da "AURORA" n° 13 (Gennaio 1994)

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Alleanza Nazionale e dintorni

Francesco Moricca

 


 

«Nel tempo della Concordia cantano gli angioletti, ma il lupo sbadiglia»

Berto Ricci

 


 

«Il lupo predica la concordia nel tempio dell'avarizia»

Anonimo alchimista

 


 

I risultati delle amministrative d'autunno -checchè si dia da intendere- non pongono al "polo progressista", nella prospettiva delle eminenti politiche, grossi problemi sia tattici che strategici. Può darsi che siamo arrischiati nel giudizio, ma è nostra convinzione che la sua strategia sia stata concordata già da tempo con gli Americani: al riguardo si ponga mente al viaggio, di qualche anno fa, dell'onorevole Occhetto negli Stati Uniti.
Quanto alla tattica, non potrà che essere quella sperimentata con successo recentemente. In primo luogo rischieramento della mafia che è il vero gendarme USA d'Italia dal '43 ad oggi: la vittoria plebiscitaria di Orlando Cascio a Palermo è suscettibile di una lettura in questo senso. 
In secondo luogo, impiego massiccio, e nella medesima direzione, dei media: il dissenso del cavalier Berlusconi dai giornalisti della Fininvest non è detto che non sia un'astuzia, neanche poi molto sottile. 
In terzo luogo, "convetrizzazione", con il proseguimento di Mani Pulite, degli avversari, principalmente di quello che fu il vecchio Centro. Unici ad essere risparmiati i catto-comunisti, i quali entreranno, ammesso che non lo siano già occultamente, nel "polo progressista" come per una forma di contentino dato alla Chiesa per ammorbidirne l'intransigenza su alcuni punti essenziali dell'ideologia mondialista, facendo forza sul trasformismo dei Gesuiti e fidando sulla loro capacità di influenzare anche le coscienze più refrattarie al condizionamento: indicativo in questa manovra il sodalizio palermitano fra il già nominato Orlando Cascio e il Padre gesuita Pintacuda.
Nel quadro che si è tracciato, una variabile che entro certi limiti potrebbe sfuggire al controllo mondialista è costituito dalla Lega.
È opportuno analizzare quali sono le possibili alleanze di questa importante formazione politica, anche perché, data la tattica imprevedibile del senatore Bossi, le recenti scelte congressuali non si possono affatto ritenere vincolanti nemmeno nei tempi brevi.
Il Senatore ha compreso, meglio perfino del suo irrequieto "consigliere filosofico", che il punto di forza ma anche di debolezza del suo movimento è rappresentato dall'istanza federalista, precisamente dall'equivoco che si è creato, o meglio che lui stesso ha creato, fra sistema "federale" e sistema "confederale".
Nel caso scegliesse con la dovuta chiarezza di termini giuridici il sistema federale, magari secondo la concezione di un Cattaneo, perderebbe l'appoggio perlomeno tacito dell'America, la quale ha interesse alla frantumazione territoriale degli Stati esistenti per l'antico adagio «divide et impera».
Nel caso si pronunciasse per il sistema confederale, che implicherebbe di fatto una vera e propria secessione (con un prevedibile aumento del già insopportabile carico fiscale e della disoccupazione), perderebbe immediatamente moltissimi consensi a vantaggio del MSI e del PDS.
L'alleanza con quest'ultimo, graditissima agli USA, lo confinerebbe però in una posizione anche più subalterna di quella che nello schieramento "progressista" spetterebbe ai catto-comunisti, perché non si potrebbe sperare in alcun modo nell'appoggio della Chiesa data l'anima calvinista della Lega.
L'alleanza col "nuovo Centro" di Martinazzoli e di Segni sarebbe poi invisa agli Stati Uniti che hanno decretato la morte della DC.
Ultima alleanza possibile per il Senatore è quella col MSI. Ma in tal caso è difficilissimo calcolare se i vantaggi superino gli svantaggi o viceversa. Il contributo che egli darebbe all'Alleanza Nazionale caldeggiata dalla Segreteria Fini sarebbe determinante e quindi tale da consentirgli di esigere una congrua contropartita: vale a dire la rinuncia da parte del MSI alle sue posizioni statalistiche e dunque contrarie per principio al liberismo leghista. Una tale rinuncia sarebbe una ottima garanzia da offrire agli USA per conservarne l'appoggio.
