da "AURORA" n° 13 (Gennaio 1994)

RILEGGENDO

Troviamo tra le vecchie carte questo scritto di Pino Rauti, comparso su "L'Italiano" diretto da Pino Romualdi, anno XI, n°5.  Si tratta di un articolo risalente al maggio del 1970 che, a nostro parere, mantiene integra, ed accresciuta nel tempo, la propria forza. Nel riproporre ai nostri lettori tali riflessioni di quasi un quarto di secolo fa, vogliamo anche adempiere ad una nostra personale esigenza: un esigenza... autogiustificatoria, per avere (alcuni di noi) seguito fideisticamente un uomo capace di simili analisi politologiche. Che poi dalle brillanti teorizzazioni non siano derivate la coerenza e la politicità dei fatti; ebbene, è altra penosa questione...


 

Alzarsi in piedi e tornare a camminare

Battaglia di civiltà

Pino Rauti

 

C'è un gap nell'Occidente, del quale si parla poco, ma che tuttavia sta emergendo con forza drammatica alla ribalta della cronaca, e della vita di tutti i giorni: quello esistente tra la perdurante superiorità occidentale in fatto di tecnica, organizzazione e produttività, e l'incapacità evidente di assicurare una «gestione civile» alla collettività vista nel suo complesso. Il dislivello del quale parliamo, è particolarmente evidente negli Stati Uniti, e questo non avviene per caso; perché l'America del Nord può essere considerata davvero, e si potrebbe dire emblematicamente come la portatrice e l'alfiere al tempo stesso dei più alti record tecnico-scientifici mai raggiunti dall'umanità, e dei problemi più acuti che si connettono alla conduzione organizzata, armonica, equilibrata, civile insomma, della società.
Un esempio, che non si riporta per mera comodità espositiva, può dire tutto meglio di un lungo discorso: quando Nixon andò a insediarsi nel Campidoglio, a Washington, il "New York Post" scrisse icasticamente, riferendosi al dilagare della criminalità e del teppismo (che angustiano in termini quasi incredibili per noi europei la vita quotidiana della capitale federale), che il nuovo presidente, ascoltando di sera le sparatorie, si sarebbe certo chiesto se «non era diventato, per sbaglio, lo sceriffo di Dodge City». E anche di recente, giornali americani hanno insistito sul fatto che gli Stati Uniti sono in grado di mandare uomini nello spazio e sulla Luna, e di, recuperarli, quando sono in pericolo con una performance tecnica di primo ordine, ma non riescono ad assicurare a milioni di cittadini qualunque la possibilità di uscire di sera dalle proprie case; insomma: «stanno più al sicuro tre astronauti che chiunque si azzardi ad andare a Harlem, o a traversare con una donna il Central Park».

