da "AURORA" n° 52 (Novembre 1998)

IL DIBATTITO

 

Che fare?

Francesco Moricca

 


 

«Sono proprio le banderuole a tutti i venti e non il coerente R. M., che veramente caratterizzano questo periodo di dispersione e di deviazione, di pronte concessioni alla critica, all'economismo, al terrorismo. Questo periodo è caratterizzato non da qualche adoratore dell'assoluto, ma dall'unione di praticismo meschino con una noncuranza totale per la teoria»

Lenin, "Che fare?"

 


 

«Si picchia il gatto perché la nuora intenda»

proverbio tedesco

 


 

La fine del governo Prodi, che sembra prefigurare con la fine dell'Ulivo, il «rigetto» del bipolarismo nel nostro Paese e dunque la parallela dissoluzione del Polo delle Libertà, potrebbe non essere un episodio -uno dei tanti- di quel «trasformismo» che contraddistingue la politica italiana con l'avvento della sinistra al potere nella seconda metà del secolo scorso: quel «trasformismo» non ebbe l'auspicio del Vaticano e fu anzi diretto contro di esso per la convergenza di quelle forze di destra e di sinistra che avevano fatto il Risorgimento e avevano, risolto «manu militari» la Questione Romana; questo «trasformismo» è invece ispirato, in larga misura dal Vaticano ed è indubbiamente un segnale palese della sua «riscossa» e del suo riappropriarsi -con buona pace di tutti- del suo antico ruolo di centro propulsore della politica italiana veramente significativo sul piano internazionale, oltre che su quello interno.

La «novità» della situazione attuale, beninteso, non consiste in un cambiamento della qualità dei nostri politici che è anzi decisamente peggiorata, ma nel cambiamento del quadro internazionale dopo la caduta del comunismo sovietico; per cui, in un certo senso, col venir meno della tradizionale dialettica di blocchi contrapposti, è esatto parlare di «fine della storia». I vizi della politica italiana, e gli elementi fortemente innovativi che la hanno caratterizzata in passato per contrasto e che forse non hanno riscontro in nessun altro Paese del mondo, potrebbero così diventare suscettibili di sviluppi tanto insospettabili quanto pericolosi per i poteri «forti» internazionali e sovranazionali. Non è un caso se la stampa estera qualificata si è come al solito interessata, con toni oscillanti fra l'ironia e il sarcasmo, del «caso Italia» dopo l'ultima, e questa volta esiziale, crisi del governo Prodi. La misura dell'ironia e del sarcasmo è indice sicuro dell'apprensione e delle inquietudini che suscita quella che, in un intervento di qualche tempo fa, definimmo la «tigre italica»

 

La diade catto-bolscevica: tattica e strategia della «liquidazione» di Prodi

Tutti sembrano d'accordo che l'UDR cossighiana -questo partito «virtuale» testimone del «genio italico» nell'adeguare la prassi della vecchia partitocrazia alle necessità dell'«era del computer»- mira, e pare con successo, alla ricostituzione della DC. A noi pare che ciò comporti, per forza di cose, un ritorno al sistema proporzionale, sia pure in forma opportunamente mascherata: le cosiddette «riforme istituzionali» non si sono ancora nemmeno abbozzate non solo per l'atteggiamento della destra determinato in massima parte dal salvaguardia degli interessi di bottega del Cavaliere di Arcore, né bisogna farsi eccessive illusioni per il futuro. Posto che la strategia cossighiana abbia successo (come noi riteniamo in quanto potentemente sostenuta nella Città leonina), il riassorbimento di Forza Italia nel nuovo «centro cattolico» dovrebbe darsi per scontato, con o senza Berlusconi.