Ma non è affatto sicuro che simile garanzia sarebbe accolta. La grande finanza infatti ritiene -e non è escluso che abbia in parte ragione- che dati certi precedenti storici il limite costituzionale della Destra Italiana sia quello di essere «caduta nelle grinfie del fascismo», se non addirittura, secondo un'altra nota interpretazione, di «aver tratto dal suo seno il fascismo», quel fascismo che oggi sarebbe rappresentato dal MSI e che starebbe mettendo in atto una «seconda infernale macchinazione» onde fascistizzare il liberalismo europeo in versione contemporanea; quel neo-capitalismo che se stenta a decollare in Italia è tuttavia già decollato in Francia e soprattutto in Germania.
In altre parole, per la Grande Finanza e per gli Stati Uniti, il fascismo è oggi costituito dalla tendenza dell'Europa, ma anche del Giappone e della Cina, a farsi valere autonomamente, per ora, solo in termini economici.
Questa tendenza non può ritenersi "puramente economica" perché contiene in sé un antagonismo "di altra natura" che "ancora" non si è espresso in termini politici: è sintomatica della preoccupazione americana per il futuro, l'ostilità di Washington per la costituzione di un corpo d'armata misto franco-tedesco, nonché la recentissima "svolta asiatica" della politica estera statunitense.
L'identificazione del nuovo fascismo con gli aspetti "più granghignoleschi" del vecchio (si veda la strumentalizzazione dei naziskin), diventa tanto più forzata quanto più è funzionale alla propaganda progressista, non solo al condizionamento più o meno ideologizzante ma alla coartazione di un'opinione pubblica resa sempre più omogenea e neutra nella psiche. È con questi mezzi che la pregiudiziale antifascista resiste con successo nonostante le sue patenti falsificazioni. 
Si è riusciti così a vedere il fascismo ovunque facesse comodo: in De Gaulle, in Craxi («fascista e ladro»), in Kohl («democristiano fascista»), persino nel Pontefice (perché fascisticamente impegnato nella "campagna demografica"). Chiunque anche timidamente stoni nel coro diventa «fascista», ne ci si cura che così facendo si finisce con lo spingere verso il fascismo tutti gli uomini che ancora conservano un barlume di autonomia morale, compresi gli stessi antifascisti veri.
Il senatore Bossi si trova così ad essere fascista non tanto per la "trivialità dei modi", quanto piuttosto per la sua vocazione europea, anzi "mitteleuropea". (E per ragioni, come sappiamo, ben diverse da quelle per cui all'epoca del primo conflitto mondiale Gran Bretagna e Stati Uniti ritenevano fascisti ante litteram Guglielmo II, Francesco Giuseppe e il Sultano della Sublime Porta). Fascista in pectore -nonostante infinite testimonianze fattuali in senso contrario- diventa il sen. Bossi nel momento stesso in cui, dopo l'esito delle amministrative, si trova nella necessità di compiere liberamente delle scelte di alleanza che potrebbero risultare non conformi agli interessi immediati della Grande Finanza: delle scelte si badi, che discendono dalla lettera e dallo spirito democratico del sistema elettorale anglosassone che egli crede -vogliamo ritenere in assoluta buonafede- di aver sostenuto e fatto accettare al popolo nel rispetto più completo della norma costituzionale, ma in realtà è stato imposto a lui come a tutti gli italiani.
Noi crediamo che il Senatore, che è tattico finissimo quanto incertissimo stratega, abbia assunto le ultime posizioni che in sostanza equivalgono ad una non scelta -all'idea di fare della Lega il "nuovo Centro" non credono né lui né tanto meno il Cavalier Berlusconi-, proprio per non danneggiare i suoi rapporti con la grande finanza, in attesa che gli eventi evolvano accrescendo il suo peso contrattuale quando sarà la Grande Finanza a dover fargli delle proposte ben precise, per esempio nel caso che nelle eminenti politiche si profilasse in Italia un risultato simile a quello che è avvenuto in Russia, allo scopo di evitare un intervento armato nel nostro Paese. Intervento che è teoricamente possibile perché noi, a differenza dei Russi, non possiamo certo minacciare per ritorsione l'impiego dell'arma nucleare e ci troveremmo non nella condizione della Serbia ma in quella della Somalia (Sic!).
