare vita a una sinistra non incompatibile con il capitalismo, con gli Stati Uniti -massima potenza capitalistica- con i giovani occidentali che, obtorto collo o meno, ne accettano o, addirittura, sollecitano la leadership. Avversaria del capitalismo fu, altro esempio, la Repubblica Sociale Italiana, con la sua ideologia della socializzazione e anche con la sua pratica, per quel che potevano consentire le circostanze tragiche nelle quali ebbe a nascere ed operare, la brevità della sua esistenza (appena seicento giorni!), il fatto di essere contestata armi alla mano dai partiti della sinistra storica e non (PCI, PSIUP, PdA), gli errori da essa commessi (non ultimo dei quali quello relativo alla leva obbligatoria), l'immane difficoltà delle relazioni con i tedeschi sempre (checché se ne dica) duramente conflittuali.

Potremmo citare anche il caso del Cile di Allende, dove una rivoluzione sociale -anch'essa soffocata nel sangue dalla reazione locale gestita ed eterodiretta a tutti i livelli da Washington- ebbe come protagonista e massima guida non un comunista bensì un socialista, alla testa di uno schieramento nel cui ambito i comunisti non erano che una minoranza portatrice di un discorso nient'affatto più rivoluzionario di quello dei socialisti o del MIR.

Potremmo ricordare a Violante e a Magris anche la «rivoluzione dei garofani» del '74 in Portogallo, messa all'ordine del giorno da alti ufficiali rivoluzionari di un esercito colonialista soggetto ad un regime totalitario di estrema destra.

Potremmo, addirittura, andare a ripescare la Reggenza Fiumana di D'Annunzio, con la sua "Carta del Carnaro" pensata e redatta dal sindacalista rivoluzionario Alceste De Ambris con il suo settimanale ufficiale "Testa di Ferro", diretto dal futurista Mario Carli, banditore di un gemellaggio e di un patto di fratellanza fra la giovane rivoluzione sovietica e la giovanissima rivoluzione fiumana; fondati, oltre tutto, su di un indirizzo di solidarietà attiva con i popoli oppressi dalle plutocrazie imperialistiche e di sollecitazione alla lotta di liberazione dal colonialismo.

Potremmo proseguire in tali indicazioni ma ci fermiamo, perché il rischio di tirarla troppo per le lunghe è alto e abbiamo altre cose da dire. Ma prima di cambiare argomento ci teniamo a dichiarare che la vocazione antagonistica, diretta al superamento del capitalismo e al primato, al protagonismo, alla egemonia delle masse popolari, dei lavoratori, della classe operaia resta intatto, pur se consideriamo una risorsa l'insieme delle forze che si richiamano alla sinistra e all'area progressista. Il che, peraltro, non ci vieta, quando sia il caso, una critica anche severa al loro modo di interpretare, di analizzare, di teorizzare, di agire.

* * *

Dice ancora il Presidente Violante: «Il nazismo e il fascismo hanno come fondamento l'ineguaglianza tra gli uomini. Quindi la violenza contro chi è considerato diverso, ebreo, comunista, omosessuale, zingaro è la conseguenza "naturale" di quel punto di partenza».

Chi scrive è distante trilioni di anni luce da tutto ciò che è nazista, ragion per cui non si spenderà né punto né poco su di esso. Non può, però, esimersi da un pur rispettoso dissenso a chi, come il leader di Montecitorio, peraltro persona di fine cultura, azzarda un appaiamento qualitativo fra il fascismo e l'ideologia hitleriana. Ci permettiamo ricordarLe, Signor Presidente, che nel Ventennio uno degli slogan mussoliniani cui arrise maggior fortuna fu quello -secco, tagliente, monitorio- che recitava: «Occorre ridurre le distanze sociali!!». Come dargli torto? È il capitalismo che determina l'ineguaglianza degli uomini. E, troppo spesso, la Sinistra nella sua versione moderata -moderata, intendiamo, nel senso del moderatismo, non certo della moderazione- si è appalesata, si appalesa, corriva, debole, riduttiva, sinergica, nei confronti del capitalismo, della sua logica, dei suoi idola, dei suoi disvalori.