Quel che a questo punto va sottolineato è l'interesse per il ritorno al proporzionale sempre mostrato da Bertinotti. Ciò significa la convergenza sostanziale dell'«estrema sinistra movimentista» col progetto di restaurazione di Cossiga. Che Bertinotti se ne renda conto oppure no, è cosa in definitiva trascurabile. Se è ormai chiaro per tutti che il suo «movimentismo» è, come sempre abbiamo sostenuto con toni accesi e anche palesemente provocatorii, inconcludente e alla fine assai controproducente, bisogna tuttavia osservare che al di là delle intenzioni dell'uomo e di quelle che egli spaccia come «questioni di principio», resta il fatto che la caduta «improvvida» del governo Prodi, ha determinato un chiarimento nella molto confusa situazione politica italiana. Non solo, come era formalmente giusto, si è data la responsabilità del governo al capo del maggior partito dell'Ulivo; ma anche -ed è ciò che più conta- sarà lui, e non il «buon Prodi», a dover prendere, le decisioni più gravi sulla pelle del «proletariato», delle categorie effettivamente più deboli della società che non sono precisamente quelle «tradizionali» né quelle identificate dal «rifondazionismo» comunista. Qualche garanzia in tal senso il «buon Prodi» poteva ancora offrirla per la sua competenza e per gli appoggi del Vaticano. D'Alema questi appoggi dovrà pagarli a carissimo prezzo (gli attacchi de "l'Osservatore romano" vanno letti come un «avvertimento»), ovvero accentuando la propria dipendenza dagli USA e dai «poteri forti» (un segnale in tal senso potrebbe essere il passaggio dell'«Americano» a Botteghe Oscure, cioè la «veltronizzazione» di quello che fu il più grande ed agguerrito partito comunista d'Occidente).

 

Se è sicuramente un vantaggio che D'Alema sia stato costretto ad abbandonare il comodo ruolo di «eminenza grigia» del Professore bolognese, l'indubbio stile dell'uscita di scena di quest'ultimo ne fa il più autorevole e serio fra i politici nostrani, per quanti possano essere i suoi limiti personali e le obiettive deficienze della sua gestione. Il che non esclude un suo ritorno qualora la strategia cossighiana-bertinottiana dovesse avere successo nel «bruciare» D'Alema e contemporaneamente le «riforme istituzionali» legate al consolidamento del sistema bipolare. Noi personalmente ci auguriamo un ripristino, nella sostanza se non nella forma, del proporzionale: se non altro perché siamo arciconvinti che il sistema bipolare ci è stato imposto, con la finzione dei «ludi cartacei», dal padrone americano. Senza contare, poi, che non il sistema proporzionale -certamente il più «democratico» sotto il profilo sostanziale- ma l'uso che se ne è fatto ha determinato l'«ingovernabilità» del Paese durante la «prima repubblica» offrendo così lo specioso pretesto per la sua sostituzione.

Ma vi è un altro aspetto positivo che è emerso in concomitanza con la nomina a Primo Ministro di D'Alema: la «svolta» bossiana al Congresso della Lega. Essa rappresenta di fatto una rinuncia alle farneticazioni separatiste, e l'«entrismo» della nuova strategia leghista, pedestremente come al solito sostenuto dall'ineffabile «Senatùr», è la prova esaustiva, per i leghisti onesti, che egli d'ora in poi sarà perfettamente funzionale al potere che riuscirà a consolidarsi quale che sia.

 

L'«Ulivo mondiale»

Con questa definizione, il Professore bolognese ha voluto sottolineare la piena sintonia della sua concezione «di sinistra» del bipolarismo con quella dominante -a quanto pare- in Europa e negli USA.

Posto che si accettino le nostre tesi sulla strategia vaticana mirante alla ricostituzione dell'unità politica dei cattolici italiani, mediante il ritorno al proporzionale e in funzione antistatunitense, la formula prodiana andrebbe letta nel senso di una «formale rassicurazione» mirante a occultare ben diversi intendimenti: come obiettivo massimo, quell'europeismo indisponibile a lasciarsi passivamente condizionare dagli USA che indubbiamente e sia pure molto timidamente ha caratterizzato la politica estera del passato governo, europeismo connotato da una prominenza delle nazioni latine e della loro concezione del mondo cattolica ispirata più o meno direttamente dalla Chiesa; come obiettivo minimo invece, quello di riportare almeno l'Italia sotto il controllo del Vaticano, concependone la valenza geopolitica e l'organizzazione statuale come meri strumenti di quest'ultimo.

