da "AURORA" n° 52 (Novembre 1998)

RECENSIONI

 

Nae Ionescu

Il fenomeno legionario

Edizioni all'insegna del Veltro, Parma '96   pp. 102

 

Negli ultimi decenni, la destra italiana si è più volte richiamata al «fenomeno legionario» romeno, cercando, di arruolare post mortem nelle proprie fila la figura di Corneliu Zelea Codreanu, il Capitano della Guardia di Ferro. Siccome ricorre quest'anno il sessantennale della tragica morte di Codreanu, alcuni pubblicisti di orientamento clericale e reazionario hanno colto l'occasione per riproporre la loro interessata interpretazione di questo fenomeno storico. Anzi, uno di loro (sul mensile della cosiddetta «destra sociale») ha accusato «ex-fascisti paganoidi» (?) e «nazionalbolscevichi» di aver fatto «operazioni di confusionarismo illimitato» nel presentare al pubblico italiano i testi e i documenti del movimento legionario. Solo che poi il medesimo pubblicista non trova di meglio, per suffragare le proprie interpretazioni, che riportare i brani di un'intervista effettuata proprio da un «nazionalbolscevico», nonché le testimonianze di un «paganoide» quale Julius Evola! D'altronde, il grado di coerenza di questi bizzarri esaltatori di Codreanu risulta già evidente dal fatto che essi, cattolici integralisti per i quali «extra ecclesiam nulla salus», non trovano niente di meglio che, rendere omaggio ad un ortodosso, quindi al credente di una confessione che da un punto di vista cattolico è quanto meno «scismatica». (Senza parlare del fatto che tra i legionari romeni vi furono anche dei musulmani, uno dei quali fu promosso al grado di «istruttore legionario»).

Arriva dunque al momento giusto questa pubblicazione del fenomeno legionario, un volume nel quale sono state raccolte le conferenze che il filosofo Nae Ionescu tenne al suoi compagni di prigionia nel campo di concentramento di Miercurea Ciuc. Da questo libro, gli integralisti cattolici potranno apprendere che Nae Ionescu riteneva addirittura incompatibile la qualità di cattolico con quella di romeno e i reazionari scopriranno che egli rifiutava recisamente di collocarsi «a destra».

Infatti, in quanto esponente di una forma di «Lebensphilosophie» e capofila di una sorta di «rivoluzione conservatrice» romena, egli mirava a realizzare una sintesi armonica tra un nazionalismo sottratto all'egemonia reazionaria e una versione della modernità che prescindesse da liberalismo e democrazia parlamentare. Ad esempio, scriveva nel 1933: «Io cerco di pensare sulle realtà politiche, per delimitare problemi e trovare soluzioni di governo. Sono di destra o di sinistra? Non lo so proprio. Perciò risparmiatemi queste domande. Non per altro, ma non hanno nessun senso».

Concetti analoghi venivano contemporaneamente espressi da Vasile Marin, uno dei luogotenenti di Codreanu che collaborava con Nae Ionescu alla redazione di "Cuvântul". Infatti, secondo Vasile Marin, la definizione della Guardia di Ferro, come movimento «di destra» mira a «presentare l'azione legionaria come un movimento reazionario». Invece, come il fascismo e come il nazionalsocialismo, il movimento legionario lotta per la creazione dello Stato totalitario (...) La concezione totalitaria della riforma dello Stato ci impedisce di accordare una qualunque importanza a queste nozioni (di destra e di sinistra, N.d.R.), prive per noi di significato. (...) Noi non possiamo essere né a destra né a sinistra, per la buona ragione che il nostro movimento abbraccia tutto quanto il piano della vita nazionale. (...) Sinistra e destra? Dove sono? (...) Quando la stessa rivoluzione russa si nazionalizza intensamente (...) e quella fascista si socializza sempre più profondamente, che senso hanno più le etichette desuete di destra e di sinistra, per essere ancora applicate alle azioni e ai regimi politici? Un solo senso: la diversione!».

Forse sarebbe esagerato definire «nazionalbolscevichi» Nae Ionescu e Vasile Marin; ma esagerato ci pare anche il tentativo di farne degli antesignani di una destra che, nonostante le etichette, è sempre meno nazionale e sempre meno sociale.