Le debolezze non solo strategiche ma anche tattiche della Grande Finanza e degli Stati Uniti sono da considerarsi con la massima attenzione da parte nostra: si è visto infatti che entrare in Alleanza Nazionale sarebbe per la Lega e per la stessa Grande Finanza la soluzione più vantaggiosa, come non è certamente sfuggito al senatore Bossi. Tuttavia i rischi che una tale operazione comporterebbe sono tali per la Grande Finanza da precluderle la scelta tempestiva da cui obiettivamente dipendono le decisioni del Senatore.
La presenza di queste debolezze, alle quali bisogna aggiungere quelle derivanti dall'affermazione inquietante della destra in Russia, apre alla destra italiana prospettive di manovra mai prima esistite da cinquant'anni ad oggi, sia in termini di tattica che di strategia. L'occasione sul piano strettamente tattico non è sfuggita né al senatore Bossi né all'onorevole Fini, e non deve sfuggire, come certamente non sfugge a loro, che al di là di certe questioni di principio, peraltro fondamentali, le rispettive posizioni sono di fatto molto vicine, anzi devono per forza di cose convergere al momento opportuno.
Quanto alla strategia, qualunque giudizio si possa dare sugli obiettivi della Lega e del MSI, bisogna assumere, come punto di partenza per qualsiasi strategia altra, che queste due formazioni politiche, che sono oggi la Destra italiana, sono e resteranno sempre antagoniste.
Il senatore Bossi è dunque un «fascista suo malgrado», come del resto il Cavalier Berlusconi che ci ammannisce una televisione americanissima, e che tuttavia stringe la mano all'onorevole Fini dichiarando che se fosse stato cittadino romano avrebbe certamente votato per lui.
Sarebbe troppo facile dare una definizione ironica dell'onorevole Fini.
Dire, ad esempio, che è anche lui un «fascista suo malgrado». O che, al contrario, si dichiara non fascista suo malgrado.
Ci sforzeremo di prendere le distanze dal nostro antagonismo, in questo caso. Un antagonismo nei confronti dell'antagonismo non necessariamente è un antagonismo "al quadrato" e in definitiva un non senso. È piuttosto un antagonismo critico, con tutti i rischi che da esso derivano. Intendiamo il rischio del moderatismo da una parte e il rischio dell'estremismo avventurista dall'altro.
Una localizzazione filosofica dell'antagonismo critico può essere la seguente: esso si pone al centro e, evolianamente, «cavalca la tigre». Una definizione filosofica non esiste perché non è possibile racchiudere in una formula ciò che si costruisce di volta in volta nell'azione, che presuppone sì conoscenze e tecniche operative, ma è un nulla senza la volontà, la quale è cosa indefinibile a priori; se non la si possiede non ve modo di procurarsela con tutta la filosofia di questo mondo.
L'antagonismo critico che qui si propone non è tuttavia riconducibile al volontarismo (nemmeno a quello gramsciano), quasi fosse una specie di trotskismo di destra, perché un limite insormontabile non tanto nella realistica valutazione di ciò che si può ottenere, quanto piuttosto nella Weltanschauung tradizionale che si dice ciò che si deve volere e ciò che non si deve. Non si può quindi neanche ricondurre alla "politica pura", alla politica come "scienza autonoma" da utilizzarsi indifferentemente in funzione di una qualsivoglia deontologia conservatrice, reazionaria o rivoluzionaria che sia. La nostra personale appartenenza alla destra tradizionale (ben altra cosa rispetto al tradizionalismo bigotto e filisteo e ben altrimenti aperta al popolo e persino "libertaria", di quanto non siano tutti i "progressismi" del secolo XX) esclude che la dimensione dell'umano si esaurisca nella politica, pur negandosi con fermezza che possa presciderne o eluderne la milizia politica.
Da ciò deriva che la nostra personale posizione nei riguardi della "politica pura" non di aprioristica chiusura e che tuttavia non possiamo spingerci per nessuna ragione di "ordine tattico" oltre ben precisi limiti: quelli -per essere chiari- che segnano il confine varcato il quale si passa dal terreno della tattica al terreno della strategia. 