In un simile contesto, si potrebbe ipotizzare una sostanziale consonanza fra la tattica cossighiana e la «non tattica» prodiana concretizzatasi nelle dimissioni e in un'uscita di scena di «grande stile» e di sicuro effetto. L'immediata risoluzione della crisi col conferimento dell'incarico a D'Alema, potrebbe essere anche qualcosa di diverso da un «colpo basso» alla maniera dei Gesuiti, se si considera che il sinistrismo cattolico presenta sostanziali consonanze con l'«umanesimo» marxista e perfino leninista. Tutti siano avvertiti, specialmente coloro che azzardano previsioni sulla durata del governo D'Alema, magari dando eccessivo credito, dal punto di vista di un sedicente «laicismo» alla «spregiudicatezza e capacità manovriera» del capo dei DS. Egli è in realtà in una posizione difficilissima: deve scegliere se essere l'uomo del Vaticano oppure l'uomo degli Americani. E deve scegliere da italiano. Noi personalmente lo attendiamo «al varco»; sappiamo molto bene che potrebbe fare la fine di un altro «ex-comunista», cioè la fine di Boris Eltsin. Lo diciamo mentre però ci rimorde la coscienza -ahi noi, «poveri don Chisciotte»- per la malignità sottesa nelle nostre parole. Ci duole anche dover riconoscere che il «vantaggio» che presenta l'Italia rispetto alla Russia è nel fatto che in Russia non esiste nulla di paragonabile al Vaticano. La politica, tuttavia, è quello che è. Quando si decide in questo campo, non può esservi spazio per la considerazione degli «stati di coscienza». L'appoggio che personalmente demmo a suo tempo a Prodi ci costò parecchio. Meno, comunque, di quello che adesso dobbiamo dare a D'Alema, e non solo perché imposto dalle circostanze. Non possiamo inoltre tacere -per quanto «impolitico»- che ci rode dover ammettere che certe «sbalorditive» affermazioni del Cavaliere Azzurro e dei suoi scherani nel corso e dopo la crisi di governo, hanno un fondamento di verità che nessun «esperto costituzionalista» riuscirà mai a confutare. Solo il supremo disprezzo del popolo può spiegare la grande manifestazione romana del Polo come effetto del «qualunquismo» e dell'apparato pubblicitario berlusconiano. Tanto più ove si consideri che il «popolo» in cinquanta anni di «democrazia» dovrebbe ormai ben essersi emendato dalla «incultura fascista». In ogni caso, disprezzo e strumentalizzazione della «imbecillità delle masse» sono proprie alla destra economica. Scoprire che lo sono anche della sinistra di discendenza marxista-leninista e del «cattolicismo» progressisti è ben altra cosa (non per noi, tuttavia, che sempre abbiamo sostenuto la comunanza originaria del materialismo econonomicista e dello «spiritualismo» cristiano).

Tornando alla formula prodiana dell'«Ulivo mondiale», essa dovrebbe in definitiva significare che, parafrasando un'espressione di San Paolo, si tratterebbe di innestare sull'olivastro dell'economicismo liberal-marxista l'ulivo delle teorie economiche del cristianesimo cattolico; a condizione, però, che il Vaticano riesca ad avere politicamente il sopravvento su tutti gli altri «poteri forti» e in primo luogo sugli USA.

Questo significa, a prescindere da obiezioni e dubbi, che potrebbero levarsi anche, e soprattutto, da parte nostra, che il cattolicesimo deve sottrarre all'islamismo (in primis al fondamentalismo) l'egemonia delle forze antagoniste a livello planetario. Riuscirci implica un confronto a tutto campo con l'islamismo che dimostri incontrovertibilmente la superiorità, del cattolicesimo non sul piano della coercizione ma su quello della persuasione; dunque il suo diritto reale all'esercizio del Potere Spirituale.

Epperò a questo punto sarebbe necessaria una rottura drastica col marxismo: dal nostro punto di vista, una sorta di «uccisione del proprio fratello minore».

Ci sarebbe gradito conoscere le chiose del Professore bolognese a quelle che sono nelle linee generali le implicazioni della sua formula, in specie per quanto attiene all'«uccisione del fratello minore». Il quale, venuta meno l'Unione Sovietica, non solo ha perduto la sua funzione di potente supporto dell'antagonismo cattolico, ma è diventato, più o meno «coattivamente», l'alleato naturale delle forze che fanno capo agli USA e alla «visione del mondo» loro propria. Desiderio più che legittimo, il nostro, visto che un economista cattolico non può essere un semplice economista e in ultima analisi un «ragioniere di rango superiore», il «politico» come solo lo intende l'ideologia del Terzo Millennio.

 

Lazzaro risorto, ma potrebbe non essere un«lazzarone»?

La ricostituzione di un partito unitario dei cattolici italiani porrebbe dunque la questione dell'adeguamento al sistema bipolare anglosassone, nei termini di una contrapposizione fra questo partito e quello dei Democratici di Sinistra supportati dai comunisti rifondazionisti e da formazioni minori di liberali più o meno radicali. Molto ridimensionata e fuori dall'«arco costituzionale» verrebbe a trovarsi AN, in un quadro generale che riprodurrebbe o quello anteriore all'avvento del centrosinistra durante la «prima Repubblica» (se la strategia europeista e antiamericana del Vaticano avesse successo), oppure quello dello stesso centrosinistra (se questa strategia, come è assai probabile, non avesse successo, ovvero avesse successo solo limitatamente all'Italia). Certo è, comunque, che l'«alternanza» di governo propria al sistema sassone sarebbe impraticabile e, per le ragioni già dette, ciò sarebbe sempre un vantaggio notevole. Un governo di «unità nazionale» qualunque sia la sua espressione, ha valenze ancora ideali e politiche che invece sono totalmente assenti nei Paesi che vengono additati a modello di «democrazia».

