da "AURORA" n° 52 (Novembre 1998)

QUESTIONI DELLA SINISTRA

 

Nel "Fascisti rossi" di Paolo Buchignani

Elementi biografici di Giorgio Pini,

socializzatore RSI, socialista nazionale

(prima parte)

Enrico Landolfi

 

Molto bello e interessante questo "Fascisti rossi - da Salò al PCI, la storia sconosciuta di una migrazione politica 1943-1953", un vasto saggio di oltre 350 fitte (di scrittura e di sostanza) pagine da qualche mese licenziato alle stampe per i tipi prestigiosi della Mondadori. Autore Paolo Buchignani, intellettuale lucchese ben conosciuto e molto apprezzato quale studioso di storia della cultura italiana del Novecento, la cui firma spicca su opere di forte impegno come "Marcello Gallian. La battaglia antiborghese di un fascista anarchico" (Bombacci 1984) e "Un fascismo impossibile. L'eresia di Berto Ricci nella cultura dei Ventennio" (il Mulino 1994) nonché nelle pagine della rivista "Nuova Storia Contemporanea".

Il contenuto fondamentale del volume di cui verremo discorrendo ruota intorno alla figura di Stanis Ruinas, giornalista e scrittore sardo fondatore e direttore de "il Pensiero Nazionale", suscitatore del movimento di quelli che il Buchignani si è compiaciuto definire «Fascisti rossi» e, ovviamente, massimo punto di riferimento della sinistra ex-fascista o, addirittura, fascista tout court negli anni turbolenti del dopoguerra. Un discorso esauriente, analitico su tutta la sterminata materia che invade e pervade la tessitura del libro chissà dove, sotto il profilo dimensionale, ci condurrebbe; ragion per cui, dopo aver reso doverosamente omaggio alle eccezionali qualità di ricercatore del saggista lunigiano, ci affrettiamo ad informare il Lettore che limiteremo il nostro intervento alla rievocazione dell'immagine storica di Giorgio Pini, leader della sinistra missina fino al momento in cui destrosi, conservatori e reazionari assolutamente tali, ma anche falsi sinistri e putativi rivoluzionari di princisbecco non lo misero in condizione di dover mollare baracca e burattini -mai parole furono più adeguate per illustrare il MSI post-piniano!- e ritirarsi nella sua Bologna a svolgervi una intensa attività pubblicistica.

Ciò che ci consente di conferire a quanto scriviamo il taglio particolare ora dichiarato è la notevole sottolineatura nel brillante testo buchignaniano del ruolo svolto da questo mussoliniano doc nelle vicende dell'erresseismo postbellico, dopo essere stato accanto al duce del fascismo prima come direttore del periodico di punta "l'Assalto", poi come caporedattore de "il Popolo d'Italia" fino al 25 luglio '43, quindi, nella RSI, in qualità di direttore del quotidiano felsineo "il Resto del Carlino" e infine nella veste di sottosegretario al ministero dell'interno. Da notare che Mussolini lo aveva designato ministro in quel delicatissimo dicastero non soltanto perché uomo di sua stretta fiducia, ma in quanto espressivo di quella componente della Repubblica al contempo moderata (ossia decisa a fare il possibile e possibilmente l'impossibile per abbassare il livello dello scontro con la Resistenza fino al superamento dello scontro stesso), rivoluzionaria (vale a dire impegnatissima a portare avanti il processo socializzatore nella struttura economica e quello liberalizzatore nel rapporto fra lo Stato e i cittadini) e indipendentista (cioè persuasa della primaria esigenza di innescare un'azione pressante diretta al recupero della quota di sovranità di fatto confiscata all'Italia repubblicana dai tedeschi). I quali tedeschi si opposero con durezza alla sua nomina e così, dopo un braccio di ferro fra il duce e Rahn, fu giocoforza acconciarsi a un compromesso: Buffarini Guidi, a torto o a ragione ritenuto troppo accondiscendente con i nazisti, faceva le valigie ma non lo sostituiva Giorgio Pini bensì il perfetto Paolo Zerbino, Alto Commissario per il Piemonte dopo esserlo stato a Roma prima dell'arrivo degli «Alleati». Una soluzione tecnica, dunque, che tuttavia non distruggeva quella politica, per l'appunto incarnata dal Pini. Peraltro, anche il Zerbino era un mussoliniano di stretta osservanza.

