da "AURORA" n° 53 (Dicembre 1998)

POLITICA E SOCIETÀ

 

Immigrazione: demagogia ed emergenza

 

Alceste de Ambris

 

 

È incontestabile, nonostante le querule obiezioni della sig.ra Jervolino e il glaciale approccio dell'on. D'Alema, che tra l'immigrazione clandestina e alcune delle emergenze nazionali esista uno stretto rapporto di causa-effetto.

Le connessioni tra il diuturno assalto alle coste pugliesi, calabresi, siciliane nonché al confine nord-orientale di quest'inarrestabile orda di diseredati e la gran parte dei drammatici problemi nazionali, sono solari: qualora si voglia mettere nel conto l'impatto di questo assalto con tutta una serie di preesistenti situazioni di difficoltà quali il precario controllo del territorio da parte degli organi preposti, la nota penuria di posti di lavoro, la cronica carenza abitativa. La recente legge sull'immigrazione clandestina, grondante demagogia buonista, si è rivelata del tutto inadeguata a fronteggiare la complessità dei problemi che l'immissione continua di migliaia di poveri diavoli crea all'interno di una società già duramente provata da una selvaggia ristrutturazione produttiva e da un risanamento economico in virtù del quale molti degli ammortizzatori sociali, che avevano garantito i ceti più deboli negli ultimi quarant'anni, hanno perso larga parte della loro efficacia.

La percentuale di italiani poveri s'innalza progressivamente e le stesse fonti governative ci informano che otto milioni di italiani sono nella sostanza esclusi dal bengodi della società consumista nella quale vivono.

Alla insufficienza delle leggi italiane e alla solidarietà pelosa e meschina che contraddistingue alcune frange della sinistra e del cattolicesimo si somma il criminale comportamento della grande maggioranza dei paesi rivieraschi del Mediterraneo (Turchia, Tunisia, Albania, Jugoslavia) per i quali l'immigrazione clandestina rappresenta la valvola di sfogo di inestricabili problematiche interne e il traffico dei «nuovi schiavi» è una dei tanti modi (insieme al traffico d'armi e di droga) di foraggiare con valuta pregiata le corrotte burocrazie strettamente collegate con le organizzazioni che gestiscono il traffico di carne umana.

Non è affatto credibile che regimi autoritari, fortemente condizionati dal potere militare, come Tunisia, Jugoslavia e Turchia non abbiano i mezzi per mantenere un più stretto controllo di porti e porticcioli, impedendo ad un naviglio, spesso di notevole tonnellaggio, di traghettare sulle nostre coste centinaia di migliaia di persone.

Al governo italiano, se solo lo volesse, non mancano certo gli strumenti per esercitare una forte pressione su questi paesi; ciò che manca è la volontà politica e la percezione di quali sono, e ancor più saranno in futuro, i costi per gli stessi extracomunitari di questo incontrallato afflusso. Ciò è ampiamente dimostrato dai dati sull'immigrazione diffusi dall'ISTAT, poche settimane prima della sanatoria generalizzata spacciata per regolarizzazione dei «cosiddetti aventi diritto»: ossia gli immigrati che pur non rientrando tra i regolari dimostrassero di essere in Italia prima del 30 marzo. L'ISTAT dava una cifra di clandestini presenti sul territorio nazionale compresa tra le 250mila e le 270mila unità, ma quelli che presero d'assalto le questure alla ricerca dell'ambita regolarizzazione erano infinitamente di più, tantochè le domande -più o meno documentate- presentate sono state 350mila, ed è poco credibile che l'intera massa dei clandestini si sia precipitata nelle questure, essendo noto che tra i non aventi diritto alla regolarizzazione vanno comprese quelle decine di migliaia di clandestini ai quali nell'ultimo anno è stato notificato un provvedimento di espulsione, sia pure rimasto lettera morta.

Questo caotico panorama stride con la tranquillità ostentata dal Ministro degli Interni e dal Presidente del Consiglio che sottovalutano un'emergenza sulla quale i freddi numeri gettano una luce parziale e sfocata anche in virtù della cronica inadeguatezza nel controllo del territorio: oltre il 50% dei detenuti nelle carceri sono extracomunitari; più del 40% dei reati di cui sono stati individuati gli autori sono opera di immigrati; dati comunicati delle forze di polizia ci dicono che l'80% del traffico di stupefacenti è controllato da bande marocchine, albanesi, tunisine e centroafricane le quali avrebbero spodestato le varie mafie autoctone; la prostituzione è, al 90%, extracomunitaria, con tutti i problemi anche sotto il profilo sanitario. Infatti, delle oltre 50mila prostitute a tempo pieno che affollano le periferie delle metropoli e della provincia italiana ben 45mila sono extracomunitarie.

Cifre scolvolgenti, appurato che stime ufficiali indicano in 1.800.000, meno del 2% della popolazione italiana, il numero degli immigrati regolari e irregolari presenti sul territorio.