In tale contesto, l'editoriale "A volte ritornano" del n° 50 di "Aurora" (luglio-agosto '98) acquista una grande rilevanza, oltre che per le sue analisi e per le previsioni che ne seguivano e che si sono avverate con la successiva caduta del governo Prodi, in special modo per il formale invito, a ridefinire la linea politica di Sinistra Nazionale, in una prospettiva che sostanzialmente non dovrebbe contraddire quella qui indicata. L'editoriale si concludeva con un invito ai militanti acciocché rispondessero a tre precisi quesiti, il secondo e il terzo dei quali si articolavano poi in un seguito di domande (soprattutto il secondo) assai particolari e circostanziate.

Al quesito n° 1 («attualmente ha senso per noi schierarsi con uno dei due "poli" che in definitiva propongono le stesse soluzioni neo-liberiste, Lega compresa nel suo ruolo di "battitore libero"»?), la nostra risposta è affermativa in quanto, nella attuale congiuntura soprattutto, sarebbe immorale stare in disparte per un malinteso «sentimento di purezza» da neo-aventiniani, rinunciando ad esercitare comunque e fino in fondo il dovere della critica in nome delle nostre ragioni (alla cui validità nulla toglie il fatto di esser state «sconfitte dalla Storia» ovvero di esser oggi quasi del tutto inascoltate). Secondo una valutazione più «politicamente» significativa, poi, non si deve dimenticare che i partiti dell'Ulivo sono sostenuti dal «capitalismo ecumenico» e che essi godono di un apprezzabile appoggio internazionale e, per quanto ci interessa direttamente, dell'appoggio del Vaticano, di grande rilevanza per le scelte future di SN qualora si condividano i contenuti e le previsioni più sopra proposti. A prescindere che un certo «attendismo» è consigliabile per l'estrema instabilità della situazione internazionale e non solo italiana (e pertanto sarebbe del tutto inopportuno mutare l'indirizzo che scegliemmo di seguire nelle ultime consultazioni elettorali), resta il fatto di principio che la natura della nostra visione del mondo, chiaramente e inequivocabilmente delineata nel nostro Statuto, è inconciliabile, con quella -se è lecito usare il termine di «visione del mondo» in questo caso- propria alla formazione capeggiata dal Cavaliere Azzurro e al partito di Bossi. Fra i partiti del Polo delle Libertà noi potremo trovare un'intesa solo con AN e solo quando, e se, si verificherà la rottura delle sue attuali alleanze nonché l'emarginazione della dirigenza in carica.

Venendo al quesito n° 3 («è possibile costruire una forza Antagonista oltre lo schema destra-sinistra?»), la nostra risposta è ancora affermativa, epperò solo nella misura in cui riusciremo a interpretare in maniera corretta ciò che si sta verificando nel mondo cattolico e sapremo agire di conseguenza. Non basta -e anzi è del tutto secondario- «raccogliere i nuclei antagonisti esistenti nel nostro Paese» (anzi, inesistenti, come afferma Alceste de Ambris), poiché si rischierebbe di scadere al livello della demagogia propria al rifondazionismo sedicente comunista. Occorre invece pensare in termini di politica alta, non curandosi di quei «critici critici» (per dirla con Marx) che sicuramente ci rimprovereranno di «fantasticare». Bisogna avere ben chiaro che oggi per noi è del tutto impossibile agire direttamente e in maniera costruttiva «a livello di massa». Conviene invece ritornare alla vocazione originaria di movimento di élite che storicamente ci fu propria, puntando tutto sull'elaborazione teorica al fine di ridestare la coscienza e la volontà dei migliori se pur ve ne sono rimasti (al riguardo, non si sia troppo pessimisti: in effetti il male non può annientare il bene né il disordine l'ordine, per quante «prove sperimentali» si possano addurre in contrario; è perché l'idea del bene non può esser sradicata dal mondo, che è sperimentalmente vero il «dolore cosmico», la «noia», la «nausea» e perfino l'«entropia»). Non bisogna «sporcarsi le mani» quando non è necessario, per mania di attivismo politico, e una certa «distanza dalle masse», neanche in tempi molto lunghi, è il mezzo più efficace e sperimentato, per attrarle naturalmente verso di noi, se intanto avremo saputo trovare la risposte appropriate a ogni problema e non saremo mossi dalla frenesia di volerlo attuare ad ogni costo. Va da sé che la nostra «apatia» dovrà essere irremovibile quanto il giudizio etico-politico negativo sulla globalizzazione imperialistica del capitalismo della terza rivoluzione industriale.