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Non c'è solo il problema della «law and order» che però in America è in primissimo piano, tanto che Nixon proprio con questo slogan -al quale è venuto poi meno, come a tanti altri, non appena giunto alla presidenza- combattè e battè Humphrey nelle ultime elezioni; fu calcolato che almeno il 30% dei voti del candidato repubblicano andarono, in quell'occasione, non al gap in quanto tale ma a questa diffusissima esigenza. E c'è pure da tener conto, in argomento, del fatto -anche questo accertato da tutte le indagini statistiche e demoscopiche del periodo pre-elettorale- che buona parte dei dieci milioni di suffragi raccolti da Wallace dipesero dalla sua ancora più ferma difesa della necessità di «rimettere a posto» la società statunitense, squassata da violenze anarcoidi e teppistiche senza precedenti. «Non consiglio a nessun maledetto contestatore -disse una volta Wallace, con una frase che fece fortuna e venne ripresa da tutta la stampa americana e dalle reti televisive- di sbarrarmi la strada sdraiandosi per terra, perché io non freno!».
Ma dicevamo che non è solo questo problema, «della legge e dell'ordine», a fornire una base ampia alle considerazioni accennate all'inizio. Esso esiste, e si sta aggravando, in tutti i centri urbani dell'Occidente, anche di quello europeo (ma c'è pure nel Canadà e nell'Australia), in correlazione diretta allo sviluppo macroscopico delle grandi città, che camminano a passi rapidi, e in apparenza irreversibili, verso il clichè delle metropoli o addirittura delle megalopoli. Questi giganteschi aggregati umani che raccolgono in un'area ristretta cinque, dieci e talvolta più, milioni di individui (quanti, cioè, in altre epoche e in molte zone ancora oggi, compongono una piccola Nazione o uno Stato di media entità), sembra che «secernano» vizio e delinquenza da tutti i pori.
Gli studiosi di sociologia, venendo di rincalzo a quelli di urbanistica (i quali appaiono davvero terrorizzati dalla problematica che si crea in questi mostruosi conglomerati), hanno già accertato che l'aumento delle esigenze sociali di un centro avviene in termini geometrici rispetto a quelli matematici che sono dati dall'addensarsi della popolazione. E cioè: una città di tre milioni di abitanti non ha tre volte più problemi di una città di un milione di abitanti, ne ha sei volte tanti. È l'addensamento in sé che funziona da moltiplicatore, nella misura stessa in cui opera da «occasione» e da stimolo di una congerie di spinte alla «degradazione» umana.
E certo, una vita ordinata, serena; un'esistenza pulita e civile, appaiono sempre più difficili nelle moderne giungle di asfalto e di cemento. Nelle periferie-termitaio dove un'umanità soggetta a tanti stress si pigia e si addensa rancorosa e piena d'astio, un'esistenza normale è praticamente, diremmo tecnicamente, impossibile. C'è, in atto, in ogni istante, una sorta di agglutinamento collettivo che rende difficilissima la conservazione, non diciamo di un minimo di personalità propria o di autonomia «spirituale», ma sinanco la salvezza di una qualsiasi area di rispetto per le proprie inclinazioni individuali.
Si è collettivizzati e massificati senza neppure poter reagire: si va a letto alla stessa ora (perché tanto è impossibile farlo prima, in quanto i rumori degli altri ci inseguono); si ascoltano gli stessi programmi televisivi; ci si trova invischiati nella stessa ragnatela pubblicitaria, che condiziona gusti e atteggiamenti di tutti. I giovani crescono, forgiati silenziosamente, sottilmente ma efficacemente, da questo rullo compressore che si chiama, «massa». E altrove, anche al di fuori delle periferie, anche nei quartieri o rioni cosiddetti residenziali, le ondate pendolari del traffico e legate alle necessità di parcheggio, l'opera degli strumenti informativi di massa che entrano egualmente in ogni casa, le influenze che i ragazzi raccolgono a scuola e nei «gruppi» dove si aggregano, ripetono, più o meno, lo stesso modulo di società.
E quando dalle città si fugge, si evade, come suol dirsi con espressione universalmente accettata (ma che indica, a riguardarla bene, che in questi centri urbani moderni, ci si sente tutti come, «in prigione») allora è l'odissea defaticante delle sterminate colonne d'acciaio che bloccano ogni strada verso una «natura» che, a qualunque ora la si raggiunga, viene trovata già regolarmente «invasa» da folle e moltitudini irrequiete, capaci solo di ricreare ovunque -dagli arenili alle vallate montane- lo stesso rumore, lo stesso chiasso scatenato, la stessa uniformità di gesti, gusti e concetti, dalle quali con viaggio così duro, quasi a titolo di reazione istintiva, «biologica» si era voluti venir via.
Al di sotto del piano e del livello di una vita ordinata, e ancora più in giù da quello che è contrassegnato dalla lenta degradazione del costume che sembra un portato inevitabile della vita massificata, ci sono altri problemi che vengono alla luce: li potremmo definire quelli della «gestione civile» in genere, e cioè di una amministrazione competente, oculata, pronta; che è poi l'unica che ci vorrebbe per queste grosse entità sociali nelle quali tende a concentrarsi la vita dei nostri giorni.
Tutta l'impalcatura burocratico-amministrativa contemporanea risente in maniera sempre più evidente dei guasti della «politicizzazione» che è solo la copertura grazie alla quale si fa avanti e imperversa, la faida partitica e delle cricche di sottogoverno.
Le grandi città moderne avrebbero bisogno più di ogni altra aggregazione umana di un tipo di amministrazione altamente tecnicizzata, basata sulle specializzazioni e le competenze. Ovunque, in Occidente, assistiamo invece al fenomeno dell'allargamento delle prassi democratiche e addirittura «assembleari». Invece di tecnici e di scienziati, il sistema ci offre demagoghi, faccendieri e più o meno piccoli intriganti, i quali, assolutamente digiuni di urbanistica, sociologia, e via dicendo, sono invece abilissimi nell'arricchirsi, tagliando «fette» adeguate anche ai centri di potere partitico che hanno assicurato loro il posto. Quando non si scade addirittura nella nuova scoperta, che è rappresentata dall'assembleismo giacobino, dietro il quale le suddette cricche riescono egualmente ad operare, ma che si presenta come la quintessenza della negazione assoluta di ogni capacità qualificata e qualificante di intervento serio.