Ella, Signor Presidente, quando mette insieme fascismo e nazismo, dimentica qualcosa che riteniamo fondamentale per una retta e corretta valutazione comparativa dei due fenomeni. Qualcosa che ebbe a manifestarsi, guarda caso, proprio nella vituperatissima, demonizzatissima, maledettissima, rinnegatissima (dal trasformista fregoliano Gianfranco Fini) Repubblica Sociale Italiana. Durante i seicento giorni di Salò successe questo: a dispetto delle forme e delle apparenze, alleati-occupanti e alleati-occupati fin da subito si appalesarono totalmente, irrimediabilmente diversi, la qual cosa non mancò di produrre effetti notevoli anche a livello pratico. Cosa successe?

Successe questo:

A) La RSI adottò la Socializzazione come sostanza rivoluzionaria, come sua stessa ragion d'essere, come motivo dominante della sua guerra contro potenze grandi, medie, piccole che ci piace definire «democrazie controllate» in quanto portatrici di una libertà cui non era consentito di andare oltre l'istanza capitalistica individualistica, mercantilistica; anche se, magari nei parlamenti e, talvolta, perfino nei governi sedevano rappresentanti di partiti classicisti e popolari. I tedeschi rispetto alla socializzazione ebbero una violenta reazione di rigetto: fecero il possibile e l'impossibile per svuotarla, sabotarla, impedirla, rinviarla, colludendo con gli industriali, con il governo svizzero (che temeva nocumenti a interessi elvetici nella struttura economica e finanziaria italiana), perfino, sotto sotto, tramite gli imprenditori, col movimento partigiano, ostile a qualsivoglia iniziativa potesse dare un senso, un lustro, un contenuto alla RSI e un ruolo non banale a Mussolini che sulla socializzazione si era impegnato a fondo deciso com'era a lasciare una sua orma ormai inconfondibile oltre che nella storia nella società italiana. Il Duce si spinse fino al punto di mettere in gattabuia il potentissimo presidente della Snia Viscosa, Franco Marinotti, perché sabotava nelle sue aziende le misure socializzatrici. I tedeschi gli ridiedero la libertà per servirsene negli approcci trattativistici con gli angloamericani e, va da sé, per significare anzitutto a Mussolini il non gradimento della politica filo-proletaria della RSI. L'inquilino di Villa Feltrinelli reagì in maniera furibonda e finì per ottenere delle soddisfazioni. Ma il braccio di ferro con i nazisti continuò fino al 25 aprile 1945.

B) La Costituente, seriamente voluta dal Capo della RSI, anche se al momento non se ne farà nulla causa le condizioni obiettive nelle quali versava il Paese -la convocazione era rinviata con sincera determinazione a guerra conclusa-, innescò un'altra contrapposizione fra RSI e rappresentanti del Terzo Reich. Costoro orripilavano al solo pensiero di un Mussolini che divisava di inserire in una assemblea democraticamente articolata e funzionante tutti indistintamente i partiti, ivi compreso quello comunista, alle sole, ovvie condizioni che accettassero la Repubblica e i loro aderenti fossero in regola con il pagamento delle imposte e con un servizio militare non più rischioso, visto e considerato che la Costituente, dopo alcuni entusiasmi «immediatisti» assolutamente astratti, era prevista a periodo bellico consumato. La sconfitta comune evitò che anche sul tema della democrazia -perché di questo si trattava, di una linea resa anche più evidente dalla intenzione del Duce, esternata ad un suo consulente per le questioni costituzionali e relative alla socializzazione, il direttore de "il Messaggero" di Roma, Bruno Spampanato, di «sottoporsi egli stesso al giudizio del popolo" - RSI e Terzo Reich entrassero in rotta di collisione non in punto di dottrina, bensì in chiave di concreto agire politico.