Quanto all'idea di nazione e alla sua possibile valenza anticapitalistica riteniamo assolutamente centrali le seguenti precisazioni.

1) La «nazione» nel senso venutosi a costituire dal Cinquecento alla prima metà del Novecento, ha sicuramente una connotazione borghese e capitalistica come anche in ultima analisi il fenomeno speculare e «dialetticamente contrapposto» dell'«internazionalismo proletario», nonché il «cosmopolitismo», negazione «mondialista» sia della «nazione» che dell'«internazionalismo proletario», che caratterizza la fine del Millennio.

2) L'attuale richiamo a pretesi «valori eterni della nazione» ha un significato reazionario quando si ponga (e si pone così quasi sempre) come espressione del «disagio della civiltà» e come regressione allo stadio biologico della etnia secondo l'accezione più rozza e primitiva attribuibile al bismarckiano «blut und boden». In questo caso, la sedicente «reazione al disagio della civiltà», si manifesta secondo le forme peggiori della «civiltà» stessa ed è perfettamente funzionale alle logiche del «mondialismo» (il fenomeno leghista è esemplare al riguardo: miti «celti» e neo-liberismo vi convivono per una ferrea necessità che ha del comico più che del paradossale), per non considerare il fatto veramente esilarante, che la base leghista è quasi integralmente di origine proletaria ed ha militato nelle organizzazioni del vecchio PCI).

3) Soltanto se totalmente svincolata dal contesto storico moderno-contemporaneo e ricondotta nell'ordine metastorico della Tradizione, la «nazione» acquista un significato positivo superiore che ingloba la funzione anticapitalista e antimperialista, epperò non si esaurisce in essa né si immiserisce nel puro economicismo della visione liberal-marxista e sedicente «rivoluzionaria». Per la Tradizione -giusta la concezione mussoliniana- la «nazione» assai poco ha da spartire con la sua base etnico-biologica, essendo in realtà essa forgiata dallo Stato come entità etico-culturale, e dunque da un «Imperium» sovranazionale garante delle diversità delle singole nazioni e della composizione possibilmente pacifica di eventuali contrasti fra esse insorgenti, secondo il modello dell'Impero romano e della sua riproposizione medioevale di Sacro Romano Impero germanico.

4) Poiché questi modelli, nonostante tutto, sopravvivono ancora incarnati dalla Chiesa cattolica, e poiché è grazie all'azione plurisecolare della Chiesa che si è venuta formando la nazione italiana moderna con precisi connotati culturali che la distinguono e per cui il fascismo è altro rispetto alla sua versione nazionalsocialista germanica, noi qui abbiamo rilevato la primaria necessità, per SN, di confrontarsi col mondo cattolico specialmente nell'attuale frangente, e di confrontarsi mediante una critica che intende essere costruttiva nella stessa misura in cui non solo appare ma è distruttiva (distruttiva, beninteso, non del «cattolicesimo» ma dei vizi che gli sono propri in quanto religione dell'«Età Oscura», in specie della sua fase terminale del «Terzo Millennio».

Atteso quanto precede, allora, la scelta che noi facemmo per l'Ulivo e che personalmente ribadiamo per il prossimo futuro (salvo mutamenti ad oggi imprevedibili della situazione, ma che in ogni caso non possono interrompere il nostro confronto privilegiato coi cattolici ulivisti), non può ritenersi né «comunquista» né «almenista». Peraltro, noi siamo talmente abituati al peggio e a un regime di «autarchia» stoica, che simili argomenti della «saggezza» filistea e conservatrice non possono in alcun modo condizionarci. La «follia» ha tutto sommato ancora grandi vantaggi. Il segreto consiste nel restare fedeli alla propria «follia». Non mutare interiormente per dominare il mutamento invece di esserne dominati. Non essere, nemmeno, come le «canne pensanti» di pascaliana memoria, che sono tuttavia sempre «canne al vento».

Francesco Moricca

 

 

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