Noi e quanti condividono la nostra posizione, non vogliamo rinunciare alla nostra identità per il medesimo motivo per il quale la sinistra del Movimento Antagonista non vuole rinunciare alla propria.
«Andare al di là della destra e della sinistra» non deve essere in nessun modo un espediente che sottenda, nello spirito della "politica pura", l'inconfessato disegno delle parti di prevaricare l'una sull'altra. 
Diciamo a chiare lettere, e con intenti provocatori, che qualora all'interno della nostra formazione politica la sinistra dovesse prevalere -non peraltro che a causa del condizionamento ideologico che pesa inevitabilmente su ognuno e per contrastare il quale si fa ancora troppo poco perché pressati da altre impellenze-, conseguenza ineludibile sarebbe, al di là della volontà di tutti, l'essere strumentali alla politica del PDS. La quale -insistiamo nei nostri giudizi arrischiati per non dire "inopportuni"- è ciò che assolutamente bisogna evitare. 
Non per interessi di fazione, ma nel supremo interesse del Paese e non solo di esso.
Come principio generale occorre assumere che il «superamento della destra e della sinistra» comporta per necessità delle unioni ibride in un primo tempo, ma che tuttavia alla fine deve prevalere o la destra o la sinistra. Per quel che ci tocca direttamente, il problema è prefigurare quale destra e quale sinistra alla fine potrà prevalere. Ciò che a nostro modo di vedere distingue la vera destra dalla vera sinistra e che per la prima il prevalere è più un fatto spirituale (un fatto di autentica persuasione) che un fatto materiale (un fatto di mera imposizione che nasce dall'abilità manovriera dei "politici puri" come anche, al limite, da quella violenza rivoluzionaria che «abbrevierebbe le doglie del parto della storia»). Dal punto di vista della destra tradizionale l'intesa con tutte le forze politiche (marxisti-leninisti compresi) ha senso solo a patto che esse prendano coscienza che è ora finalmente di rifondare il modo di intendere la politica, di realizzare nella prassi e per gradi il superamento, ovvero il progressivo distacco dalla "politica pura". Diciamo pertanto ai comunisti più aperti e intelligenti che sono già con noi o lo saranno domani: «bisogna andare al di là dello stesso Gramsci, del Gramsci, vogliamo specificare, degli "Scritti su Machiavelli"». Ai fascisti gentiliani diciamo invece: «bisogna superare quanto ancora vi è di idealistico nella "filosofia dell'atto"».
Diversamente ciò che abbiamo iniziato come Movimento Antagonista e che continueremo sotto altro nome (a noi personalmente non dispiace chiamarci in futuro "Sinistra Nazionale" perché non siamo abituati a sollevare problemi nominalistici), sarà certissimamente destinato all'insuccesso, per quanto, in concreto, si possano conseguire i risultati più lusinghieri, per quanto le condizioni storiche siano -come sono- favorevoli, per quanto si sia capaci di sfruttarle meglio degli avversari.
Benché noi si sia convinti personalmente che stiamo vivendo la fine di un Ciclo, e che i condizionamenti epocali pesino sulle possibilità di reazione in senso contrario anche sugli individui più consapevoli -ma in ciò proprio si coglie il senso della libertà umana che può non sottrarsi all'azione nonostante le prospettive di un successo immediato siano pressoché nulle-; benché non vogliamo nascondere una misteriosa soddisfazione nel constatare che i miti progressivi di tutti gli "ismi" della modernità dai quali comunque si è stati personalmente condizionati e in cui perfino si è creduto, siano a pezzi sotto gli occhi di tutti e in maniera incontrovertibile; non per questo vogliamo contrapporre ai miti crollati il mito della decadenza, né il mito spengleriano ne qualsiasi altro mito che tenda a scoprire valenze positive -vere o presunte- della decadenza.
