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anno 1 * n° 1

INCUBI POLITICI

 

L’Ulivo mondiale

A. de Ambris

 

Il «vertice» fra Clinton, Blair, Cardoso e Prodi organizzato sotto forma di convegno dalla Facoltà di Legge della New York University il 21 settembre induce a qualche riflessione. Al di là della strumentalizzazione a fini di politica interna operata dalle forze di centrosinistra nostrane, che hanno tentato di accreditare l'episodio come una dimostrazione del presunto prestigio italiano in campo internazionale nell'era dell'Ulivo, ci si chiede di che cosa si sia trattato esattamente.

È stato un tentativo di superare l'Internazionale Socialista nell'ambito di una concorrenza tra riformismi più o meno moderati? È stata una sorta di prova generale per l'«Ulivo mondiale» evocato nelle settimane scorse da Prodi? E può essere considerata, quest'ultima, un'ipotesi auspicabile? Quale significato rivestirebbe una sua concretizzazione?

Walter Veltroni ha speso parole entusiastiche per l’incontro di New York che avrebbe costituito, il primo passo verso la costruzione di una «rete» di tutti i riformisti appartenenti anche a forze non etichettate come di «sinistra», per cui starebbe nascendo «qualcosa di nuovo e chi non lo vede è cieco». Ma le parole dei vice-presidente dei Consiglio non sono da prendere troppo sul serio. Il personaggio incarna bene l’incapacità di crescere e l’adolescenza interminabile dei politici professionali della gioventù comunista italiana nella sua ultima fase dissolutiva berlingueriana, un'adolescenza placata da raccolte di figurine Panini e collezioni di films del tipo «come eravamo».

Allo stesso modo, ci sembra francamente inutile analizzare le compiaciute dichiarazioni di Prodi sui suoi incontri internazionali ad alto livello. Il popolare bolognese incarna bene, infatti, soltanto la vecchia avidità della borghesia di Stato democristiana provvisoriamente placata davanti ad un piatto di tortellini ed asservita alle oligarchie finanziarie transnazionali. Ricordiamo -per inciso- che il 9 maggio scorso, incontrandosi alla Casa Bianca con Clinton, Prodi aveva avuto modo di vedere -in preparazione dell'incontro per tracciare la «Terza Via» del liberalcapitalismo- il suo amico Robert Rubin, con il quale ha in comune un passato come consulente alla nota agenzia finanziaria Goldman Sachs.

Più interessante sarà, allora, rivolgere l’attenzione a ciò che aveva detto Tony Blair ancor prima che si parlasse del vertice di New York. Egli aveva spiegato, in una lunga intervista a "The Guardian", che l’Internazionale Socialista era superata e che era suo obiettivo costruire un rapporto fra l’Europa tutta e gli USA. L’idolo dei buonisti Tony Blair, che si è sempre accodato per primo alla disponibilità militare a bombardare i popoli e gli Stati che in qualche modo si oppongono alla dittatura della sola superpotenza rimasta, ha teso dunque a presentarsi come l’ambasciatore a New York del socialismo europeo.

Ma quale socialismo? Il socialismo del suo New Labour Party lo conosciamo bene da tempo: incuria totale (tranne che nei discorsi di propaganda elettorale) per il disagio sociale e occhio fisso alle gelide cifre dei bilanci in Gran Bretagna. Ciò che il primo anno di governo Blair ha sancito al di là di ogni dubbio è che Tony Blair è il vero erede e successore di Margaret Thatcher, dopo l'assurdo e insignificante interregno di John Major. Sebbene stiano in partiti opposti, Blair ammira e consulta la «signora di ferro». Anche la Thatcher lo ammira e dice che il giovane premier è un politico di prim’ordine. Insomma, il blairismo è un «thatcherismo dal volto umano».

La situazione geopolitica mondiale spinge, d'altronde, il governo degli Stati Uniti all’intesa con leaders europei quali Tony Blair e Romano Prodi, i più idonei alla condivisione di politiche economiche neoliberiste «temperate» come quella dell'amministrazione Clinton (non a caso al «vertice» non sono stati invitati né il primo ministro francese Jospin né il capo dei socialdemocratici tedeschi Schroeder). Si tratta -per l’amministrazione americana- di trovare un'intesa diplomatica e politica con un'Europa, secondo il motto del senatore Agnelli, «all’inglese», cioè «capace di mobilità nel mercato globale» (ossia capace di ridurre lo Stato sociale ad un simulacro) in funzione anti-islamica, anti-giapponese, anti-africana, ecc.

Certo, ora che si è scoperto che Clinton, prima di andare a messa con Hillary, pregava a modo suo pure con Monica, l’annuncio della buona novella della «Terza Via» liberalcapitalista assume un'aria un po' grottesca. Ma in fondo anche Bill, come Prodi e Blair, è religioso, un battista convinto, benché non proprio osservante. Prodi, sposato dal cardinal Ruini in persona, è sempre stato paragonato ad un parroco e anche Tony Blair da giovane è stato a lungo indeciso tra l’avvocatura e la vocazione dei predicatore.

Alla prospettiva agghiacciante di un'Europa dominata da un Ulivo buonista e mondializzato, espressione della egemonia economica e culturale degli USA e delle oligarchie finanziarie transnazionali, si può tuttavia opporre un'altra visione dell'Europa: quella di un continente dove prevalgano l’istinto politico sociale, il protezionismo che tutela i bisogni locali e che contrasta l’avanzata del mercato globale.

Risparmio, famiglia, comunità sono gli elementi di consenso umano e individuale che hanno costituito le basi della civiltà del Vecchio Continente e che gli hanno evitato, fino ad oggi, gli orrori dei ghetti americani. Gli Europei sono ad un bivio: optare per la sicurezza e per un'etica della solidarietà sociale oppure prendere la via del Nuovo Mondo, ostile a tutto questo e basata sul darwinismo sociale delle «opportunità» e del «merito».

 

A. de Ambris

 

 

 

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