Una tranquillità colpevole quella dei responsabili politici se si tiene conto che la tipologia di alcuni reati, dei quali gli extracomunitari detengono il monopolio, hanno un impatto, anche per ragioni culturali, devastante e porta ad un rifiuto generalizzato del «diverso». Reati come «la riduzione in stato di schiavitù», ad esempio, del quale si sono rese colpevoli bande tunisine, albanesi e marocchine che utilizzano minorenni per la questua, il lavaggio vetri, i borseggi, i piccoli furti costringendoli in condizioni di vita subumane: le centinaia di donne, spesso minorenni, «acquistate» nei paesi d'origine e costrette a consegnare i frutti del loro «lavoro» a padroni senza scrupoli che hanno su di loro potere di vita e di morte. L'immissione incontrollata degli extracomunitari ha portato in pochi anni alla degradazione di intere periferie urbane già gravate da una ristrutturazione economica che produce precariato e insicurezza tra la popolazione autoctona; ciò avviene anche in aree geografiche del paese storicamente arretrate e ben lungi dall'aver raggiunto standard economici tali da permettere, senza brutti contraccolpi, l'irruzione di forza lavoro a basso costo in un mercato già saturo.

È sommamente falso sostenere, quale attenuante all'invasione extracomunitaria la necessità di manodopera disponibile a lavori definiti, a torto, «degradanti» e rifiutati dai nostri connazionali. In realtà non è che gli italiani rifiutino di fare i camerieri o i lavapiatti, gli infermieri o di raccogliere pomodori; essi, per fare ciò, pretendono condizioni di lavoro adeguate, garanzie e i diritti previsti dalla vigente legislazione. Non si può pretendere che un italiano vada a raccogliere pomodori con una paga oraria in nero di 3.000 lire l'ora o a lavorare in una fonderia in cui le garanzie di sicurezza sono del tutto disattese.

Non ha alcun senso, ed è una falsificazione storica, paragonare l'emigrazione italiana di fine Ottocento e primo Novecento nelle Americhe, e quella del secondo dopoguerra in Nord Europa, all'attuale afflusso incontrollato di clandestini. Del tutto diverse erano le condizioni di entrata dei nostri connazionali nei paesi ospitanti, diverso l'approccio, anche psicologico, dei nostri connazionali con quelle realtà tanto diverse dall'italietta giolittiana. Tanto per essere precisi, l'ingresso negli Stati Uniti e in Canada era già allora contingetato, gli immigrati erano sottoposti dopo la traversata ad una lunga quarantena e, anche nel caso dell'emigrazione in Sud America, si tratta di Stati in forte deficit di popolazione, con immensi territori da colonizzare ed enormi risorse da sfruttare, ne è riprova il fatto che circa la metà della popolazione di una grande nazione come l'Argentina e composta quasi per metà di discendenti di immigrati italiani.

Anche l'emigrazione italiana in Nord Europa fu fin dall'inizio regolamentata: accordi intergovernativi con Francia, Germania, Belgio, ecc. regolamentavano il flusso dei lavoratori che partivano del paese d'origine muniti di passaporti vistati dalle ambasciate dei paesi ospitanti e, frequentemente, con contratti di lavoro già assicurati. Va rimarcato che, prima del cosiddetto «miracolo economico» degli Anni Cinquanta e Sessanta, furono i vari Stati europei, bisognosi di manodopera, a sollecitare e favorire in tutti i modi l'immigrazione dei lavoratori italiani. Nulla della nostra storia di emigranti vi è di anche lontanamente simile all'afflusso caotico e incontrollato del quale siamo vittime. Gli emigranti italiani erano identificabili e rintracciabili, pagavano regolarmente le tasse: cosa ben diversa è riversarsi nel territorio di uno Stato -a parole sovrano- dopo aver distrutto i documenti personali per rendere problematica l'identificazione (come usa fare, in vista delle coste italiane, la maggioranza dei clandestini), con scarsissime possibilità di alloggio e lavoro (solo 250mila immigrati risultano occupati e pagano le tasse), spesso già ostaggio della criminalità organizzata e comunque destinati ad infoltire le schiere dei lavavetri, dei commercianti illegali, delle prostitute, dei mendicanti, dei microcriminali.

Noi riteniamo sia giusto ribadire alla sig. ra Jervolino e all'on D'Alema che tutto ciò è indegno di una nazione civile. Indegno, beninteso, e lo diciamo con estrema chiarezza non solo rispetto alla degradazione della società civile alla quale stiamo assistendo ed ai rischi connessi, non del tutto peregrini di scontri generalizzati tra italiani ed immigrati, specie nelle grandi città, ma rispetto alla situazione oggettiva di migliaia di extracomunitari costretti in un'intollerabile situazione di marginalità e degrado: sfruttati da italiani e da loro connazionali senza scrupoli, tenuti al di fuori dalla bengodi consumistica alla quale solo una ristretta èlite criminale si è conquistata il diritto di accedere.

Le soluzioni, a nostro avviso, non esistono. O per meglio dire non esistono persistendo, da parte della classe politica, l'attuale approccio al problema. Le conseguenze dell'inerzia governativa possono essere devastanti e rischiano di compromettere seriamente il presente e il futuro della nostra nazione. La società multirazziale vagheggiata da tanta parte della sinistra è pericolosa ed introduce elementi di conflittualità permanenti nel corpo sociale. La convivenza tra culture diverse e spesso antagoniste porta alla disgregazione del vivere comunitario nel quale giocoforza il comune sentire e la condivisione dei valori sono un dato fondamentale. In nessun paese il minestrone etnico è stato un buon affare: dopo secoli di convivenza le difficoltà non vengono diluite, ma si accuiscono e si sommano.

Queste affermazioni non saranno «politicamente corrette», ma ci sembrano storicamente inconfutabili.

Alceste de Ambris

 

 

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