Proprio perché crediamo nel Destino, chiediamo che ognuno segua il proprio fino in fondo. Che ognuno «reciti la propria parte» quale che sia, ma nella consapevolezza che tutte le parti sono egualmente importanti e che nessuno, all'interno e fuori dal nostro Movimento, può arrogarsi il ruolo del primo attore senza prima persuadere di esserlo veramente. Nel nome che al nostro Movimento molti vogliono dare di "Sinistra Nazionale" è evidente -ci pare- una netta contrapposizione a quella che fu la Destra Nazionale e che oggi si vuole riproporre come Alleanza Nazionale. Ciò è giusto. Ma bisogna tener presente le considerazioni che sin sono fatte all'inizio del nostro discorso, ciò per cui la proposta di Alleanza Nazionale non può ridursi ad una delle solite operazioni trasformistiche nel peggiore stile italiano.
Alleanza Nazionale ha una sua parte da recitare, come una parte da recitare ce l'ha la Sinistra Nazionale. Se non si vuole accettare questa tesi quanti uscirono dal MSI per dare vita al Movimento Antagonista potrebbero a ragione ritenersi dei "frazionisti", con tutte le connotazioni che il termine ha presso il leninismo.
Assumendo un'idea di Marcello Veneziani potremmo dire che la Sinistra Nazionale potrebbe essere "per intanto" un tentativo di "rifondazione fascista"?
Potrebbe essere anche questo. Ma non solo questo. Visto che dal nostro personale punto di vista è necessario per noi prima di tutto rifondare il modo di intendere e di fare la politica. 
Si tratta, cioè, di andare al di là della "politica pura", recuperare quella che ci sembra l'essenza più profonda del Fascismo, quella che solo in parte, molto in parte, si riuscì ad esprimere durante il Ventennio. Non si tratta di rinnegare un bel nulla, neanche gli errori... Si tratta piuttosto di proseguire un cammino interrotto e in condizioni tali per cui oggi certi errori non è più necessario commetterne. Nuove vie sono aperte e si aprono. Occorre vederle e percorrerle con una determinazione che non nasca soltanto da considerazioni e pregiudizi strettamente politici.
Abbiamo detto più su cosa per noi distingue essenzialmente la Destra Tradizionale dalla Sinistra nel suo insieme considerata, e lo abbiamo individuato in un atteggiamento diverso nei confronti della politica pura: atteggiamento che è esistenziale, per cui la nostra teoria può essere accolta o respinta, ma in ogni caso non può definirsi intellettualistica -o ideologica e viziata di idealismo, come direbbero i marxisti-leninisti-.
Si deve ora affrontare un'altro problema: cosa distingue la Destra Tradizionale dalla Sinistra circa il modo di concepire la funzione del popolo nella storia e il modo con cui ci si pone nei suoi confronti chiedendone il consenso?
Per la Destra conservatrice ed economica, borghese anche prima del 1789 e allignante nella stessa aristocrazia decadente (la cosiddetta "aristocrazia illuminata"), non vi è differenza di posizione con la Sinistra perché, come sostiene Marx, anche dal punto di vista spirituale, «il proletariato è figlio della borghesia». Il popolo, che viene concepito sempre in termini di "classe", è gregge e massa da manovrarsi senza scrupolo alcuno premesso che è inderogabile se ne soddisfino i bisogni naturali, che possono andare ben oltre quelli di pura sussistenza in ragione dello sviluppo delle forze di produzione. Al contrario la Tradizione nega drasticamente che il popolo sia «plebaglia» e «informe massa» (le definizioni appartengono a Voltaire ed a Hegel): non lo è all'origine, semmai «lo è diventato» a causa della decadenza delle caste dominanti, le quali non possono mai identificarsi né con gli intellettuali né coi plutocrati, tanto meno esserne condizionate in alcun modo. Il popolo è realmente attore della storia solo a patto di essere in unità organica con i suoi capi politico-religiosi. Il che sposta il problema del consenso su di un piano diverso, molto diverso, da quello cui lo pone qualsiasi democrazia, antica o moderna, liberale o socialista.
Instaurare rapporti col popolo, per chi si richiami oggi ai valori della tradizione, non può essere affatto un problema di "politica pura". Si tratta soltanto -ma è tutt'altro che facile perché è in primo luogo una questione di qualificazione spirituale- di restaurare il rapporto originario fra i capi e il popolo, non inteso come entità astratta o massa ma come ciò che vive concretamente in ogni essere umano, indipendentemente dal colore dalla classe sociale di appartenenza e dal colore della pelle. 