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I rapporti tra Stanis Ruinas e Giorgio Pini si appalesavano fraterni sotto l'aspetto umano, ma non indicativi di una piena coincidenza di idee in sede politica. Gli è che il secondo era ben lungi dal condividere gli entusiasmi filo-comunisti del primo, anche se innegabile era l'autenticità della sua posizione di sinistra. Da ciò la riluttanza a collaborare a "il Pensiero Nazionale", alle cui pagine approderà solo nel '53 quando la rivista, superato lo schema «filo diretto con Botteghe Oscure» si sarà spostata verso quella che usiamo definire «area Mattei», ossia una zona composita e trasversale del dibattito italiano caratterizzata dalla alleanza prima culturale quindi politica fra le sinistre cattoliche e democristiane e il socialismo autonomista nella versione più audacemente programmatica (De Martino - Lombardi - Giolitti - il Mancini della fase di "Presenza Socialista"), ossia sempre più chiuso a destra, sempre più proclive al rapporto ideologico con il PCI se non proprio ai famosi «equilibri più avanzati» di demartiniana memoria. In questa pubblicazione ripulita del vecchio frontismo, Pini siglerà i suoi pezzi con lo pseudonimo di Giorgio Lombardo. Sarà, il suo, un apporto non solo di pregio sotto l'aspetto della validità del contenuto e della qualità letteraria della prosa, ma anche connotato da un alto livello di correttezza morale e di onestà intellettuale. Egli, infatti, non farà alcuna concessione al banalizzante «perdonismo» di moda per quel che attiene alla sua particolare esperienza umana e politica, al suo modo di essere di sinistra, al suo sentimento mondo di qualsivoglia risentimento (anche se piangerà sempre il giovane figlio Gianni ucciso da un commando partigiano dopo il 25 aprile '45); e tuttavia appoggerà con vigore e convinzione la formula del centrosinistra progressista, più chiuso alla scorribanda delle forze conservatrici e reazionarie. Insomma, pur apertissimo alla cooperazione con la sinistra antifascista mai sarà un anticipatore dei Fiuggiaschi edizione 1955, mai rinnegherà i motivi della sua battaglia di sinistra dentro i «tre fascismi» (quelli del Ventennio, della RSI, del dopoguerra), mai tradirà i suoi Morti accettando la discriminazione fra sepolcri di Serie A e di Serie B in cambio del classico ancorché deprimente piatto di lenticchie della partecipazione a un governo da operetta occasionale, di breve durata e a scartamento ridotto. E allora diciamocela tutta: Pini non è Fini. Osiamo credere, ci piace credere, che questa figura di superatore senza plateali rinnegamenti, senza conversioni di convenienza, senza disgustosi tradimenti, senza vomitevoli palinodie, senza ridicoli giuramenti «antifascisti» fatti al solo scopo di sedere a tavola con Berlusconi in una delle sue tante fantasmagoriche ville hollywoodiane del Cavaliere Azzurro, di mettersi in condizione di fruire dell'impero mediatico e dei 14.400 miliardi per proteggere i Paperoni di tutto l'Occidente capitalistico, non sarebbe dispiaciuta, tutto considerato, a un leader antifascista del calibro di Piero Gobetti, valorizzatore delle schiene ben dritte, delle spine dorsali ben salde, delle eticità più ferrigne nei comportamenti politici. Ci induce a ciò pensare la sua amicizia sinergica con Curzio Malaparte, all'epoca eccezionale combattente di battaglie ideologiche in pro dell'ala intransigente del fascismo con "La Conquista dello Stato", pubblicazione da lui fondata e diretta, oltre che segretario dei sindacati fascisti di Firenze. Ci stimola a ciò ritenere lo strabiliante saggio significativamente intitolato "Elogio di Farinacci" apparso in due puntate su "la Rivoluzione Liberale".

