AuroraHome PageRivolta Ideale


anno 1 * n° 1

LA SOCIETÀ CIVILE

 

Criminalità organizzata e società civile

Francesco Moricca

 

La delinquenza, a qualsiasi livello di organizzazione, è un fenomeno connaturato e ineliminabile del vivere in società. Se una società esiste in quanto sono date delle regole di comportamento, si deve ammettere la possibilità che esse siano violate. Ciò è vero sul piano pratico quanto in quello teorico. La «Legge» come suprema espressione religioso-giuridica della «regola di comportamento», esiste in quanto esiste, sancita per così dire «legalmente», la realtà del crimine che si costituisce mediante la realtà della «Legge» nel momento stesso in cui viene emanata. Prima che ciò avvenga, anche la più inaudita efferatezza non è «crimine». In quest’ottica, il comportamento che sarà definito «criminale» viene prima della «Legge» e non viceversa, quasi che derivasse, da una «imperfezione della Legge», come sostengono le dottrine giuridiche «progressiste» dal Settecento ad oggi. Da questo errore derivano tutte le aberrazioni della legislazione contemporanea che pertanto non sono passibili di soluzioni «tecniche». La «crisi della legalità su scala planetaria» di cui disquisisce la rivista "Liberal", è la prova palmare di ciò, ma non condividiamo affatto che la si possa superare col «tecnicismo giuridico».

Riprendendo le teorie settecentesche di un Verri e di un Beccaria sulla «giustizia dal volto umano» tesa al «recupero del criminale», si potrebbe in esse vedere il primo tentativo di razionalizzare ai fini del capitalismo nascente la funzione di «criminalità» e «società civile» da noi indicata: di razionalizzarla appunto in senso non repressivo acciocché la criminalità possa diventare un fattore organico allo sviluppo capitalistico, da utilizzarsi anche a scopi «politici» di destabilizzazione sociale se non ancora, nel Settecento, come pura fonte di profitto. Ecco il significato recondito del filantropismo illuministico trasferito alla sfera del diritto, del presentare il criminale come «vittima dell'ingiustizia sociale» che cesserebbe di esistere nella «società perfetta», che va «garantito» in ogni modo e a qualsiasi costo finché essa finalmente non sarà realizzata.

Il cosiddetto «garantismo» di cui si riempie la bocca il Cavaliere di Arcore -ma anche i comunisti di un tempo laddove non erano al potere- è il figlio dei Verri e dei Beccaria, di un certo modo di intendere il «Progresso» in cui Berlusconi e Bertinotti si trovano sostanzialmente d’accordo.

Questa ideologia fu il principale cavallo di battaglia di Magistratura Democratica fin dalle origini. Se Magistratura Democratica avesse effettivamente svolto presso il potere giudiziario la funzione di «egemonia culturale» che si attribuisce e che universalmente le si attribuisce, i problemi della Giustizia in Italia, che non sono solo quelli della lotta alla criminalità organizzata, non sarebbero al punto in cui si trovano. Vi sarebbero, si, come in qualsiasi Paese «avanzato» dell’Occidente in cui la Giustizia riesce ancora a funzionare passabilmente.

Certo, Magistratura Democratica ha avuto da fare e ancora ha da fare con organizzazioni criminali come quella siciliana e napoletana che, a differenza che nel resto d’Europa, godono della protezione politica degli Stati Uniti dal 1943. E ciò ha favorito la omologazione e rapida internazionalizzazione di altre organizzazioni criminali italiane, di quella calabrese, di quella pugliese e persino di quella sarda.

Ma è incontestabile che Magistratura Democratica non ha saputo sfruttare al meglio l'appoggio in funzione anti-americana che offriva l'Unione Sovietica tramite il PCI. La responsabilità di ciò non si sa se sia più di Magistratura Democratica o del PCI. In ogni caso, alla base dei loro «errori politici» vi è un errore di fondo in sede di dottrina giuridica: quello di ritenere che sia la «Legge» a fare il criminale e che essa, «incarnandosi» nella Magistratura, abbia facoltà di «redimerlo», magari «patteggiando la pena». Questa facoltà non le appartiene assolutamente per il principio stesso della «divisione dei poteri». Appartiene invece ai politici. Né i Magistrati possono venirci a dire che «le leggi le fanno i politici». Sono loro, o una parte di loro, che suggeriscono, ai politici i «tecnicismi giuridici». Tutti i Magistrati sono così egualmente responsabili di tradire la Giustizia in nome del «tecnicismo giuridico». Essi devono, per la natura della loro funzione, intendersi del diritto e avere ben chiaro quando il «tecnicismo giuridico» entra in conflitto col normale senso della giustizia. I Magistrati possono lamentare la «sfiducia dei cittadini nelle Istituzioni» con molta minor ragione che non i «politici» che in buona parte non sono che ignoranti faccendieri, ignoranti non solo in materia di diritto. D’Alema e i suoi suppongo lo sappiano bene. Ancor meglio sanno che è ormai troppo tardi per riparare a quello che forse è stato il più grave errore del PCI aver messo le mani nella Magistratura e averle messe assai male, peggio dei democristiani da cui non c’era da aspettarsi che il male che fecero.

Le responsabilità di Bertinotti sono anche maggiori. Pesano sulle sue spalle le responsabilità del PCI e in più quelle di oggi: di insistere nel garantismo delle «fasce più deboli» della criminalità, drogati piccoli spacciatori, senza rendersi conto che è di questa «criminalità minore» che si nutre la maggiore, tutt’uno col capitalismo finanziario o con la sua pervasiva «irresistibile» avanzata. È ormai definitivamente trascorso il tempo in cui si poteva utilizzare la criminalità, sia puro cinicamente, in senso «rivoluzionario e proletario». Oggi, più che in ogni altro periodo storico, la criminalità rappresenta un potente fattore di conservazione e all’occorrenza di reazione. Lo ignora forse l’on. Bertinotti? O finge di ignorarlo perché ancora legato, nonostante tutto, alla logica italiota della «politica politicante»?

 

Francesco Moricca

 

 

 

Articolo precedente

Articolo successivo