Ciò richiede franchezza, al limite brutalità. Occorre dire la verità al popolo, mettere decisamente da parte il timore, proprio ai "politici puri", di dire verità inopportune che alienerebbero le simpatie di quel popolo al quale si chiede consenso e che non si può offendere. Circa il rischio di urtare la suscettibilità popolare, occorre non curarsene più dello stretto necessario quando si rivolge al popolo dei ricchi. Quando invece si ha da fare con quello ben più numeroso dei non ricchi e dei veramente poveri, tale rischio non esiste per chi rifiuti la politica pura. Non perché non vi sia da temere dagli umili, ma perché essi al contrario «non si offendono» quando si dice loro la verità, e gliela si dice con senza superbia (non evitando l'ostentazione della superbia). 
Ma a tanto occorre una capacità di reale immedesimazione nella condizione del proprio simile che è la cosa che più difetta nel mondo contemporaneo. La si chiami «carità cristiana» o «compassione buddhistica» poco importa. Il vero problema è che essa non sia ciò che quasi inevitabilmente è nel mondo contemporaneo: cioè un altro modo per eludere la personale impotenza sperdendosi nell'altro da sé, dove quest'altro è omologo agli altri, a Dio e al suo contrario, la ricchezza materiale, il «potere per la ricchezza», forse -ma c'è da dubitarne- il «potere per il potere». Per tale motivo prima si parlava della necessità, inderogabile per chi voglia oggi far politica -e non solo per quanti si richiamino alla Tradizione-, di possedere una adeguata qualificazione spirituale. E questo è un'altra prospettiva in cui va visto il superamento fra Destra e Sinistra. 
Infine vogliamo tornare sulla questione del federalismo, che è di attualità non solo perché -come si è visto all'inizio- è fondamentale della proposta leghista, ma perché lo diventa anche per il nostro Movimento essendo esso politico, anche se proteso al superamento del lato "puramente" politico dell'azione antagonista quale non ci stancheremo mai di raccomandare ad aderenti e simpatizzanti.
Il federalismo pare o è -domandiamo- argomento veramente centrale? Non mi sembra che alcunché sia veramente importante solo perché tutti ne parlano e lo ritengono tale. Una cosa è l'opinione e un'altra la verità. Ciò vale per il passato, ma in modo preminente oggi, in un'epoca in cui si possono con estrema facilità creare opinioni in altri tempi impensabili.
Il federalismo è tornato d'attualità con la caduta del comunismo e il progressivo sfaldamento dei valori della solidarietà nell'Occidente capitalista. In teoria il federalismo è una garanzia di autonomia locale, di «maggiore democrazia». In pratica è una proiezione in sede di diritto pubblico dell'individualismo liberale, "dei diritti imprescrittibili" dell'uomo, della persona umana quali sono sanciti dal diritto privato. Questo vale per il federalismo moderno, e non è un caso che esso si sia sviluppato prima in Svizzera e poi nel Nord America. Era pertanto inevitabile che la crisi contemporanea degli ecumenismi residui del passato (quello cattolico e quello comunista) riportasse alla ribalta il mito dei mercanti, il mito federalista. All'usurocrazia trionfante il federalismo è funzionale su scala planetaria, perché è suo interesse distruggere il potere centrale degli Stati, ad Est come ad Ovest, a Nord come a Sud. E ciò, facendo leva sugli egoismi individuali dei ricchi come dei poveri, trasformando questi egoismi in egoismi regionali, etnici, al limite più basso tribali (nelle società civilizzate questi egoismi tribali non si esprimono tanto in fenomeni delinquenziali veri o costruiti ad hoc quali i Blusons Noirs degli Anni Cinquanta e i contemporanei Naziskin, quanto piuttosto nel fenomeno massonico-mafioso).
Ciò premesso, è evidente che il nostro Movimento non può non osteggiare con la massima energia -come fa Pallavidini- il federalismo leghista, almeno laddove questo federalismo è riconducibile al moderno.