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Giorgio Pini, lo abbiamo detto, è un superatore senza rinnegamenti della guerra civile e dello spirito devastante che la presiede e la presidia. Chi sa poco o nulla di lui non tarda ad avere di ciò contezza fin da pagina otto di "Fascisti rossi", dove il Buchignani si sofferma nella descrizione del primo colloquio a Botteghe Oscure di una rappresentanza del vermiglio Littorio con nientepopodimeno Luigi Longo, vice segretario del PCI oltre che componente del massimo summit resistenziale. Di tale rappresentanza il membro più autorevole è, appunto, il Pini. Insieme a lui ci sono, ovviamente, Stanis Ruinas -cui facciamo gli auguri, sia pure alla memoria, perché nei primi mesi del '99 compirà il centenario-, il già comandante della "Gioventù Italiana del Littorio" Orfeo Sellani, Fausto Brunelli, giovane intellettuale collaboratore di "Radio Milano" della RSI e della rivista "Dottrina del fascismo", organo della "Scuola di Mistica fascista".

Ma il sodalizio critico fra il Sardo e l'Emiliano risale ai tempi della Repubblica Sociale Italiana. Chi compulsa il libro cui facciamo riferimento lo apprende a pagina 20, scorrendo un veloce brano dedicato ad alcuni elementi della biografia, a certi aspetti della personalità del giornalista e scrittore di Usini in provincia di Sassari. Da esso espungiamo le seguenti parole: «Fascista di sinistra, mussoliniano e repubblicano, da sempre avversario irriducibile delle "demoplutocrazie" occidentali ed in particolare della Gran Bretagna e degli Stati Uniti, Ruinas aderì alla Repubblica Sociale Italiana, sulla cui vicenda, nel '46, pubblicò il volume (il primo dedicato all'argomento) "Pioggia sulla Repubblica". Il libro è la testimonianza appassionata e amara di uno scrittore che aveva creduto nella repubblica di Mussolini, vedendo in essa un ritorno al fascismo delle origini e la possibilità di realizzare alla fine quella rivoluzione sociale per la quale si era sempre battuto. Egli parteggia infatti per la sinistra saloina (Giorgio Pini, Carlo Borsani, Concetto Pettinato, Eugenio Montesi), la quale si batte per la socializzazione e nello stesso tempo cerca un accordo con gli antifascisti per impedire la guerra civile. L'intellettuale sardo, come sosterrà ripetutamente su "il Pensiero Nazionale", è fautore di un superamento dell'antitesi fascismo-antifascismo e di una alleanza fra «repubblichini» e partigiani, ai suoi occhi entrambe forze popolari, vive e sane, mosse da un comune ideale rivoluzionario, le quali avrebbero dovuto unirsi contro i capitalisti e gli opportunisti dell'uno e dell'altro fronte».