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Naturalmente, non dovunque la situazione si presenta in termini identici; quando si parla dell'Occidente bisogna tener presente che gli stessi strumenti politico-amministrativi sbagliati danno luogo a «gradi di errore» diversi perché urtano contro una differente realtà umana e tradizionale, la quale reagisce come può a questi fermenti di intossicazione e di degradazione. Ad esempio, nell'area europea del Nord, le strutture amministrative sono ancora abbastanza solide e funzionali, e non sembrano ancora afflitte da quei problemi «elementari» che conosciamo noi in Italia: olandesi, danesi e scandinavi, con il genio atavico dell'organizzazione che posseggono, riescono ancora abbastanza bene a tirare avanti; e almeno, nelle loro città non c'è l'oltraggio della mancanza di spazi verdi, dell'addensamento antiumano, del traffico angoscioso. Ma si sta arrivando ovunque allo stesso livello; la «corsa al basso» è difficile che si arresti, una volta iniziata, e, poste certe premesse, è quasi fatale che si giunga a determinate conclusioni.
Lì però, il problema è un altro: ed è rappresentato da un insieme di fattori che riprendono a un livello diverso la stessa tematica «umana» che è poi tipica dell'epoca contemporanea: anche in città che, bene o male, non franano ancora nella disorganizzazione caotica e nella gestione camorristica, l'uomo è in crisi, l'uomo è solo. Il comfort, il benessere, la disponibilità .di beni materiali, non evitano l'alienazione, il senso di incompletezza, le frustrazioni. E poiché a tutto ciò l'individuo reagisce, ecco che abbiamo le evasioni «artificiali» a base di teppismo gratuito, all'insegna della droga, dell'alcoolismo e della pornografia.
Basta andare in una qualsiasi città del centro e nord Europa, per accorgersi che, alle prime ombre della sera, esplode una sorta di cupa follia edonistica e nasce una specie d'altra città: tutta dedita al giuoco, al vizio, alle perversioni; una città che comprende interi «quartieri» a ciò consacrati, e nei quali la forza pubblica si limita a controllare, abbastanza da lontano, che nessuno violi troppo clamorosamente un minimo ristrettissimo di norme penali. Il tutto, in un'atmosfera piuttosto triste, che non ha nulla a che spartire con le naturali manifestazioni del sesso e della gioia di vivere che di solito si collegano istintivamente a una normale ricerca del piacere. È tutto artefatto, sforzato, eccessivo, ai limiti dell'anormalità, o che anzi le anormalità sfrutta in pieno per il maggior successo commerciale.
Non è un mistero per nessuno che, in questo tipo di società, la pornografia è diventata una vera e propria industria, i cui «bilanci» assommano a centinaia di miliardi ogni anno, danno vita a una editoria, «specializzata», coinvolgono in attività quotidiane migliaia e migliaia di persone, allungano tentacoli sempre più solidi nella cinematografia e nella televisione, e, in complesso, creano gusti, atteggiamenti e mode di vastissima, e crescente, influenza nel cui «giro», volenti o nolenti, entrano milioni di individui. È la «permissive society», nella quale l'accanimento maggiore è posto nella contestazione dei cosiddetti tabù, a cominciare dalla famiglia e dalle normali inclinazioni del sesso. 
E non per nulla quella che una volta si elogiava parlando di gente «perbene» -il che stava, anche, per gente che faceva il suo dovere nella società con serietà, onestà e applicazione leale- oggi è sbeffeggiata e irrisa: si parla di perbenismo, dimenticando che il suo contrario sta per l'essere mascalzoni, e comportarsi come tali.
Perciò, sia nel caso del tipo di società -come quella italiana- dove lo sgoverno raggiunge le stesse strutture di base del vivere collettivo, sia per quelle dove invece la crisi si manifesta piuttosto a livello della psicologia, della mentalità, del comportamento umano, il nostro atteggiamento critico deve rimanere sostanzialmente identico. 
Le une come le altre sono, società «barbare», società gestite male dalle ideologie correnti; le miserie sociali dei nostri grandi centri urbani cresciuti all'insegna della speculazione sfacciata e incontrollata, fanno da riscontro alle miserie morali delle città nordiche, dove ci sono, sì, parchi e giardini e arterie ampi, ma nelle quali formicola un'umanità dagli istinti inferiori e degradata nel suo intimo. 
I giovani italiani che non hanno quasi mai un minimo di attrezzature sportive, né scuole decenti, né un lavoro in prospettiva, possono anche invidiare i loro coetanei svedesi o danesi o tedesco-occidentali che non hanno questi problemi, ma quegli adolescenti -che avendo tutto ciò- si gettano alla droga, al vizio, alle perversioni sessuali, hanno anch'essi problemi drammatici, alla cui gravità nulla toglie il fatto che essi si snodano lungo un arco completamente diverso.

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È in questa prospettiva che la nostra «battaglia di civiltà» acquista un senso e un significato, e anche una dimensione, universale, diremmo storica. 
Perché qui, per ricorrere a un'immagine evoliana, non si tratta più di voltarsi da una parte o dall'altra in un letto d'agonia, ma di alzarsi in piedi e tornare a camminare. Lungo le strade di una civiltà, di un comportamento sociale, di un «vivere», insomma, contrassegnato e retto dai valori superiori dello spirito. Che significano, nel contesto dell'esistenza di una collettività, disciplina, gerarchia, controllo degli istinti inferiori, onestà. 
Altrimenti, tutto può andare a rotoli, anche tra le più orgogliose costruzioni urbanistiche, anche mentre la perfezione tecnica avventa i suoi ordigni tra le stelle, anche mentre salgono vertiginosamente gli indici della produzione dei beni e dei servizi. 
All'ombra dei computer e dei calcolatori elettronici, e magari all'insegna della cibernetica, l'uomo diventerà un barbaro scatenato, e la vita non sarà degna di essere vissuta.

 

Pino Rauti

 

 

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