C) Anche sul modo di concepire l'Ordine Nuovo Europeo un duro pur se formalmente corretto confronto opponeva Germania nazista e Italia repubblicana. E, personalmente, Mussolini a Hitler. I dirigenti italiani non erano affatto persuasi del taglio imperialistico che Berlino conferiva ai suoi rapporti con gli Stati -ex-nemici o meno che fossero, occupati o meno che fossero- collocati nell'ambito di quella che veniva definita la «fortezza europea». Né la repubblica che ormai aveva scritto sulle sue bandiere la parola «socializzazione» sopportava che nei vari Paesi le autorità germaniche mantenessero il clima e lo status di occupazione, e, conseguentemente, cercassero e trovassero consensi, alleanze, intese, collusioni con le vecchie caste della destra economica e politica fra le più reazionarie, invece di tentare rapporti amicali e collaborativi con gli ambienti popolari e di massa mediante una politica socialmente di avanguardia, di pari dignità, di trattati di pace generosamente ispirati, di alleviamento significativo delle spese di occupazione e delle riparazioni di guerra.

Signor Presidente della Camera dei Deputati, nel suo dialogo con il prof. Magris le capita di usare la parola «nazifascismo». Orbene, pare a noi che alla luce di quanto siamo venuti fin qui esponendo -e ci perdoni la del tutto occasionale, inconsueta immodestia- tale termine non abbia senso alcuno. L'Italia ha conosciuto un fascismo -con tutti i suoi risvolti, le sue componenti, le sue correnti, le sue interpretazioni etc.- e un nazismo. Mai un nazifascismo. Come, del resto, ha dimostrato brillantemente, da par suo, il compianto Renzo De Felice. Persino sulla questione ebraica c'erano due linee diverse. Roberto Farinacci, il più filo-tedesco e il più filo-nazista dei gerarchi -non a caso Mussolini lo aveva confinato a Cremona anche durante la RSI, con il titolo poco più che onorifico di «ministro di Stato» dove si sfogava con editoriali sul quotidiano di sua proprietà, "il Regime Fascista"- aveva una segretaria ebrea che si guardò bene dal licenziare dopo l'otto settembre. Così come si preoccupò di incitare gli israeliti cremonesi a tagliare la corda quando un ufficiale della Gestapo si presentò al suo ufficio pregandolo di fargli avere al più presto la lista degli appartenenti alla loro comunità. A sua volta Alessandro Pavolini, segretario provvisorio per l'eternità del Partito Fascista Repubblicano, aveva per amante la celeberrima attrice Doris Duranti, arrestata su denuncia di un delatore di lingua italiana perché sospettata di appartenenza alla razza ebraica e rilasciata per intervento dello stesso Pavolini, nonostante che su queste cose i tedeschi si dimostrassero tutt'altro che malleabili anche con i pezzi grossi.

Nel famoso "Manifesto di Verona" la materia razziale venne trattata con relativa moderazione. Si affermò, in sostanza, che gli ebrei erano da considerare cittadini di un paese nemico «per tutta la durata della presente guerra». Si lasciava, cioè, intendere che una volta cessato il conflitto le cose in qualche modo, con loro si sarebbero potute aggiustare. Intendiamoci, chi redige questo pezzo è la negazione vivente di ogni tipo di razzismo, che considera un errore e un orrore. Ritiene, ovviamente, che le leggi razziali del '38 sono una delle cause che hanno prodotto il crollo del fascismo, investendolo di impopolarità a livello nazionale e internazionale.

Tuttavia, ripetiamo, la formulazione del "Manifesto di Verona" è relativamente moderata e, soprattutto, ancor più moderata ne fu la pratica. Niente di paragonabile, insomma, a ciò che fecero i tedeschi, egregi Signor Presidente della Camera e On. Magris

Enrico Landolfi

 

 

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