Bene: in queste righe c'è il doppio concentrato, l'estrema sintesi di buona parte del Pini-pensiero, strettamente collegato alla prospettiva elaborata da Antonio de Rosas alias Stanis Ruinas. Come detto, una sola cosa li scollega, però molto importante: il riluttare dell'ex-sottosegretario agli Interni alla immersione nella logica dell'alleanza stricto sensu con un partito ispirantesi al dettato marxista-leninista-stalinista e, per di più, dichiaratamente ossequiente alla «funzione guida» di due realtà straniere: un partito (il PCUS) e uno stato (l'URSS). Intendiamoci: la caratura di sinistra di Giorgio Pini è certa, inossidabile; tuttavia non rapportabile alla vulgata togliattiana, inficiata, nel giudizio sul mondo cui egli è non solo sentimentalmente legato, -e su coloro che ad esso fanno riferimento- da troppe banalizzazioni in chiave, come già rilevato, «assolutoria», «purgatoristica», «lavacratoria». Men che meno vincolabile alla vulgata secchiana, perché Giorgio Pini -sia detto senza la benché minima intenzione di innescare polemiche fuori luogo e, soprattutto, fuori stagione; o di infliggere vulnera a questa o quella immagine- non è Davide Lajolo, capace di trasformare un «Duce, principe di giovinezza» nell'«appeso per i piedi di Piazzale Loreto» o nell'«uomo del balcone» nel giro di un paio di anni. E di chiedere conto ai fascisti di loro veri o presunti «peccati» dopo averli, con penna e favella, indotti a «peccare». Non è neppure Giorgio Bocca, segretario dei GUF (Gruppi Universitari Fascisti) di Cuneo, fromboliere razzista sulle pagine di giornali e giornaletti, scazzottatore (nel '43!) su di un treno -insieme ad altri giovanotti di belle speranze e di brutte esperienze- di un malcapitato industrialotto di provincia aggredito come disfattista per essersi permesso di dire che la guerra era da considerarsi perduta. A scontro fratricida esaurito, ecco il Bocca definire sprezzantemente «moralistiche» le critiche alla beccheria di piazzale Loreto e dichiararsi d'accordo con l'assassinio di Giovanni Gentile, oggettivamente disarmatore dell'antifascismo con la sua predicazione contro la guerra civile, con il suo incitamento alla non-violenza, con i suoi interventi diretti a salvaguardare, a salvare gli antifascisti caduti nelle mani degli avversari.

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In poche e povere parole, una sorta di rapidissimo vademecum dell'erresseismo piniano:

A) Rivendicazione sul piano storico della RSI e dei suoi postulati.

B) Indipendenza assoluta dai due blocchi, sia in politica estera che in politica interna. Unità e indipendenza dell'Europa dai due predetti blocchi.

C) Repubblica presidenziale fondata sullo Stato Nazionale del Lavoro.

Trattasi di enunciazioni estrapolate da una sorta di «manifesto» che vede la luce il dì primo luglio dell'anno di grazia 1956 a conclusione di un convegno al quale hanno dato vita i delegati di due formazioni oppugnatrici del neofascismo missino, ormai tracimato definitivamente a destra, i "Gruppi di Pensiero Nazionale" e i "Gruppi di Socialismo Nazionale". Costoro si sono convocati nella metropoli petroniana al fine di concordare un'azione comune e di «unire tutte le forze in un Movimento di Sinistra Nazionale». È chiaro che detta operazione è resa possibile dalla rinuncia di Ruinas e sodali alle pregiudiziali filocomunista e filosovietica. Tuttavia essa lascia il tempo che trova, perché nell'«ambiente» i vari Almirante, De Marsanich, Michelini e via elencando hanno ormai chiuso la stalla con grande accuratezza onde impedire la fuga dei buoi. Di più: il virus del conformismo trasformistico, cialtrone e perbenista miete vittime anche fra le più solide reputazioni di fedeltà agli ideali individuabili nella riserva indiana dei reietti per fascismo. Del resto, chi volete che si esponga per dare una mano -e una lira- a codesta Giarabub della coerenza Littoria che resiste ai margini di una società politica dominata da una verità ufficiale, di Stato, impermeabile perfino alla analisi marxista, refrattaria addirittura allo spirito laico, insofferente al personalismo cristiano innervato sulla Parola, oppugnatore della eticità della tolleranza, catafratta con valori che furono autentici ma poi degenerati in tabù, feticci, oleografie, princisbecchi?

