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anno 1 * n° 1

EDITORIALE

 

In nome del Nulla

 

Vi è qualcosa di smisuratamente paradossale negli aut-aut di Fausto Bertinotti risultati letali al governo dell'Ulivo. Le bizzarrie caratteriali del segretario rifondarolo da sole non bastano a spiegare la scelta, per alcuni versi suicida, del benservito a Romano Prodi. Non perché, come sostiene il buon Cossutta, il Professore bolognese, rappresentasse il male minore rispetto al rischio di rimettere in sella le destre giudicate «democraticamente inaffidabili», in una fase storica in cui le forze autenticamente popolari sono costrette alla difensiva, ma in ragione del fatto che il conto della «crisi» è stato interamente presentato proprio a colui che l'ha scientificamente preparata e fortemente voluta. Un prezzo, a ben vedere, di cui la scissione cossuttiana rappresenta la cifra minore -pur considerando non marginale la perdita di oltre due terzi della rappresentanza parlamentare- giacché la parte più consistente del conto è quella relativa alla reazione di una militanza e di un elettorato disorientati delle troppe giravolte al prossimo appuntamento elettorale.

Una militanza ed un elettorato costretti per oltre un biennio ad ingoiare rospi dalle notevoli dimensioni, quali sono state le due leggi finanziarie precedenti ed a plaudire politiche di risanamento forzato rispetto alle quali tutto veniva sacrificato: dalla lotta alla disoccupazione agli urgenti investimenti per lo sviluppo delle regioni meridionali.

Politiche i cui capisaldi sono stati il contenimento del «costo del lavoro» e la massimizzazione dei profitti delle imprese e in virtù dei quali sono state prodotte leggi e leggine tese a favorire quella parte dei poteri forti (il «capitalismo ecumenico» degli Agnelli e dei De Benedetti) la cui contiguità con i partiti dell'Ulivo è del tutto palese.

Né la politica estera del duo Prodi-Dini, sempre in servile sintonia con gli interessi della Superpotenza, può essere stata di qualche soddisfazione per i militanti di RC da sempre schierati in posizione avversa alle politiche aggressive dell'Alleanza Atlantica. Perché è pur vero che in occasione delle ricorrenti crisi internazionali Bertinotti ha scisso le proprie responsabilità da quelle del governo, ma è altrettanto vero che la sua presa di distanze non si è mai tradotta in iniziativa politica: non ha mai costretto, ad esempio, il centrosinistra a discutere in parlamento la questioni delle basi USA e NATO in Italia.

Molte sono state la iniziative demagogiche, tipo quella della manifestazione all'esterno della base di Aviano, ma Bertinotti non si è mai sognato di usare il suo pur notevole potere di interdizione parlamentare per attenuare la condizione di sudditanza economica e geopolitica alla quale è sottoposto il nostro Paese.

In sintesi, Rifondazione ha supinamente subito le imposizioni uliviste essendo stato il suo temporaneo sganciarsi dalla maggioranza, su alcune scelte, del tutto strumentale e ben sapendo che le destre si sarebbero precipitate in soccorso del governo nel nome di quella sedicente solidarietà occidentale che in Italia accomuna governo ed opposizione.

Se questo è stato, e lo è stato in tutta evidenza, il percorso di Rifondazione in questi due anni di contiguità governativa, ancora meno si comprende lo strappo improvvido e intempestivo di Bertinotti il quale, discettando sulla «non-ricevibilità» delle proposte di Prodi, non ha fornito nessuna giustificazione plausibile per una scelta della quale ci sfuggono sia le valenze tattiche che le prospettiva strategiche.

L'unica spiegazione plausibile è che nelle grette analisi bertinottiane abbia assunto forma compiuta un disegno nel quale si intravveda, dopo lo sconquasso prodotto nella precedente area di riferimento elettorale, la possibilità di costruire un soggetto politico «ideologicamente» meno rigido di Rifondazione e del tutto sbilanciato sul versante «movimentista» e «radicaleggiante» imperniato su un rapporto organico con le cosiddette «aree di malessere giovanile» dei Centri sociali e degli Squatter, ritenute maggiormente progressive e meno ossessionate sul piano ideologico della militanza di Rifondazione, nella quale è pur vero che le ragioni di disagio sociale continuano a convivere con le nostalgie e i sogni di rivalsa degli ultimi dinosauri del marxismo.

Questa è l'unica spiegazione plausibile delle scelte dell'ex-socialista lombardiano, della sua sordità ai richiami di Cossutta il quale paventava, giustamente, col venir meno del governo Prodi, l'apertura di una fase di instabilità che, nel migliore dei casi, spalancava le porte del potere ad un ritorno di Cossiga e, nel peggiore, apriva la strada ad elezioni anticipate in cui un centrosinistra dilaniato dalle lotte intestine e indebolito dalle politiche antipopolari, imposte dal risanamento dei conti pubblici, sarebbe uscito sconfitto e il governo del paese di nuova consegnato alle destre.

* * *

Se il quadro che abbiamo delineato ha un fondo di verità, l'imbecillità politica di Fausto Bertinotti è solare; la particolare situazione parlamentare nella quale i suoi voti erano determinanti, l'incaponirsi, non senza una sua rispettabile coerenza, di Romano Prodi sulla maggioranza del 21 aprile, davano a Rifondazione l'opportunità di incidere pesantemente e quotidianamente sugli equilibri economico-politici di un paese a «capitalismo avanzato» e la ponevano nelle condizioni di marcare strettamente un PDS più che mai in crisi di idea e identità in cui la deriva clintoniana di Veltroni si somma ai tatticismi di un D'Alema, già fortemente indebolito dell'infruttuoso tiramolla bicamerale con Silvio Berlusconi.

D'altro canto se rottura ci poteva e doveva essere questa andava realizzata su questioni più rilevanti; queste non sono mancate -ad esempio sulle due precedenti finanziarie e su alcune scelte indecenti in politica estera- e non sarebbero mancate in futuro, a cominciare dalla crisi del Kosovo in cui il gruppo di fuoco della NATO si è già schierato pronto a vomitare il suo potenziale di morte e distruzione sul Popolo serbo.

Ma è ridicolo aver voluto la crisi su una finanziaria che, per la prima volta dopo quasi un decennio di sacrifici, pur nella pochezza delle cifre, andava incontro alle esigenze dei ceti più deboli -80 mila lire d'aumento per le pensioni minime- ed era in gran parte destinata alla creazione di nuovi posti di lavoro. Una finanziaria non certo di sinistra ma, crediamo, socialmente più avanzata di quella che riscriverà un governo in cui il concorso dell'UDR di Cossiga sarà determinante.

L'applauso delle destre, la soddisfazione espressa dalla parte più retriva della CEI e del padronato sono la naturale conclusione dell'ennesima faida a sinistra nella quale il mite Bertinotti ha assunto su di sé le responsabilità del boia.

 

 

 

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