E però -chiediamo- c'è qualcosa per cui potrebbe non esservi riconducibile?
In termini storici -e facendo salva la particolarità di alcuni leghisti come per esempio Irene Pivetti- la nostra risposta è decisamente negativa.
Il richiamo discutibile alla medioevale Lega Lombarda solo in apparenza può essere una garanzia di antimodernismo, perché in realtà -e a parte la mitologia risorgimentale e ottocentesca alla Carducci che è in fondo priva di qualsiasi riscontro oggettivo- la Lega medioevale fu piuttosto uno dei primi episodi della dissoluzione dell'ecume europeo, implicando niente più che un atto di aperta sedizione, che prefigura quello dei Cantoni svizzeri, contro l'Imperatore Federico Barbarossa; sedizione che fu possibile grazie all'aiuto della Chiesa ostile verso questo Grande Principe che voleva restaurare il potere dello Stato minacciato dalle oligarchie municipali, e lo voleva secondo l'idea di federalismo organico che era nato in Occidente con Alessandro Magno ed era stato istituzionalizzato nella maniera più perfetta da Roma e Bisanzio. Con questo non può non concordare chi si richiama al marxismo e alla storiografia sovietici, anche se poi potrebbe non condividere l'idea che il Barbarossa non si batteva solo in difesa dello Stato, ma per una concezione del mondo che era tradizionale, cioè rigidamente spiritualistica e aristocratica, per la quale il popolo contava solo se inquadrato secondo ordini e classi non per quello che era "in sé", ma per quello che era «suscettibile di diventare» grazie ad un ben individuato sistema sociale, essendo garantito dal diritto feudale che per meriti intrinsechi e dimostrati chiunque potesse essere cooptato nell'aristocrazia, che un tempo, come il clero, non era una casta chiusa.
Esiste nell'età moderna un federalismo paragonabile a quello antico che abbiamo definito "organico"? Certamente, quello asburgico che non ha caso si richiamava al Sacro Romano Impero Germanico. E, in parte, il Secondo Reich, che sorse però da un atto di violenza della Prussia bismarckiana contro l'Austria.
Cosa dire di un federalismo alla Cattaneo? Ci lascia non poco perplessi. Non tanto per quelli che potrebbero essere i suoi meriti in termini di sensatezza, ma perché, a parte le sue benemerenze patriottiche e però pregiudizialmente antipiemontesi (forse astrattamente), non condividiamo affatto il socialismo poco statalista del Grande milanese, un socialismo saint simoniano e positivista che in virtù della filosofia donde scaturisce è assai facile possa tornare funzionale alla Grande Finanza (si veda il saggio "Bancocrazia" del Barone Giuseppe Corvaia apparso a Milano negli anni l840-42, in cui si preconizzano le potenzialità di una lettura di Saint Simon in chiave usurocratica). Del resto è accaduto e sta accadendo la stessa cosa a un socialismo più scientifico di quello saint simoniano, al socialismo materialistico di coloro che un tempo si dissero "marxisti-leninisti" e oggi hanno assunto posizioni quanto incomprensibili in Italia come in Russia, dove più forte si fa sentire la pressione mondialista contro lo Stato.
Sebbene personalmente si sia distanti dal guelfismo vecchio e nuovo, troveremmo assai meno rischioso un rimando al federalismo ottocentesco di un Gioberti e di un Cesare Balbo e preferiremmo il secondo al primo. Ma i nostri gusti sono decisamente inattuali, visto che in Italia oggi non esiste niente di paragonabile a ciò che nell'Ottocento furono il Papato e il Regno di Sardegna.
Che fare dunque? Parlare alla gente, anche con argomenti inattuali. Non rimanere che il populismo, un populismo utopisticamente pedagogico da cui discenda un federalismo populista, teso non già a rispettare le differenze regionali fra gli italiani, ma a ricostruire il popolo italiano come unità organica. Un federalismo che non tenda alla differenziazione, ma alla reciproca integrazione. Ciò per i politici "puri" è impossibile. Per gli impolitici non solo tutto è possibile, ma dovrebbe essere un dovere misurarsi col demone dell'impossibile.

 

Francesco Moricca

 

 

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