Qui tuttavia importa segnalare, nella delineazione dei contenuti ideologici abbozzati col documento neo-erreista, la mano felice di Giorgio Pini, indicativa di una elaborazione per alcuni versi coincidente con quella dei socialismo post-frontista e con la variegata sinistra cattolica, ecclesiale, democristiana. È questo il Pini di cui già detto, che firma sulla rivista ruinasiana i suoi pezzi in appoggio «esterno» al centro sinistra non neo-centrista, avanzato, con lo pseudonimo Giorgio Lombardo.

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Si tenga presente che l'ex-braccio destro -o, meglio, sinistro- di Mussolini gode di considerazione, se non proprio di amicizia, nel campo della Sinistra intesa nel suo insieme proprio perché nei rapporti che gli capita di intrattenere con essa tiene, e mantiene, la testa eretta e la spina dorsale dritta, sacrosantemente intrattabile com'è, per quanto attiene alla esigenza etica, estetica, politica della pari dignità. Il rispetto che per lui si nutre è tanto maggiore in quanto, pur mai lasciandosi andare a biliose e agitatorie manifestazioni di anticomunismo e antisocialismo viscerale, non teme di criticamente motivare la sua diversità da PCI e PSI e di trarne le naturali conseguenze. E, pur non tralasciando di esprimersi e comportarsi con la correttezza tipica di un gentiluomo di antico stampo verso interlocutori dell'opposta sponda, evita ogni atteggiamento che possa comunque somigliare a un corteggiamento, a una disponibilità eccessiva e acritica, a corrività e lassismo ideale. È distaccato; misurato nelle concessioni come nelle richieste; ha in uggia e in dispetto il «perdonismo» di certi avversari che presumono di essere generosi senza veramente esserlo né punto né poco.

Prova provata di tale suo modo di venire in evidenza un breve ma significante brano estratto dal Buchignani dalle "Memorie" dell'ex-gerarca bolognese, dedicato a una snella illustrazione -pochi, sobri tocchi- di taluni aspetti della personalità di Fausto Brunelli. Vediamo: «Egli progettava, insieme a Stanis Ruinas e a Orfeo Sellani, un tentativo di distensione verso sinistra, onde superare l'animus della guerra civile. Fui d'accordo perché consideravo pericolosa una distensione limitata a destra col rischio di creare un blocco conservatore, prospettiva che nettamente respingevo (contrariamente a quanto posto in essere dal suo concittadino Gianfranco Fini, schierato a guardia dei 14.400 miliardi, dell'impero mediatico, delle ville hollywoodiane del suo datore di lavoro di Arcore - N.d.R.). Non ricordo per quale tramite (mi sembra attraverso Gianni Puccini) i tre riuscirono a combinare un appuntamento con Luigi Longo nella sede del Partito comunista in via delle Botteghe Oscure. Mi chiesero di andare con loro e io aderii nella speranza di ottenere indicazioni utili al rinvenimento della salma del mio povero Gianni (...) Brunelli era un giovane colto, ambizioso, irrequieto: Ruinas un sardo dal fisico magro e minuto, giornalista vivacemente polemico. Egli mirava a pubblicare una rivista politica sostenitrice della distensione, e si illudeva di poter essere aiutato da Botteghe Oscure senza subire condizionamenti. Fu così che l'11 febbraio '47, osservati con sospettosa curiosità dalle poche persone che incontrammo nell'atrio e sulle scale della sede comunista, ci presentammo a una segretaria tanto ignara del nostro essere che ci accolse con la qualifica di "compagni"».