 


 

Mario Castellacci

La memoria bruciata

Mondadori, 1998

 

Mario Castellacci nasce a Reggio Calabria nel 1924 da genitori toscani. Nel settembre del '43 si arruola tra i volontari della Repubblica Sociale, ed è autore della famosa canzone dei giovani «repubblichini», "Le donne non ci vogliono più bene". Oggi Castellacci è coautore del Gruppo Teatrale "il Bagaglino" con Pingitore, Palumbo, Cirri.

 

"La memoria bruciata" non è solo un libro di ricordi di guerra, (e di una guerra civile che durò dal lontano '43 fino al dopoguerra avanzato) o di un periodo nel quale non era facile sfuggire alla morte, alle stragi e alla fame. Fu una vera odissea che arrivò fino al '48 in molte zone del nord Italia anche oltre per questi poveri e giovani soldatini sconfitti. Il libro ci rivela anche, nel racconto dell'infanzia dell'autore, l'Italia degli anni 30, quel «ventennio» pieno di promesse che faceva vivere dignitosamente la dura realtà quotidiana anche attraverso la sensazione palpabile del risveglio di un popolo dopo millenni. La sensazione che, finalmente, il popolo Italiano fosse «guidato» a prendere in mano le redini del proprio destino.

Nel ritratto di famiglia dei Castellacci di quei tempi si scopre il padre di «Sgraub» (soprannome prima subìto poi amato dall'autore), don Raffaello, commerciante senza fortuna di marmi di Carrara in Calabria, più intento a coltivare quella cultura Classica che il Liceo del tempo insegnava che a far fronte ai mille problemi e della vita quotidiana. Anche dopo il ritorno dei Castellacci in Versilia, nei primi anni 30, per riprendere una esistenza meno tribolata, Sgraub-Castellacci ebbe però sempre nel cuore la «solare» Calabria.

Ma veniamo al cuore del racconto dell'autore: la sua presenza tra quei giovani «allievi ufficiali della G.N.R.». Quella scelta viene accompagnata da un amor di Patria ed un rigore morale che emoziona certamente lettore amico. Davvero intensi di vita e passione quei mesi quando, soprattutto attraverso i canti militari, si riaffermava il diritto ad esistere del soldato Italiano. «... Ci siamo ancora non è vero che l'Italia si è dissolta! Vedete badogliani e tedeschi, quella bandiera in testa al reparto? È la bandiera italiana». Quei canti, con le tante tonalità dialettali fuse insieme, testimoniano che in tanti giovani, dopo quel maledetto «otto settembre '43», la volontà di difendere la Patria e l'onore d'Italia era più viva che mai. Erano romani, calabresi, sardi, veneti, piemontesi, romagnoli, lombardi, pugliesi, emiliani, triestini, dalmati e istriani. Questi poveri e isolati soldatini, male armati, spesso solo con il vecchio moschetto, vollero contendere quel po' d'Italia che ancora le forze «alleate» non avevano occupato anzi «liberato» ... Spesso odiati da altri Italiani e malvisti dall'alleato germanico, insultati e derisi da tanti Italiani che non capivano perché quei giovani non si adattassero a metter fine ad una guerra «inutile e già persa». (Castellacci ricorda il tragico episodio del bombardamento di una scuola elementare di Gorlia-Milano in cui morirono molti bambini e il grido di «assassini» rivolto ai giovani soldati che portavano soccorso dai familiari esasperati e sconvolti da quel feroce attacco aereo «alleato»). Questo fu il prezzo terribile che dovettero pagare quei giovani per la scelta di militare dalla parte dei vinti. (Un prezzo che dovette pagare, in un episodio simile a quello narrato da Sgraub-Castellacci anche il sottoscritto, giovanissima Fiamma Bianca della R.S.I.). Pure questi giovani furono probabilmente la cosa più pura che l'Italia espresse in quel tragico periodo. Rinacque, in quei tragici momenti, anche la voglia fortissima di una nuova giustizia sociale che superasse quanto non fatto durante il precedente ventennio recuperando lo Spirito rivoluzionario e socializzatore perdutosi strada facendo.

Tutto misero in gioco quei giovani: vita, onore, la speranza di una Patria più giusta. La storia decise diversamente dalle loro speranze ma nelle testimonianze come quelle di Castellacci si ritrovano quei momenti, quei valori così radicati nei nostri cuori.

Grazie, caro «Sgraub» per il tuo bel libro e per quella tua indimenticabile canzone strafottente che faceva «Le donne non ci vogliono più bene perché portiamo la camicia nera».

Bruno Rassu

 

 

articolo precedente