Ma vediamo qualcosa concernente quell'abboccamento nella sede del massimo partito della sinistra italiana come risulta da un resoconto di Fausto Brunelli curiosamente pubblicato dopo qualche mese sul quotidiano romano "Il Tempo", tutt'altro che sostenitore della pacificazione a sinistra fra «Neri» e «Rossi». Dice dunque il Brunelli: «Il colloquio ebbe un tono di notevole cordialità. Rimanemmo d'accordo sulla necessità di avvicinare le masse degli ex-fascisti alle sinistre e si parlò anche di un nuovo giornale da pubblicare a tale scopo. Longo disse che il PCI non avrebbe dovuto figurare in nessun modo come promotore di questa iniziativa, ma ci avrebbe aiutato sollecitando qualche "industriale democratico" a finanziare il nuovo giornale». Maestro concertatore direttore d'orchestra proprio il Brunelli. Ma esaurito che fu il colloquio e abbozzata una prima fase operativa, ecco cominciare le dolenti note. Seguiamo ancora qualche frase del direttore, in pectore e inesorabilmente destinato a restar tale: «non mi era facile trovare redattori e collaboratori per un giornale che sarebbe stato finanziato dai comunisti sia pure a mezzo di interposte persone. Tra i "camerati" si era sparsa ormai la voce degli approcci avvenuti. Sapevano che io ne ero stato uno dei protagonisti e facevano il possibile per creare il vuoto attorno a me». Come si vede, i cacicchi della destra neofascista non stavano con le mani in mano. Soprattutto, non perdonavano chi tradiva il loro... tradimento. Siamo proprio in «zona Gianfranco Fininvest», anche se allora l'attuale luogotenente di Berlusconi si trovava ancora ben lontano dalla culla e il povero Almirante era distante trilioni di anni luce dall'idea di farci il regalo che poi ha fatto -a tutti, missini e no- con il congresso di Sorrento dell'ormai remoto '89. Che il Signore lo abbia in gloria e i suoi Morti lo perdonino!

Ma in che stato d'animo Giorgio Pini partecipava a questi incontri ravvicinati dell'ennesimo tipo, ossia quelli del PCI con l'ulteriore fascismo post-seconda guerra mondiale? Vediamo cosa ce ne dice Paolo Buchignani a pagina 20 di "Fascisti rossi": «Dopo quell'incontro con Longo ce ne fu un altro, quello già ricordato, più importante, dell'11 febbraio successivo. Ad esso non prese parte Manunta, ma questa volta il Brunelli si presentò al numero due del PCI accompagnato da Stanis Ruinas, Orfeo Sellani e Giorgio Pini. Quest'ultimo, tuttavia, non era interessato ad una collaborazione con le sinistre, ma soltanto ad una collaborazione con tutto il fronte antifascista e soprattutto all'acquisizione di notizie utili al rinvenimento della salma di suo figlio Gianni, ucciso dai partigiani».

Qui chiudiamo questa prima puntata di una modesta ma appassionata rievocazione della figura morale, politica, intellettuale di Giorgio Pini, personaggio sul quale è sceso un ingiusto e non utile oblio. Non utile a nessuno: né a erresseisti né a resistenzialisti, né a fascisti né ad antifascisti. E nemmeno a quella sinistra -e ai suoi eredi- che pure egli ebbe a criticare rifiutando l'appiattimento sulla sua ideologia e sulla sua logica. Non certo in nome dell'antisocialismo o dell'anticomunismo -ché mai riluttò al dialogo e al confronto con PSI e PCI- ma in ragione della onesta, motivatissima, ineludibile esigenza di pensare a una sinistra diversa ancorché non contrapposta, fondata sui valori dell'autonomia nel giudizio storico, della legittimità del rifiuto di smarrire radici e identità, della peculiarità propositiva a livello elaborativo e programmatico, della pari dignità nell'approccio e, se del caso, nella collaborazione. Una sinistra, dunque, nazionale-popolare, antagonista, rivoluzionaria, fuori dai blocchi egemonizzati dalle superpotenze, impegnata nel senso del completamento del processo risorgimentale, fautrice di una egemonia culturale italiana.

Una domanda all'amico Buchignani: Perché mai l'uso ripetuto del termine «repubblichino», comunemente brandito con disprezzo dopo essere stato popolarizzato da Umberto Calosso dai microfoni di Radio Londra? Possibile mai che un intellettuale del suo spessore ritenga inevitabile il cedimento alla cultura dominante, così compromettendosi con il conformismo più banale e ripetitivo?

Enrico Landolfi

 

 

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